Come evidenzia la Suprema Corte, non è compito della giurisprudenza “fornire suggerimenti (postumi) su come la datrice di lavoro avrebbe dovuto regolarsi correttamente rispetto ad un dipendente già destinatario di ben centodieci sanzioni disciplinari, tutte però non espulsive”.
La Cassazione, perciò, non intende entrare nel “merito” della questione, ossia, nella giustificatezza di un provvedimento di recesso a fronte di condotte del lavoratore reiteratamente e colpevolmente non adeguate e sufficienti, ma fa presente che la procedura adottata è viziata ab origine, perché il fatto già sanzionato non è più sanzionabile e, quindi, “equivale a fatto non più antigiuridico” (sul punto, v. anche Cass. 30 ottobre 2018, n. 27657).
Ciò spiega perché alla fattispecie in esame si applichi il quarto comma dell'art. 18 Stat. lav., così come modificato dalla L. n. 92/2012, e non il quinto comma, relativo ai vizi procedurali.
La Suprema Corte si è più volte espressa sul punto (v. Cass. n. 20450/2015; Cass. n. 18418/2016), ribadendo come “non sia plausibile che il legislatore, parlando di insussistenza del fatto contestato, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione”.
La tutela applicabile è, pertanto, quella reintegratoria c.d. debole o attenuata ex art. 18, comma 4, Stat. lav., che prevede l'annullamento del licenziamento e la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro e alla corresponsione di un'indennità risarcitoria non superiore alle dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, dedotto l'aliunde perceptum e percipiendum.