La conclusione delle sezioni unite muove dalla constatazione che, nel caso in esame, risultava pacifico che in capo alla Società non fosse intervenuta la dimostrazione, ad opera delle competenti Amministrazioni, di alcuna correlazione causale tra l'attività svolta in situ e, per via di percolazione dei rifiuti trattati, la contaminazione del sottosuolo e della falda acquifera.
A partire da tale accertamento, la Suprema Corte rileva, pertanto, che il titolo che ha giustificato per il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche la legittimità delle prescrizioni adottate dalla P.A., “pur nel formale distanziamento dalla responsabilità da posizione”, è consistito in una peculiare relazione della Società ricorrente con il sito (la proprietà o la detenzione qualificata) secondo il criterio di responsabilità oggettiva ritenuto conforme alla Direttiva 2004/35/CE.
L'impianto motivazionale della pronuncia in esame ruota attorno all'analisi della disciplina multilivello in tema di prevenzione e di riparazione del danno ambientale, all'interno della quale si colloca il principio “chi inquina paga” (artt. 1 e 7 Allegato II della Direttiva 2004/35/CE ed art. 191 TFUE).
In base a tale principio “l'operatore la cui attività ha causato un danno ambientale o la minaccia imminente di tale danno sarà considerato finanziariamente responsabile in modo da indurre gli operatori ad adottare misure e a sviluppare pratiche atte a ridurre al minimo i rischi di danno ambientale” (considerato 2 della Direttiva 2004/35/CE).
Nel delimitare il campo di applicazione della disciplina sul danno ambientale, il legislatore ha introdotto, in linea con le norme della direttiva, la regola della responsabilità oggettiva risarcitoria sganciando dai requisiti del dolo e della colpa la responsabilità per danno ambientale causato da una delle attività professionali elencate nell'allegato 5 alla parte VI del d.lgs. n. 152/2006 (omologo dell'allegato III della direttiva).
L'art. 298-bis, limita espressamente l'azionabilità della disciplina di cui alla Parte VI del codice ai danni causati:
a) da soggetti esercitanti una delle attività professionali elencate nell'Allegato 5 alla Parte VI e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività;
b) da soggetti esercitanti un'attività diversa da quelle elencate nell'Allegato 5 alla Parte VI e a qualsiasi minaccia imminente di tale danno derivante dalle suddette attività, in caso di comportamento doloso o colposo.
Così facendo si è dunque proceduto a riconnettere chiaramente la disciplina sulla tutela dell'illecito ecologico alle condotte lesive poste in essere dagli operatori professionali, qualsiasi attività essi svolgano, in pieno ossequio al principio “chi inquina paga”.
Si può dunque constatare come la scelta del legislatore sia andata verso un allontanamento dallo storico regime generale di tutela aquiliana, configurandosi invece uno completamente speciale, che si pone al più in posizione di tangenza rispetto a quello codicistico, sulla scorta delle indicazioni fornite dalla Commissione Europea.
Per tutte le attività incluse nell'elencazione di cui all'Allegato 5 alla Parte VI, pertanto, non sarà richiesta in alcun modo la prova del dolo o della colpa da parte dell'operatore, ferma restando quella circa il nesso causale tra le medesime attività ed il danno ambientale (o la minaccia imminente di danno) provocati.
La ratio del principio “chi inquina paga”, come rilevato nell'analisi economica di tale sistema, viene dunque individuata nel fatto che “imporre al soggetto inquinatore l'obbligo di riparare il danno o, in alternativa, quello di tenere indenne la comunità territoriale che l'abbia evitato o rimosso, significa pertanto addossare […] le esternalità negative (conseguenti alla produzione o al commercio di beni e servizi) a carico del soggetto cui sia riferibile l'attività, evitando alterazioni di mercato (per qualità dei prodotti e livelli di concorrenza), senza oneri per la collettività ovvero costi assunti in via definitiva dall'ente pubblico; viene così scongiurato ogni scenario di alternativa monetizzazione dell'inquinamento, disincentivato dallo scaricarsi sui soli prezzi, senza altri interventi ed invece declinandosi il principio riassuntivo ‘chi inquina paga' nella riparazione più diretta del danno ambientale (nei contesti di acque, terreno e biodiversità, i soli dell'art. 2 Direttiva), ad opera dell'autore (operatore in attività classificata pericolosa o terzo imputabile ad altro titolo) o, in sua vece e con recupero dei costi, a cura dell'ente pubblico” (par. 12 della sentenza in epigrafe).
In maniera puntuale, le Sezioni Unite muovono critiche a tale conclusione, ritenuta non condivisibile avendo riguardo alle acquisizioni prodotte dal dialogo tra giurisprudenza nazionale, amministrativa ed europea in relazione al principio “chi inquina paga”.
Se, dunque, appare chiara la definizione e la portata del principio in esame, molto più controverso appare il criterio di imputazione della responsabilità per danno ambientale, essendo in dubbio se occorra valorizzare un modello di responsabilità di tipo oggettivo (quantunque la più efficace a tutela dell'ambiente) o se, diversamente, debba prevalere un criterio di imputazione psicologico della relativa condotta.
Obiettivo dell'indagine condotta nella sentenza in commento è, dunque, comprendere se l'interpretazione dell'intero assetto normativo italiano, conseguente alla progressiva armonizzazione con la Direttiva 2004/35/CE, sia di per sé idonea a giustificare una responsabilità oggettiva del proprietario in quanto tale.
Secondo quanto affermato dalle Sezioni Unite, dalla lettura sistematica e integrata delle disposizioni del d.lgs. n. 152/2006 (Codice dell'Ambiente) e della Direttiva Europea 2004/35/CE non è possibile rinvenire alcun obbligo diretto ed esplicito del proprietario, ove non sia autore della condotta contaminante, ad adottare interventi di messa in sicurezza di emergenza. Particolarmente rilevante, a questo proposito, deve ritenersi il disposto di cui all'art. 311 d.lgs. n. 152/2006, che fissa la responsabilità oggettiva di chi gestisce specifiche attività professionali elencate e quella soggettiva (per dolo o colpa) in capo “a chiunque altro cagioni un danno ambientale”.
Inoltre, al ricorrere di specifici presupposti, l'art. 308 esclude, a carico dello stesso operatore esercente un'attività professionale di rilevanza ambientale, i costi delle azioni di precauzione, prevenzione e di ripristino qualora esso dimostri che non gli è attribuibile un comportamento doloso o colposo o nelle ipotesi di cd. inquinamento diffuso.
L'azione di risarcimento del danno ambientale, inteso come bene pubblico di carattere unitario, costituente autonomo diritto fondamentale di rilievo costituzionale, oggetto di tutela da parte del Giudice Ordinario, diviene così un'azione di reintegrazione in forma specifica, di competenza esclusiva del Ministero dell'Ambiente.
Da un'attenta analisi del quadro normativo e della giurisprudenza europea e nazionale, la Suprema Corte giunge dunque alla conclusione secondo cui “va esclusa una indicazione comunitaria alla riparazione del danno […] a carico di chi non abbia svolto l'attività professionale di operatore, bensì venga chiamato a rispondervi nella veste di titolare di diritti dominicali o addirittura, come nel caso, con nesso eziologico escluso dallo stesso giudice dell'accertata condotta, non potendo la mera enunciazione di indizi di posizione, per un'attività non classificata dallo stesso d.lgs. n. 152 del 2006 a rischio d'inquinamento, sostituire di per sé la prova del predetto necessario nesso causale” (par. 16 della sentenza).