Patteggiamento e confisca in caso di detenzione a fini di spaccio

Francesco Vergine
02 Marzo 2023

Obbligo di confisca del prezzo e facoltatività del profitto. La pronuncia in commento si mostra particolarmente interessante poiché focalizza l'attenzione sulle nozioni di “profitto” e di “prezzo” del reato, declinate nell'ambito dell'attività di spaccio.
Massima

In relazione al reato previsto dall'art. 73, comma 5, del d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, può procedersi alla confisca del danaro, trovato in possesso dell'imputato, solo quando ricorrano le condizioni generali previste dall'art. 240 c.p., ossia allorquando il denaro possa essere considerato profitto o prezzo del reato. Ne discende che, perché possa disporsi la confisca, è necessario che sussista un collegamento eziologico tra il denaro e il reato, nesso non ravvisabile con riguardo al delitto di detenzione a fini di spaccio di sostanza stupefacente, non potendo il denaro in detto caso ritenersi, di per sé, profitto dell'attività illecita posta in essere (nella specie, è stata così annullata la sentenza di patteggiamento limitatamente alla disposta confisca del denaro, sul rilievo dell'assenza dei presupposti della misura in presenza di una contestazione di detenzione a fini di spaccio e non già di cessione di sostanze stupefacenti).

Il caso

Il giudice di primo grado, applicando la pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p., per il reato di cui all'art. 73, comma 5, d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309, disponeva la confisca del denaro sequestrato, ritenendolo provento di spaccio. Impugnando per cassazione il provvedimento, nell'interesse dell'imputato si deduceva il vizio di motivazione, ritenendo indimostrato il nesso strumentale tra le somme sequestrate e l'attività delittuosa, e comunque evidenziando l'assenza di giustificazione sul punto.

La Corte di legittimità rilevava l'ammissibilità del ricorso evidenziando come in tema di applicazione di pena su richiesta delle parti, la doglianza relativa alla mancata motivazione circa la confisca possa essere oggetto di ricorso, anche se la sentenza sia stata emessa dopo l'introduzione dell'art. 448 c.p.p., comma 2-bis, ad opera della l. 23 giugno 2017, n. 103, art. 1, comma 5, trattandosi di un'ipotesi di “illegalità della misura di sicurezza”, perciò rilevante come violazione di legge, ai sensi dell'art. 111 Cost., comma 7, e comunque riguardando un aspetto della decisione estraneo all'accordo sull'applicazione della pena (Cass. pen., sez. un., 26 settembre 2019, n. 21368 Savin, Rv. 289348).

Nel valutare la fondatezza del ricorso la Corte di Cassazione, dopo aver osservato che il giudice del merito ha fatto erroneamente riferimento al “provento” (sconosciuto all'assetto codicistico), ha indicato che la confisca può avere ad oggetto le cose funzionali alla commissione del reato, quelle intrinsecamente illecite – ai sensi dell'art. 240 c.p., comma 2, n. 2 c.p.), o di altre specifiche disposizioni di legge – nonché quelle che costituiscono il “prezzo”, il “prodotto” od il “profitto” del reato, a norma del medesimo art. 240, comma 1, e comma 2, n. 1 c.p.).

I Giudici di legittimità, poi, hanno escluso la rilevanza della tesi proposta dal Procuratore Generale, secondo la quale il denaro rinvenuto nella disponibilità dell'imputato potrebbe essere confiscato perché, successivamente, utilizzabile per pagare la droga detenuta.

La soluzione offerta dall'Accusa, definita puramente congetturale, è risultata, peraltro, non prospettata, nemmeno in via alternativa ed eventuale, dal giudice del merito.

La questione

Nel caso analizzato dalla sentenza in commento, la confisca è stata disposta giacché il denaro è stato ritenuto “provento” di attività delittuosa.

Del resto, se la nozione di prezzo è concordemente individuata nel compenso, dato o promesso, per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato (Cass. pen., sez. un., 3 luglio 1996, n. 9149 Chabni Samir, Rv. 205707), quella di profitto è stata destinataria di un più laborioso dibattito esegetico.

Così, una volta tracciato il perimetro entro cui è consentita la confisca del profitto del reato, la Corte spiega le ragioni per cui l'ipotesi analizzata si collochi al di fuori di esso, come anche le ragioni per cui le somme di cui si discorre non possano neppure qualificarsi come “prezzo” dell'illegale detenzione, sì da essere soggette a confisca obbligatoria.

Le soluzioni giuridiche

Come detto, la confisca della tradizione cade sul prezzo o sul profitto del reato. Mentre il prezzo è il compenso per indurre, istigare o determinare altro soggetto a commettere il reato, ovvero quanto è servito per compiere l'offesa del bene giuridico tutelato dalla norma, il profitto deriva direttamente dalla commissione del reato quale vantaggio economico. Al fine di individuare la res confiscabile occorre, dunque, capire cosa sia in correlazione con la condotta penalmente rilevante commessa nell'interesse o a vantaggio dell'autore del reato.

Per il profitto, l'art. 240 c.p. prevede la facoltatività proprio come per gli instrumenta sceleris, mentre per il prezzo del reato e per le cose intrinsecamente pericolose, il comma 2 n. 2 dello stesso articolo prevede l'obbligatorietà.

È, dunque, necessariamente oggetto di confisca il prezzo del reato, sulla cui nozione non c'è molto da speculare trattandosi di un concetto empiricamente coglibile: proprio tale dimensione empiricamente coglibile del prezzo porta spesso a una sua confusione con il profitto stesso, come nel caso del prezzo pagato per l'acquisto della sostanza stupefacente, che costituisce, invece, il profitto del reato (visto dall'angolo visuale del soggetto che ha commesso il reato, ossia l'attività di cessione e non già dell'acquirente, la cui condotta non rileva penalmente. Sostanzialmente la medesima somma rappresenterebbe il prezzo di un ‘non reato' ed il profitto di un reato). Come indicato dalla sentenza in commento, in astratto, le somme sequestrate potrebbero essere qualificate come “prezzo” dell'illegale detenzione qualora si trattasse, per esempio, della remunerazione corrisposta al ricorrente per la custodia o il trasporto di quella sostanza.

Infatti, relativamente al prezzo, la Suprema Corte, negli anni, ha confermato che si tratti del tandundem pattuito e consegnato da una persona determinata, come corrispettivo dell'esecuzione dell'illecito (Cass. pen., sez. un., 6 marzo 2008, n. 10280 Rv. 238700). Esso costituisce la spinta motivazionale al reato, pur non corrispondendo all'utilità economica frutto dello stesso.

Sicché la distinzione tra profitto e prezzo del reato si fonda sul diverso atteggiarsi del nesso eziologico che intercorre tra il reato e il denaro ad esso collegato. Mentre il profitto costituisce il lucro che si ricava dalla commissione dell'illecito, il prezzo rappresenta il compenso dato o promesso per indurre, istigare o determinare un altro soggetto a commettere il reato.

In particolare, la nozione di profitto ha assistito, nell'ultimo decennio, ad una grande elaborazione giurisprudenziale, talvolta assistita da coerenti coordinate normative.

La Corte di legittimità evidenzia che per “profitto” debba intendersi il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato: esso presuppone, dunque, l'accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell'agente. Così, il criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a titolo di profitto è rappresentato dalla pertinenzialità della cosa rispetto al reato: occorre, cioè, una correlazione diretta del vantaggio con il reato ed una stretta affinità con l'oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni vantaggio patrimoniale, che possa scaturire dall'illecito (Cass. pen., sez. un., 27 marzo 2008, n. 26654, Fisia Italimpianti, Rv. 239924; Cass. pen., sez. un., 25 ottobre 2007, n. 10280 Miragliotta, Rv. 238700; nonché, quantunque non massimate su tali specifici punti: Cass. pen., sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561 Gubert; Cass. pen., sez. un., n. 38691 del 25/06/2009, Caruso; Cass. pen., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29952 Romagnoli; Cass. pen., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29951 Focarelli; Cass. pen., sez. un., 17 dicembre 2003, n. 920 Montella).

Del resto, sin nelle intenzioni dei compilatori del codice, la confisca aveva la finalità di «privare il reo di cose che, provenendo da fatti illeciti penali, o in altra guisa collegandosi alla loro esecuzione, mantengono viva l'idea e l'attrattiva del reato» (Relazione sul libro I del progetto, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, Progetto definitivo di un nuovo codice penale con la relazione del Guardasigilli On. Alfredo Rocco, parte I, Roma, p. 202), mirando a neutralizzare, mediante l'ablazione, la forza “seduttiva” che potrebbe esercitare sul reo ove lasciata nella sua disponibilità.

La facoltatività della confisca del profitto implica, dunque, l'esercizio di un potere discrezionale da parte del giudice, che, tuttavia, richiede comunque la presenza di due presupposti: la condanna del reo e l'appartenenza a questi del bene oggetto della confisca. Rimane, quindi, fermo per il magistrato l'obbligo di fornire adeguata motivazione circa le ragioni che l'hanno spinto all'adozione del provvedimento ablativo.

Così, la Corte di legittimità, nella sentenza in commento, spiega che non è consentita la confisca del denaro giacché al ricorrente si addebitava esclusivamente di aver detenuto un determinato quantitativo di sostanza stupefacente a scopo di venderla, ma non già di averla venduta: le somme rinvenute nella sua disponibilità e sequestrategli non possono mai rappresentare, dunque, il vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta da tale detenzione a scopi illegali, essendo stata la sostanza stupefacente trovata ancora in suo possesso e non essendoci, evidentemente, la prova di precedenti cessioni.

La giurisprudenza di legittimità, quindi, pone una battuta d'arresto alla progressiva emancipazione della confisca del profitto del reato ancorata ad un potere meramente discrezionale del giudice, verso un'applicazione più aderente ai canoni della pertinenzialità, adeguatamente provata. La facoltatività della confisca del profitto presuppone dunque un necessario accertamento che le somme siano eziologicamente collegate, in maniera diretta ed essenziale, con il reato commesso, fermo restando che il Giudice deve dare conto, nella confisca facoltativa, dell'uso del potere discrezionale, che va esercitato in vista di considerazioni di prevenzione speciale fondate sull'esigenza di sterilizzare la commissione di altri reati, sottraendo alla disponibilità del colpevole cose escresciute dal reato.

Diversamente, assoggettare alla misura anche beni per i quali non è ravvisabile alcun nesso eziologico con il reato, imprimerebbe all'istituto della confisca una natura estranea ed eccentrica rispetto agli scopi delineati dal legislatore.

Osservazioni

La sentenza in esame si lascia apprezzare per la correttezza nell'individuazione del perimetro operativo della confisca applicata nel mondo delittuoso legato agli stupefacenti.

Se non v'è dubbio che, in astratto, le diverse facce della confisca possono agevolmente trovare applicazione anche in tale contesto (si pensi all'ablazione dello stupefacente e dei mezzi utilizzati per la preparazione e la cessione, al possibile prezzo – per come indicato dalla stessa sentenza -, al profitto derivante dall'attività di spaccio), è altrettanto indubbio che, per ogni sua forma, sarà necessario individuare e riscontrare correttamente i relativi (e non fungibili) presupposti operativi.

Da tali premesse, arricchite dalla considerazione della immanenza sistematica del principio che “il delitto non paga”, si possono trarre alcune considerazioni.

Il profitto del reato non può essere mantenuto nella sfera del reo e gli strumenti deputati al suo incameramento statuale devono essere correttamente attivati per privare il soggetto del lucro illecitamente percepito.

Sempre che, ovviamente, il giudice verifichi che quella data res sia catalogabile all'interno della relativa categoria delle cose confiscabili.

Infatti, il riconoscimento della regola dell'obbligatorietà della confisca di ogni e qualsivoglia forma di guadagno illecito, al di là della sua qualificazione in termini di prezzo o profitto, va di pari passo con l'esigenza di accertarne compiutamente le condizioni di operatività.

Anche con riferimento al reato di cui all'art. 73 d.p.r. 309/1990, per il quale astrattamente può ritenersi configurabile un profitto del reato, occorre accertare quale sia la condotta in concreto contestata, posto che essa, nella ricchezza descrittiva che connota l'ampia fattispecie di reato, ha una sua autonomia e potrebbe non aver (ancora) generato alcun profitto.

Si pensi al caso in cui il soggetto sia stato colto prima dell'inizio dell'attività di spaccio (con un insieme di elementi univoci idonei a dimostrare che la detenzione era illecita). In tal caso appare certamente contestabile il delitto ex art. 73 d.p.r. 309/1990 (nella forma, appunto, della mera detenzione illecita ma non potrà farsi applicazione della confisca di un profitto non ancora venuto ad esistenza).

Allo stesso tempo, il rinvenimento di somme di denaro nella disponibilità del soggetto cui si contesta una precedente attività di cessione di stupefacenti non può condurre, in forma pressoché automatica, alla sua confisca, essendo necessaria l'individuazione di quel legame eziologico che la sentenza in esame esige.

In tale solco, può inserirsi anche la critica al “tentativo di salvataggio” della confisca effettuato dal Procuratore generale. In effetti, ipotizzare la confiscabilità del denaro perché esso potrebbe rappresentare il costo dello stupefacente in precedenza acquistato sconta lo stesso difetto genetico poc'anzi esposto. Occorre, con un grado di affidabilità probatoria sufficiente, dimostrare l'illecita finalizzazione delle somme.

In tale ottica, un ruolo decisivo è svolto proprio dalla motivazione della iniziativa ablatoria, necessaria a dare conto non solo del fatto che quella data condotta abbia generato un profitto ma anche che quel bene che si intende attingere sia eziologicamente escresciuto da quel reato.

In altri termini, la decisione sulla confisca necessita di essere adeguatamente irrorata da una motivazione autonoma rispetto a quella sulla responsabilità penale ed idonea a dimostrare l'esistenza delle condizioni indicate.

Molto spesso, una esasperata semplificazione procedurale (rinvenibile, in particolare, nei riti speciali) conduce all'abrogazione di fatto degli elementi strutturali della confisca: essa deve rimanere una conseguenza necessaria del reato ma deve basarsi sulla verifica giurisdizionale dell'esistenza delle sue condizioni operative.