Licenziamento erroneamente intimato per superamento del periodo di comporto anteriormente alla scadenza

Luigi Di Paola
16 Marzo 2023

Il tema delle conseguenze del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto prima della scadenza di questo è non poco complesso, benché sembri aver trovato una linea di definizione per effetto della nota sentenza n. 12568/2018 delle Sezioni Unite, con la quale è stata ravvisata la nullità del predetto licenziamento per violazione di norme imperative. Sulla scorta di tale modello ricostruttivo, di recente, la Cassazione, con la sentenza n. 27334/2022, ha affermato l'applicabilità della tutela reintegratoria cd. “attenuata” ex art. 18, comma 4, Stat. lav. alle piccole imprese, mediante un'opera interpretativa, basata su un criterio di razionalità, non poco articolata, come meglio si vedrà. Vi è, peraltro, il problema di conciliare, sul piano logico, il silenzio del legislatore del cd. “Jobs Act” - circa l'apparato sanzionatorio da riservare a tale forma di licenziamento “latu sensu” invalido - con la scelta precedente, compiuta nel regime della cd. legge “Fornero”, di ricondurre la sanzione a quella meno severa valevole per il licenziamento ingiustificato.
La configurazione della “nullita'” secondo la sentenza n. 12568/2018 delle Sezioni Unite

Come è noto, Cass., sez. un., 22 maggio 2018, n. 12568, ha statuito che “Il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all'art. 2110, comma 2, c.c.”.

Con detta pronunzia, la S.C. ha escluso (per ragioni che non è qui utile indagare) che, nell'ipotesi considerata, il licenziamento sia da considerare inefficace fino all'effettivo compimento del periodo di comporto e ha negato, altresì, che il licenziamento in questione possa ritenersi ingiustificato.

L'impianto argomentativo si fonda sui seguenti principi: a) il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di recesso, vale a dire una situazione di per sé idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo; b) il licenziamento in questione è nullo, poiché l'art. 2110, comma 2, c.c. - norma imperativa posta a tutela della salute, quale valore prioritario da salvaguardare all'interno dell'ordinamento -, in combinata lettura con l'art. 1418 c.c., non consente soluzioni diverse (infatti la salute non può essere adeguatamente protetta se non all'interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il proprio posto di lavoro); c) all'affermazione della nullità del licenziamento non osta l'avere il vigente testo dell'art. 18, Stat. lav. collocato la violazione dell'art. 2110, comma 2, c.c., nel comma 7 anziché nel comma 1 (riservato ad altre ipotesi di nullità previste dalla legge), con conseguente applicazione del regime reintegratorio attenuato anziché pieno, poiché “in considerazione di un minor giudizio di riprovazione dell'atto assunto in violazione di norma imperativa, ben può il legislatore graduare diversamente il rimedio ripristinatorio pur in presenza della medesima sanzione di nullità, di guisa che la citata previsione del comma 7 dell'art. 18 si pone come norma speciale rispetto a quella generale contenuta nel comma 1 là dove si parla di altri casi di nullità previsti dalla legge”; d) il licenziamento predetto non può ritenersi, in ipotesi, ingiustificato, tale dovendosi considerare solo quello che venga intimato mediante enunciazione di un giustificato motivo o di una giusta causa che risultino smentiti (in punto di fatto e/o diritto) all'esito della verifica giudiziale; ritenere tale atto espulsivo ingiustificato costituisce infatti un mero artificio dialettico, che trascura il dato di fatto che il licenziamento è stato pur sempre intimato per il protrarsi delle assenze del lavoratore sul presupposto giuridicamente erroneo (perché contrastante con l'art. 2110, comma 2, c.c.) che ciò sia consentito ancora prima dello spirare del termine massimo di comporto. Diversamente opinando, qualunque licenziamento nullo (perché discriminatorio, viziato da motivo illecito determinante o lesivo di norma imperativa di legge) verrebbe pur sempre a collocarsi nell'area della mera mancanza di giustificazione.

A tale ragionamento potrebbero tuttavia muoversi alcuni rilievi.

Ed infatti non sembra in armonia con il sistema ricondurre una violazione ad una categoria (quella della nullità) ed applicare la disciplina di un'altra (quella dell'ingiustificatezza); l'attenuazione del giudizio di disvalore, infatti, é compatibile con una degradazione della violazione da una categoria all'altra, non con un mero declassamento sul fronte delle conseguenze, che finisce per snaturare l'essenza stessa della categoria.

Non va dimenticato, infatti, che la “nullità” è vizio ma, al contempo, sanzione, caratterizzata dal complesso delle conseguenze (tra cui spicca quella della non produttività di effetti) che derivano dalla violazione che tale nullità determina.

Né va dimenticato che è lo stesso art. 1418, primo comma, c.c. a prevedere che “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente”.

Potrebbe pertanto sostenersi che, nel nostro caso, il legislatore, avendo previsto, per l'ipotesi considerata, la sanzione della tutela correlata al licenziamento ingiustificato, abbia disposto, appunto, “diversamente” (sulla falsariga di quanto già fatto con riguardo all'art. 1 della l. n. 604/1966, norma imperativa che prevede la necessaria giustificazione del licenziamento, in mancanza della quale non opera, tuttavia, il regime di nullità, bensì quella della ingiustificatezza, per effetto di quanto previsto dagli artt. 8 della l. n. 604/1966, 18 Stat. lav., e 3 del d.lgs. n. 23/2015), riconoscendo al lavoratore una tutela meno robusta di quella offerta dalla nullità.

Né potrebbe obiettarsi, a tale ultimo riguardo, che il legislatore, per disporre diversamente, debba precisare la natura del vizio afferente all'atto negoziale, essendo sufficiente, infatti, che stabilisca le conseguenze tipiche del grado di invalidità nel caso specifico prescelto (cfr., di recente, tra le tante, Cass. 15 gennaio 2020, n. 525: “In tema di cd. nullità virtuale, la violazione di disposizioni inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità unicamente ove non sia altrimenti stabilito dalla legge. Pertanto, questo esito va escluso sia quando risulti indicata una differente forma di invalidità - ad esempio, l'annullabilità - sia ove la legge assicuri l'effettività della norma imperativa con la previsione di rimedi diversi”; ciò in quanto “la nullità virtuale presuppone l'assenza di esplicita sanzione dell'atto o della condotta, e la possibilità di affermare la nullità come sanzione, per così dire, implicitamente prevista dalla disposizione violata. Ove, invece, via sia la previsione di una espressa sanzione … è da escludersi che debba ricavarsene una diversa - nullità dell'atto - per via interpretativa, ed assunta come virtuale”).

D'altra parte, anche il passo della motivazione della sentenza ove si legge che “la citata previsione del comma 7 dell'art. 18 si pone come norma speciale rispetto a quella generale contenuta nel comma 1 là dove si parla di altri casi di nullità previsti dalla legge” non sembra offrire adeguata spiegazione del fenomeno “derogatorio”, perché l'innesto di una ipotesi di nullità “speciale” nell'ambito di una disciplina - quella dell'art. 18, primo comma, Stat. lav. - già di per sé speciale rispetto alla normativa generale in tema di nullità finisce per offrire un panorama eccessivamente parcellizzato delle categorie; senza contare che si rivela non poco artificioso configurare una ipotesi di nullità “speciale” produttiva di conseguenze diverse dal suo regime tipico e coincidenti con quelle riservate al licenziamento ingiustificato.

Peraltro, la sentenza delle Sezioni Unite sollecita riflessioni anche laddove respinge la ricostruzione del vizio in termini di ingiustificatezza sul presupposto che il licenziamento per superamento del periodo di comporto è intimato per una ragione diversa dalla giusta causa o dal giustificato motivo, onde è alla ragione in questione che occorre riferirsi per valutare la natura e il regime del vizio stesso. Afferma infatti la Corte che, diversamente opinando, ogni licenziamento nullo - perché discriminatorio, viziato da motivo illecito determinante o lesivo di norma imperativa di legge - finirebbe per essere qualificato come ingiustificato.

Tale affermazione non è, tuttavia, del tutto percepibile nelle sue implicazioni, poiché la nullità del licenziamento non dipende dalla motivazione dello stesso, bensì è insita nelle ragioni contenute nell'impugnativa del lavoratore. In altri termini, l'ipotesi normale è quella nella quale il datore licenzia per una determinata ragione (integrante, ad esempio, giustificato motivo) ed il lavoratore agisce facendo valere, in contrasto con la motivazione dell'atto espulsivo, un profilo di nullità (appunto motivo illecito, discriminazione, divieto di licenziamento).

Basti pensare, del resto, al licenziamento non motivato, il quale, pur non intimato per giusta causa o per giustificato motivo, è certamente ingiustificato.

I problemi restano in evidenza anche sul piano della coerenza del sistema.

Infatti, nelle piccole aziende sarebbe sempre garantita al lavoratore la tutela ripristinatoria piena; il che, però, nel sistema della legge “Fornero” (diversamente da quanto accadeva nel sistema previgente, nel quale la nullità era rimedio unico, a prescindere dai limiti dimensionali delle aziende; cfr., al riguardo, Cass. 22 luglio 2019, n. 19661: “Nei rapporti di lavoro ai quali non si applica l'art. 18 della l. n. 300/1970, secondo la normativa "ratione temporis" vigente, gli effetti del licenziamento dichiarato nullo, ai sensi dell'art. 2110, secondo comma, c.c., perché intimato in mancanza del superamento del periodo cd. di comporto, non sono regolati, in via di estensione analogica, dalla disciplina dettata dall'art. 8 della l. n. 604/1966, bensì, in assenza di una espressa regolamentazione, da quella generale del codice civile”), non appare in linea con il senso di logica e ragionevolezza, attesa la tutela “meno forte” riservata al personale delle aziende medio grandi.

Non è un caso, che, nel descritto ambito, la Cassazione sia intervenuta con una sentenza (su cui v. “infra”), con la quale anche alle piccole aziende è stata ritenuta applicabile la tutela reintegratoria “attenuata”, in cui si coglie lo sforzo non indifferente di preservare l'armonia del sistema.

Inoltre, con riferimento al nuovo regime (concernente i “nuovi assunti”) delineato dal “Jobs Act”, che fa registrare l'assenza di una specifica norma sanzionatoria concernente il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto prima della scadenza di questo, in difetto di una norma speciale (come l'art. 18, comma 7, Stat. lav.), dovrebbe riprendere corpo la disposizione sulla nullità, che prevede la tutela reintegratoria “piena” (dovendo escludersi, per quanto si dirà, che le nullità “virtuali”, nelle quali andrebbe ricompresa quella in questione, siano in quel regime sanzionate con la tutela indennitaria).

Andrebbe così constatata, sulla materia, una accentuata insofferenza del legislatore, apprezzabile nel continuo mutamento - in un esiguo lasso temporale - di giudizi circa la valenza della violazione. Si passerebbe, infatti, con riferimento sia alle grandi che alle piccole aziende, da una tutela reintegratoria piena (nel vecchio regime) ad una attenuata (nella disciplina della legge “Fornero”) e, di nuovo, ad una piena (nel regime del “Jobs Act”).

La sentenza n. 27334/2022 della Cassazione concernente l'apparato sanzionatorio nel sistema della cd. “Legge Fornero”

Cass. 16 settembre 2022, n. 27334, ha statuito che “Nel sistema delineato dall'art. 18 della l. n. 300/1970, come modificato dalla l. n. 92/2012, il licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110, secondo comma, c.c., è nullo e le sue conseguenze sono disciplinate, secondo un regime sanzionatorio speciale, dal comma 7, che a sua volta rinvia al comma 4, del medesimo art. 18, quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro”.

Tale statuizione poggia sul sostanziale rilievo che “La commistione, all'interno del comma 7, di fattispecie di licenziamento nullo e di licenziamento annullabile e l'espresso rinvio alla disciplina di cui al quarto comma, relativa all'annullabilità del licenziamento, non intaccano la natura giuridica del vizio del recesso per mancato superamento del comporto che deve ritenersi virtualmente incluso nella previsione dell'art. 18, comma 1, eccetto che per il rimedio ripristinatorio individuato, ex lege, nei commi 7 e 4”.

Alla base dell'impianto ricostruttivo vi è la considerazione che “l'interpretazione accolta, oltre che coerente con criteri di ordine sistematico e con la scelta legislativa di raccogliere nel primo comma dell'art. 18 tutte le ipotesi di nullità del licenziamento a prescindere dal numero dei dipendenti occupati, è la sola compatibile con l'esigenza di garantire ragionevolezza al sistema delle tutele nel caso di licenziamento”.

In buona sostanza la Corte - una volta esclusa l'operatività dell'art. 8 della l. n. 604/1966, in quanto riferito ai soli casi di licenziamento intimato in assenza di giusta causa o giustificato motivo -, ha ritenuto, per ricondurre il sistema a coerenza, non applicabile alla fattispecie né il comma 8 dell'art. 18 Stat. lav., il quale prevede, esplicitamente, che le tutele dei commi dal quarto al settimo si applicano solo alle aziende cd. “medio grandi”, né il comma 1 del medesimo articolo, che prevede la tutela reintegratoria cd. “piena” in caso di nullità del licenziamento.

L'apparato sanzionatorio nel regime del cd. “jobs act”

Recentemente Appello Torino 5 agosto 2022, n. 315, ha affermato che “In caso di licenziamento per malattia, prima del superamento del periodo di comporto, in regime di tutele crescenti, dovrà applicarsi quale regime sanzionatorio la tutela della reintegra di cui all'art. 2 d.lgs. n. 23/2015, e non quella indennitaria di cui al successivo art. 3 comma 1”.

Ciò sul rilievo che nel regime del “Jobs Act” la reintegra è prevista “per il licenziamento discriminatorio e per i casi di recesso riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge”.

L'aspetto degno di nota è che nella sentenza si dà per acquisito il principio - invece non scontato - che le nullità cd. virtuali, ovvero quelle non previste esplicitamente dalla legge, siano ricomprese nell'area di applicabilità dell'art. 2 del d.lgs. n. 23/2015 (ove è appunto disposto, tra l'altro, che “Il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell'articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto”).

Del tema, non poco delicato si parlerà, per comodità di trattazione, nel prossimo paragrafo.

Segue: la questione dei casi di nullità “espressamente previsti dalla legge”

Sulla questione, come è noto, vi sono le seguenti teorie: a) la locuzione “espressamente previsti dalla legge” non ha una sua pregnanza giuridica, perché il disvalore connesso alla nullità è sempre uguale a se stesso; pertanto non avrebbe senso, sul piano giuridico, sanzionare un licenziamento nullo in misura maggiore sol perché la nullità è testuale, non potendo quest'ultima essere espressiva di una più evidente gravità della patologia negoziale; b) la locuzione avrebbe una sua rilevanza solo ai fini di modulare la tutela in maniera differenziata, riservando ai casi di nullità testuale il regime protettivo più ampio previsto dalla norma speciale in tema di licenziamenti individuali e a quelli di nullità virtuale il regime meno robusto previsto dal diritto comune (basato sul noto meccanismo del ripristino del rapporto e dell'attribuzione della posta monetaria per il periodo intermedio tra licenziamento e sentenza che ricostituisce il rapporto dalla messa “in mora”; c) la locuzione avrebbe una sua rilevanza ai fini di escludere i casi di nullità virtuale dalla tutela reintegratoria, poiché per essi si applicherebbe la tutela indennitaria di cui all'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2005.

La soluzione sub c) sembra plausibilmente da escludere, poiché sarebbe intrinsecamente irragionevole sanzionare un licenziamento ingiustificato (perché il fatto materiale non sussiste, ai sensi dell'art. 3, comma 2, d. lgs. n. 23/2015) con una tutela maggiore rispetto a quella prevista per un licenziamento nullo.

Anche la soluzione sub b) sembra da escludere, per due ragioni: in primo luogo perché è arduo giustificare in un sistema speciale, quale è quello in materia di licenziamenti individuali, la persistenza di ipotesi in cui si applica la normativa generale (ossia quella di diritto comune); b) in secondo perché, come visto sopra, il legislatore non può disporre del regime sanzionatorio della nullità, calibrandolo a suo piacimento, poiché la “riprovazione sociale” avverso l'atto nullo esige sempre la stessa sanzione, coincidente con gli effetti della nullità, che è vizio e conseguenza del vizio al tempo stesso.

Sembra pertanto maggiormente convincente la soluzione sub a), che è quella, come visto, accolta dal giudice di appello di Torino.

L'ipotesi della illegittimità

Una prospettiva compatibile con una maggiore linearità di sistema potrebbe essere quella in cui il licenziamento per superato comporto prima della scadenza di questo costituisce categoria autonoma di illegittimità che si affianca alla categoria della nullità e a quella della annullabilità per carenza della giusta causa o del giustificato motivo.

Potrebbe ritenersi, infatti, che la disciplina di tale tipologia di recesso non sia più fornita - come in epoca antecedente all'entrata in vigore della legge “Fornero” - dagli artt. 2110 c.c. e 1418 c.c., bensì dagli artt. 2110 c.c. e 18, comma 7, Stat. lav., il quale fa rinvio alla disciplina di cui al comma 4 del predetto articolo, che prevede la tutela reintegratoria attenuata.

Conseguentemente, potrebbe affermarsi che, a seguito della legge “Fornero”, la regola generale, in materia, è l'ingiustificatezza - o illegittimità - derivante da un licenziamento per scadenza del comporto prima dello spirare di questo, equiparata, in virtù delle conseguenze normativamente stabilite, al licenziamento disciplinare ingiustificato per insussistenza del fatto.

In altri termini, per il legislatore le due tipologie di illegittimità hanno, quanto a gravità, lo stesso “peso”.

Potrebbe derivarne che le conseguenze del licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110 c.c., non esplicitate dal d.lgs. n. 23/2015, debbano trarsi in via interpretativa dall'art. 3, comma 2, del predetto d.lgs., regolante ipotesi sovrapponibile a quella dell'art. 18, comma 4, Stat. lav.

In tal modo si avrebbe che, da un lato, nel regime della legge “Fornero” la tutela per le aziende medio grandi è quella attenuata e, per quelle minori, quella obbligatoria, e, nel regime del “Jobs Act”, rispettivamente, quella di cui al citato art. 3, comma 2 (ossia sempre reintegratoria attenuata), e quella di cui all'art. 9, comma 1, del predetto d.lgs. (ove è previsto che “Ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300/1970, non si applica l'articolo 3, comma 2, e l'ammontare delle indennità e dell'importo previsti dall'articolo 3, comma 1, dall'articolo 4, comma 1 e dall'articolo 6, comma 1, é dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”).

L'impostazione in questione sembra rendere maggiormente armonico il sistema delle tutele nei vari regimi, evitando che nel passaggio dall'uno all'altro - in un arco temporale, come visto, esiguo - possa esservi, in alcuni casi, un intervento a “fisarmonica”, ossia dapprima una restrizione e poi di nuovo un ampliamento della misura sanzionatoria, per di più non coerente con il disegno del legislatore volto, per converso, ad una graduale e progressiva compressione delle tutele in questione.

Potrebbe obiettarsi che l'art. 8 della l. n. 604/1966 si riferisce alla sola ipotesi in cui “risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo” e che la ricostruzione di taglio interpretativo sopra ipotizzata si rivela troppo tortuosa e ai limiti dell'operazione analogica, per converso impedita, nel regime del “Jobs Act”, dall'“incipit” (i.e.: “Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa”) dell'art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23/2015.

Tuttavia, potrebbe replicarsi, da un lato, che, una volta esclusa, in materia, la configurazione del vizio in termini di nullità, non è di ostacolo una interpretazione sistematica dell'art. 8 della l. n. 604/1966, tale da ricomprendere, nella sua previsione, un licenziamento illegittimo perché intimato erroneamente per superato comporto; così come l'equiparazione di “valenza” tra il licenziamento in questione e quello disciplinare ingiustificato per insussistenza del fatto sembra togliere vigore al termine “Esclusivamente”, mirante ad espungere dalla tutela reintegratoria attenuata ipotesi di pari o minor gravità già esplicitamente contemplate nell'art. 3, comma 1, del citato d.lgs.

D'altra parte, proprio in quanto la tipologia di licenziamento in esame non è prevista nel citato art. 3, comma 1, sembra doversi escludere che - seguendo la descritta ottica dell'illegittimità - la relativa tutela, nell'ambito delle grandi aziende, possa esser stata, nel regime del “Jobs Act”, degradata a quella solo indennitaria.

Va detto, in conclusione, che, in una materia nella quale, attesa l'oscurità del tessuto normativo, ogni ricostruzione si presenta non del tutto lineare, potrebbe ravvisarsi, tuttora, l'utilità di una più ampia riflessione fondata sul senso di razionalità e, soprattutto, di coerenza del sistema, pur sempre posti a presidio del procedimento interpretativo.

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