Il caso. Dall'istruttoria del Prefetto di Reggio Calabria, eseguita su richiesta inoltrata alla Prefettura dai comuni di Africo e Samo, nonché dall'ARCEA di Catanzaro per ottenere il rilascio dell'informazione antimafia ex artt. 91 e 100 del D.lgs. n. 159/2011, è emerso un quadro indiziario da cui è stato rilevato il rischio di infiltrazione delle consorterie criminali nell'impresa del ricorrente che aveva formulato istanza di concessione terreni in fida pascolo.
In particolare, tale rischio si desumeva: dai diversi pregiudizi penali del ricorrente, come la sottrazione di cose sottoposte a sequestro, pascolo abusivo, truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche; dal fatto che la moglie ed il figlio del ricorrente erano stati raggiunti da analoghi provvedimenti interdittivi; dall'articolata rete di parenti e affini, gravati da precedenti penali ex art. 640-bis c.p. ed, infine, dal contesto delle concessioni di terreno demaniale per uso agricolo o pascolivo, esposta ai tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata.
Il ricorrente ha impugnato il provvedimento interdittivo in questione, contestandone il difetto di motivazione e l'eccesso di potere per travisamento dei fatti.
Nell'interdittiva, secondo il medesimo ricorrente, non vi sarebbe alcuna dimostrazione della sussistenza di elementi dai quali sia probabile accertare la sussistenza del rischio di infiltrazione criminosa sulle scelte gestionali dell'impresa.
Il provvedimento, dunque, sarebbe stato emanato unicamente per la sussistenza di legami di parentela, senza indicare elementi concreti idonei a dimostrare un effettivo legame e collegamento tra l'attività imprenditoriale di parte attorea e le consorterie criminali. Si afferma, infine, l'inidoneità dei pregiudizi penali del ricorrente a fondare il giudizio di permeabilità della sua azienda ai tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata.
La soluzione del TAR Calabria. Il giudice amministrativo ha rigettato il ricorso presentato.
Secondo il TAR Calabria, l'interdittiva antimafiacostituisce «una misura preventiva che prescinde dall'accertamento di singole responsabilità penali nei confronti dei soggetti che ne sono colpiti», fondandosi su accertamenti «compiuti dai diversi organi di polizia valutati, per la loro rilevanza, dal Prefetto territorialmente competente e che è volta a colpire l'azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti con la Pubblica amministrazione».
Ed infatti «per la sua natura cautelare e la sua funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione, l'interdittivanon richiede la prova di un fatto, ma solo la presenza di una serie di indizi, in base ai quali non sia illogico o inattendibile ritenere la sussistenza di un collegamento con organizzazioni mafiose o di un condizionamento da parte di queste».
Di conseguenza, per il giudice amministrativo occorre «non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, ma soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali - secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale - sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata».
Poste queste premesse, nel merito della questione il Collegio ritiene che i reati commessi dal ricorrente e dai suoi parenti ed affini rientrano nei «reati “spia”» che costituiscono per l'art. 84 del D.lgs. n. 159/2011, comma 4, lett. a), indice sintomatico del pericolo attuale dell'infiltrazione mafiosa nella gestione dell'impresa. Per il Tar, dunque, gli elementi di fatto descritti e richiamati nel provvedimento interdittivo sorreggono la ragionevolezza di quest'ultimo.
Per il giudice amministrativo, inoltre, deve essere «esclusa ogni presunzione di irrilevanza dei rapporti di parentela, ove gli stessi, come nel caso di specie, per numero e qualità, risultino indizianti di una situazione complessiva tale da non rendere implausibile un collegamento, anche non personale e diretto, tra soggetti imprenditori ed ambienti della criminalità organizzata» (TAR Napoli, sez. I, 9 dicembre 2019 n. 5796) «soprattutto in contesti territoriali […] notoriamente esposti al pericolo di inquinamento mafioso». (TAR Reggio Calabria, 21 maggio 2019, n. 351).
Nel caso di specie, i rapporti di parentela indicati esprimono una «tipica “influenza di fatto” che, all'interno di una “famiglia”, può condizionare, in modo più o meno consapevole ed occasionale e pur sempre secondo i criteri della verosimiglianza, i titolari di un'impresa e i familiari che siano soggetti affiliati, organici o contigui a contesti malavitosi, laddove tali rapporti, per loro natura, intensità, o per altre caratteristiche concrete, lascino ritenere, in un'ottica probabilistica, che l'impresa ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere “coordinate”, anche indirettamente, dalla criminalità organizzata».
Tale valutazione, poi, per il collegio è rafforzata dal rilievo che le concessioni per uso pascolo o agricolo, oggetto dell'istanza del ricorrente, risultano «appetibili per la malavita organizzata, tenuto conto del rilevante flusso di finanziamenti, contributi o agevolazioni pubbliche da cui sono alimentate».
Osservatorio sulla Giurisprudenza in tema di misure amministrative di prevenzione della criminalità organizzata