Danno ambientale ed individuazione dei soggetti responsabili

Francesco Agnino
17 Marzo 2023

Su chi incombe l'obbligo di riparazione dei danni ambientali? Possono essere imposti al proprietario incolpevole la bonifica e messa in sicurezza necessari per contrastare la situazione di inquinamento creatasi?
Massima

In tema di responsabilità ambientale, a carico del proprietario/gestore del sito inquinato che non abbia direttamente causato l'inquinamento, non può essere imposto l'obbligo di eseguire le misure di messa in sicurezza di emergenza (c.d. “m.i.s.e.”) e di bonifica, in quanto gli effetti in capo al proprietario incolpevole sono limitati a quanto previsto dall'art. 253 cod. amb. in tema di oneri reali e privilegi speciali immobiliari, possedendo le misure anzidette una connotazione ripristinatoria di un danno già prodottosi che le rende non assimilabili alle misure di prevenzione che, viceversa, il proprietario del sito è obbligato ad assumere in quanto idonee a contrastare un evento recante una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile; al proprietario che non abbia causato l'inquinamento sono, altresì, inapplicabili i criteri di imputazione della responsabilità di cui agli artt. 2050 e 2051 c.c., dal momento che la disciplina definita nella parte quarta del c. amb. per la bonifica dei siti contaminati ha carattere di specialità rispetto alle norme del codice civile, contemplando, a tale proposito, la specifica posizione del proprietario/gestore incolpevole e trovando applicazione nei confronti del responsabile dell'inquinamento (in base al principio “chi inquina paga” di cui alla Direttiva 2004/35/CE), a titolo di dolo o colpa; ne consegue che l'obbligo di adottare le misure utili a fronteggiare la situazione di inquinamento rimane unicamente a carico di colui che di tale situazione sia stato responsabile per avervi dato colposamente o dolosamente causa, non potendosi addossare al proprietario incolpevole dell'inquinamento alcun obbligo né di bonifica, né di messa in sicurezza

Il caso

La Società ricorrente aveva costruito nel 2001, con gestione fino al 2003, una discarica per lo smaltimento di rifiuti solidi urbani (RSU) presso una cava, utilizzata come sito di stoccaggio dei rifiuti raccolti.

A seguito dell'ispezione dello stato della falda acquifera, era emerso il superamento dei valori-limite di plurime sostanze contaminanti ed alte concentrazioni nocive; in conseguenza di tali rilevazioni, il Ministero dell'Ambiente ingiungeva alla Società l'attivazione di interventi di messa in sicurezza d'emergenza (m.i.s.e.) delle falde acquifere contaminate, unitamente all'adozione di misure di prevenzione e di bonifica dei suoli e della falda, a pena di interventi sostitutivi ex d.lgs. n. 152/2006 (Codice dell'Ambiente), con iscrizione di onere reale sull'immobile ed accertamento di danno ambientale.

I provvedimenti ministeriali erano impugnati dalla Società ricorrente, evidenziando l'omessa dovuta identificazione del responsabile della contaminazione e l'estraneità ad ogni responsabilità, dovendo gli eventi ricondursi a fenomeni d'inquinamento non repentini ma diffusi in zona.

Il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche, pur sul rilievo della mancata dimostrazione che il processo d'inquinamento dei terreni fosse iniziato con l'insediamento in loco della Società, concludeva che anche il proprietario ovvero il detentore qualificato di un sito erano onerati di adottare le misure di messa in sicurezza di emergenza (m.i.s.e.), sul rilievo del contesto di prevenzione e di riparazione del danno ambientale, prescindendo dall'accertamento dell'elemento soggettivo, sub specie di dolo o di colpa.

Tale conclusione traeva spunto dal principio “chi inquina paga” del diritto eurounitario, in base al quale è sufficiente la materiale causazione del danno o del pericolo ambientale secondo il criterio di responsabilità oggettiva (pur se non di posizione).

Avverso la predetta sentenza la Società proponeva ricorso in Cassazione.

La questione devoluta all'esame delle Sezioni Unite involge “la contestazione nella vicenda del principio ‘chi inquina paga' di cui alla Direttiva 2004/35/CE e comunque di ogni responsabilità ambientale, anche a titolo oggettivo o prescindendo da una condotta causativa del danno, in capo al proprietario/gestore richiesto di provvedere alla messa in sicurezza di emergenza, in difetto della individuazione del responsabile della potenziale contaminazione”.

Nell'approfondita sentenza in commento, il giudice della nomofilachia cassa la sentenza del TSAP in tema di interventi di disinquinamento, bonifica e messa in sicurezza di falde acquifere risultate contaminate, ed attraverso un'ampia disamina della normativa comunitaria e nazionale relativa alla responsabilità ambientale, ribadisce come a carico del proprietario/gestore del sito inquinato che non abbia direttamente causato l'evento dannoso, non può essere imposto l'obbligo di eseguire le misure di messa in sicurezza di emergenza (c.d. “m.i.s.e.”) e di bonifica, in quanto gli effetti in capo al proprietario incolpevole sono limitati a quanto previsto dall'art. 253 del Codice dell'ambiente in tema di oneri reali e privilegi speciali immobiliari.

Le misure ivi previste, nello specifico, hanno una connotazione ripristinatoria di un danno già verificatosi e tale caratteristica le rende non assimilabili alle misure di prevenzione che invece, il proprietario del sito è obbligato ad assumere, essendo questi interventi idonei a contrastare un evento recante una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile.

Né, al proprietario che non abbia causato l'inquinamento, potrebbero applicarsi i criteri di imputazione della responsabilità per come individuati dagli artt. 2050 e 2051 c.c.

La disciplina contenuta nella parte quarta del Codice dell'ambiente per la bonifica dei siti contaminati, infatti, ha carattere di specialità rispetto alle norme del Codice civile e, individuando la figura del proprietario/gestore incolpevole, imputa, viceversa, la responsabilità ambientale solo a colui che inquina a titolo di dolo o colpa, in coerente applicazione del principio “chi inquina paga” di cui alla Direttiva 2004/35/CE.

Ne consegue, dunque, che l'obbligo di adottare le misure utili a fronteggiare la situazione di inquinamento rimane unicamente a carico del soggetto che di tale situazione sia stato responsabile per avervi dato colposamente o dolosamente causa, non potendosi addossare al proprietario incolpevole dell'inquinamento alcun obbligo né di bonifica, né di messa in sicurezza.

La questione

Gli obblighi di bonifica e di messa in sicurezza necessari a fronteggiare la situazione di inquinamento possono essere imposti al proprietario incolpevole dell'inquinamento?

La soluzione giuridica

La conclusione delle sezioni unite muove dalla constatazione che, nel caso in esame, risultava pacifico che in capo alla Società non fosse intervenuta la dimostrazione, ad opera delle competenti Amministrazioni, di alcuna correlazione causale tra l'attività svolta in situ e, per via di percolazione dei rifiuti trattati, la contaminazione del sottosuolo e della falda acquifera.

A partire da tale accertamento, la Suprema Corte rileva, pertanto, che il titolo che ha giustificato per il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche la legittimità delle prescrizioni adottate dalla P.A., “pur nel formale distanziamento dalla responsabilità da posizione”, è consistito in una peculiare relazione della Società ricorrente con il sito (la proprietà o la detenzione qualificata) secondo il criterio di responsabilità oggettiva ritenuto conforme alla Direttiva 2004/35/CE.

L'impianto motivazionale della pronuncia in esame ruota attorno all'analisi della disciplina multilivello in tema di prevenzione e di riparazione del danno ambientale, all'interno della quale si colloca il principio chi inquina paga (artt. 1 e 7 Allegato II della Direttiva 2004/35/CE ed art. 191 TFUE).

In base a tale principio “l'operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale” (considerato 2 della Direttiva 2004/35/CE).

Nel delimitare il campo di applicazione della disciplina sul danno ambientale, il legislatore ha introdotto, in linea con le norme della direttiva, la regola della responsabilità oggettiva risarcitoria sganciando dai requisiti del dolo e della colpa la responsabilità per danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell'allegato 5 alla parte VI del d.lgs. n. 152/2006 (omologo dell'allegato III della direttiva).

L'art. 298-bis, limita espressamente l'azionabilità della disciplina di cui alla Parte VI del codice ai danni causati:

a) da soggetti esercitanti una delle attività professionali elencate nell'Allegato 5 alla Parte VI e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività;

b) da soggetti esercitanti un'attività diversa da quelle elencate nell'Allegato 5 alla Parte VI e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività, in caso di comportamento doloso o colposo.

Così facendo si è dunque proceduto a riconnettere chiaramente la disciplina sulla tutela dell'illecito ecologico alle condotte lesive poste in essere dagli operatori professionali, qualsiasi attività essi svolgano, in pieno ossequio al principio “chi inquina paga”.

Si può dunque constatare come la scelta del legislatore sia andata verso un allontanamento dallo storico regime generale di tutela aquiliana, configurandosi invece uno completamente speciale, che si pone al più in posizione di tangenza rispetto a quello codicistico, sulla scorta delle indicazioni fornite dalla Commissione Europea.

Per tutte le attività incluse nell'elencazione di cui all'Allegato 5 alla Parte VI, pertanto, non sarà richiesta in alcun modo la prova del dolo o della colpa da parte dell'operatore, ferma restando quella circa il nesso causale tra le medesime attività ed il danno ambientale (o la minaccia imminente di danno) provocati.

La ratio del principio “chi inquina paga”, come rilevato nell'analisi economica di tale sistema, viene dunque individuata nel fatto che “imporre al soggetto inquinatore l'obbligo di riparare il danno o, in alternativa, quello di tenere indenne la comunità territoriale che l'abbia evitato o rimosso, significa pertanto addossare […] le esternalità negative (conseguenti alla produzione o al commercio di beni e servizi) a carico del soggetto cui sia riferibile l'attività, evitando alterazioni di mercato (per qualità dei prodotti e livelli di concorrenza), senza oneri per la collettività ovvero costi assunti in via definitiva dall'ente pubblico; viene così scongiurato ogni scenario di alternativa monetizzazione dell'inquinamento, disincentivato dallo scaricarsi sui soli prezzi, senza altri interventi ed invece declinandosi il principio riassuntivo ‘chi inquina paga' nella riparazione più diretta del danno ambientale (nei contesti di acque, terreno e biodiversità, i soli dell'art. 2 Direttiva), ad opera dell'autore (operatore in attività classificata pericolosa o terzo imputabile ad altro titolo) o, in sua vece e con recupero dei costi, a cura dell'ente pubblico” (par. 12 della sentenza in epigrafe).

In maniera puntuale, le Sezioni Unite muovono critiche a tale conclusione, ritenuta non condivisibile avendo riguardo alle acquisizioni prodotte dal dialogo tra giurisprudenza nazionale, amministrativa ed europea in relazione al principio “chi inquina paga”.

Se, dunque, appare chiara la definizione e la portata del principio in esame, molto più controverso appare il criterio di imputazione della responsabilità per danno ambientale, essendo in dubbio se occorra valorizzare un modello di responsabilità di tipo oggettivo (quantunque la più efficace a tutela dell'ambiente) o se, diversamente, debba prevalere un criterio di imputazione psicologico della relativa condotta.

Obiettivo dell'indagine condotta nella sentenza in commento è, dunque, comprendere se l'interpretazione dell'intero assetto normativo italiano, conseguente alla progressiva armonizzazione con la Direttiva 2004/35/CE, sia di per sé idonea a giustificare una responsabilità oggettiva del proprietario in quanto tale.

Secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite, dalla lettura sistematica e integrata delle disposizioni del d.lgs. n. 152/2006 (Codice dell'Ambiente) e della Direttiva Europea 2004/35/CE non è possibile rinvenire alcun obbligo diretto ed esplicito del proprietario, ove non sia autore della condotta contaminante, ad adottare interventi di messa in sicurezza di emergenza. Particolarmente rilevante, a questo proposito, deve ritenersi il disposto di cui all'art. 311 d.lgs. n. 152/2006, che fissa la responsabilità oggettiva di chi gestisce specifiche attività professionali elencate e quella soggettiva (per dolo o colpa) in capo “a chiunque altro cagioni un danno ambientale”.

Inoltre, al ricorrere di specifici presupposti, l'art. 308 esclude, a carico dello stesso operatore esercente un'attività professionale di rilevanza ambientale, i costi delle azioni di precauzione, prevenzione e di ripristino qualora esso dimostri che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo o nelle ipotesi di cd. inquinamento diffuso.

L'azione di risarcimento del danno ambientale, inteso come bene pubblico di carattere unitario, costituente autonomo diritto fondamentale di rilievo costituzionale, oggetto di tutela da parte del Giudice Ordinario, diviene così un'azione di reintegrazione in forma specifica, di competenza esclusiva del Ministero dell'Ambiente.

Da un'attenta analisi del quadro normativo e della giurisprudenza europea e nazionale, la Suprema Corte giunge dunque alla conclusione secondo cui “va esclusa una indicazione comunitaria alla riparazione del danno […] a carico di chi non abbia svolto l'attività professionale di operatore, bensì venga chiamato a rispondervi nella veste di titolare di diritti dominicali o addirittura, come nel caso, con nesso eziologico escluso dallo stesso giudice dell'accertata condotta, non potendo la mera enunciazione di indizi di posizione, per un'attività non classificata dallo stesso d.lgs. n. 152 del 2006 a rischio d'inquinamento, sostituire di per sé la prova del predetto necessario nesso causale” (par. 16 della sentenza).

Osservazioni

Nell'iter motivazionale nomofilattico assume rilevanza la distinzione tra i doveri incombenti sul proprietario incolpevole dell'inquinamento ed il responsabile dell'inquinamento.

Le reazioni ordinamentali al danno ambientale si sostanziano nell'effettivo ripristino (riparazione primaria) o, a seguire, nella riparazione complementare e compensativa conformemente ai principi della precauzione, dell'azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché al principio "chi inquina paga".

La stessa Corte di cassazione se ne è occupata (Cass. n. 16806/2015) innanzitutto chiarendo detti criteri risarcitori; così, la riparazione primaria, ha lo scopo di riportare le risorse e/o i servizi naturali danneggiati alle condizioni originarie; quella complementare, ove essi non tornino alle condizioni originarie, tende a compensare il mancato ripristino completo delle risorse e/o dei servizi naturali danneggiati; la riparazione compensativa pareggia la perdita temporanea di risorse dalla data di verificazione del danno a quella in cui la riparazione primaria non abbia prodotto un effetto completo; ma la definitiva armonizzazione della disciplina italiana rispetto a quella UE ha reso esplicito il conseguente principio per cui «non residua alcun danno ambientale economicamente quantificabile e quindi risarcibile - né in forma specifica, né a maggior ragione per equivalente - ogniqualvolta, avutasi la riduzione al pristino stato, non persista la necessità di ulteriori misure sul territorio reso oggetto dell'intervento inquinante o danneggiante, soltanto il costo (ovvero il rimborso) delle quali potrà essere oggetto di condanna nei confronti dei danneggianti: misure che vanno ora tutte verificate alla stregua della nuova normativa», con l'importante applicazione officiosa e retroattiva ai giudizi pendenti per fatti anteriori proprio della onnicomprensività del nuovo criterio riparatore a superamento di quello per equivalente (Cass. n. 14935/2016; così anche Cass. n. 8662/2017 sui criteri di liquidazione del danno).

Gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati a quanto previsto dall'art. 253 del Codice dell'Ambiente in tema di oneri reali e privilegi speciali immobiliari. Il proprietario, in tale quadro, è tenuto soltanto ad adottare le misure di prevenzione idonee a contrastare un evento che abbia creato una minaccia imminente per la salute o per l'ambiente, intesa come rischio sufficientemente probabile, secondo il canone causale civilistico, di verificazione di un danno sanitario o ambientale, al fine di impedire o minimizzare tale minaccia.

In tale logica, “le norme contemplanti il proprietario (artt. 245 e 244 cod. amb.) dovrebbero essere rilette come un coinvolgimento per un verso doveroso […] per l'attuazione, senza distinzione, di tutte le misure di prevenzione […] e, per altro verso, pienamente partecipativo dell'iter procedimentale preventivo” (par. 25 della sentenza).

Dalla figura del proprietario incolpevole deve essere tenuta nettamente distinta la figura del “ben diverso” responsabile dell'inquinamento, obbligato in modo più stringente e sempre, ai sensi dell'art. 242 d.lgs. n. 152/2006, già nelle prime 24 ore, ad adottare le misure necessarie di prevenzione, le misure di messa in sicurezza di emergenza (m.i.s.e.) e di bonifica del sito inquinato.

Da quanto precede, discende quale corollario il principio che l'Amministrazione, dunque, non può imporre al proprietario di un'area inquinata, che non sia anche l'autore dell'inquinamento, l'obbligo di realizzare le misure di messa in sicurezza di emergenza e di bonifica, in quanto gli effetti a carico del proprietario incolpevole restano limitati alle previsioni di cui all'art. 253, in tema di oneri reali e privilegio speciale immobiliare, oltre che all'adozione delle sole necessarie misure di prevenzione.

Infine, anche alla luce della novellazione degli artt. 9 e 41 della Cost. attuata con la legge 11 febbraio 2022, n. 1 viene considerato non irragionevole il sistema distributivo della responsabilità ambientale tuttora vigente, imperniato proprio sul perseguimento della riparazione e fino alla estrema attuazione dell'intervento pubblico sostitutivo rispetto all'inerzia o alla non individuazione del responsabile.

Sotto il profilo civilistico, l'inapplicabilità degli artt. 2050 c.c. e 2051 c.c. discende direttamente dalla natura interamente speciale propria del Codice dell'Ambiente; a seguito dell'introduzione della Direttiva 2004/35/CE, come chiarito dalle Sezioni Unite, si è di fronte ad un corpo normativo appositamente dedicato alla tutela dell'illecito ecologico slegato dal sistema regolativo dell'illecito civile ordinario di cui agli artt. 2043 e ss. c.c.

Merita condivisione l'affermazione che il criterio di imputazione della responsabilità per danno ambientale, secondo il principio “chi inquina paga”, non può prescindere dall'accertamento del nesso causale tra l'attività posta in essere dall'operatore e l'inquinamento, nonché dall'accertamento del necessario elemento psicologico (colpa o dolo del responsabile dell'inquinamento).

Un margine di sfumata incertezza è ravvisabile nei casi in cui non sia possibile identificare con precisione il responsabile dell'inquinamento risultando, al contrario, difficile ricostruire la serie causale fra danni e attività di plurimi operatori che si sono succeduti nella gestione di uno stesso sito. La mancata individuazione del soggetto realmente inquinatore può esporre la sola PA al rischio di dover far fronte ai costi, anche ingenti, del risanamento ambientale.