Il body shaming mediante emoticon sui social può integrare il reato di diffamazione

Ilenia Alagna
23 Marzo 2023

Elemento di discrimine tra ingiuria e diffamazione è la contestualità tra la comunicazione dell'offesa e il recepimento della stessa da parte del danneggiato, dal momento che nella prima ipotesi quest'ultimo è il destinatario diretto dell'offesa, mentre, nella seconda, la comunicazione è rivolta a più persone estranee, nel caso di specie raggiunte tramite social network.
Massima

Il solo requisito della contestualità tra comunicazione dell'offesa e recepimento della stessa da parte dell'offeso vale a configurare l'ipotesi dell'ingiuria. In difetto del requisito della contestualità l'offeso resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore; nel qual caso, si profila l'ipotesi della diffamazione attraverso l'uso del social network.

Il caso

La Corte d'appello di Milano ha riformato la sentenza con cui Tizio era stato condannato per diffamazione e riqualificato il fatto ai sensi dell' art. 594 c.p., assolvendo l'imputato poiché il fatto non costituisce reato. Tizio offendeva la reputazione di Caio perché, comunicando attraverso il social network Facebook e pubblicando opinioni in un post pubblico dedicato ai problemi di viabilità di un comune italiano faceva riferimento esplicito a deficit visivi della parte civile (emoticon che simboleggiavano risate e punti di vista distorti), deridendola.

Avverso tale provvedimento ha presentato ricorso quest'ultima, articolando le proprie censure in un unico motivo, con il quale ha dedotto, erronea applicazione della legge penale, oltre che vizio di motivazione, per aver la Corte territoriale riqualificato il fatto ai sensi dell' art. 594 c.p. Secondo la difesa, il presupposto da cui la Corte territoriale ha preso le mosse per fondare la propria decisione di riforma (“un deficit visivo non sminuisce il valore di una persona”) sarebbe inidoneo a descrivere la condotta dell'imputato; condividere quel presupposto significherebbe, per la difesa, trascurare “i più precipui contenuti che caratterizzano la reputazione di una persona”.

La questione

Il solo requisito della contestualità tra comunicazione dell'offesa e recepimento della stessa da parte dell'offeso vale a configurare l'ipotesi dell'ingiuria?

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione, con la sentenza n. 2251/2023, dep. il 09/01/2023 ha annullato la sentenza di secondo grado limitatamente agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello stabilendo che il body shaming sui social costituisce diffamazione. A contare sarebbero non solo le parole ma anche le emoticon che accompagnano il post condiviso su Facebook.

Con tale provvedimento la Corte di Cassazione ha confermato la condanna per il reato di cui all'articolo 595, comma 3, c.p: secondo gli Ermellini la prima parte della motivazione della sentenza impugnata non risulta di facile comprensione: si afferma, dapprima, che l'“imputato ha volto gravi offese alla parte civile, denigrandola per il deficit visivo”, per poi ritenere, nell'immediato prosieguo della motivazione, che non vi sia stato pregiudizio per la reputazione di Caio poiché “un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona” e avendo l'imputato, con siffatte offese, “messo in cattiva luce se stesso”.

Allorché il giudice di seconde cure scrive che “un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona”, non è chiaro se abbia voluto escludere la sussistenza della diffamazione intendendo alludere al fatto che il dileggio di una persona ipovedente non vale anche a scalfirne il valore e, quindi, a lederne la reputazione. Per gli Ermellini l'eccezione difensiva va condivisa, dacché la condotta di chi mette alla berlina una persona per talune caratteristiche fisiche, comunicando con più soggetti mediante l'utilizzo di un social network, può certo considerarsi un'aggressione alla reputazione di una persona come anche statuito in precedenti provvedimenti della Corte stessa.

Sul punto pare importante sottolineare un ormai consolidato orientamento della Corte, secondo il quale la piattaforma Facebook rappresenti una sorta di comunità virtuale, una piazza immateriale che consente un numero indeterminato di accessi e di visioni, resa possibile dall'evoluzione scientifica che il legislatore non poteva immaginare; si tratta di una interpretazione estensiva “che la lettera della legge non impedisce di escludere dalla nozione di luogo e che, a fronte della rivoluzione portata alle forme di aggregazione e alle tradizionali nozioni di comunità sociale, la sua ratio impone, anzi, di considerare”.

La circostanza che la reputazione individuale sia un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona, è stata ribadita, altresì, dalla Corte costituzionale, con sentenza n.150 del 2021. Ed è proprio la correlazione tra dignità e reputazione a venire in rilievo nel caso di specie, posto che le espressioni usate dall'imputato sottendono una deminutio della persona offesa che, in quanto ipovedente, non avrebbe dignità di interlocuzione pari a quella degli altri utenti della piattaforma.

La seconda parte della motivazione è stata considerata chiara nell'esporre le ragioni che hanno portato la Corte territoriale a ravvisare nella condotta di Tizio gli estremi del depenalizzato delitto di ingiuria. La Corte, al riguardo, ha ritenuto di disattendere la valutazione della Corte territoriale sul punto, ricordando che l'elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è costituito dal fatto che nell'ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all'offeso, mentre nella diffamazione l'offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore. Nei casi in cui il limite tra ingiuria e diffamazione si fa più opaco, il punto, allora, è capire se e quando l'offeso sia stato concretamente in condizioni di replicare. Se è vero, come scrive il giudice d'appello, che “la parte civile ha potuto ed era in grado di replicare alle offese, diffuse sulla chat”, è vero anche che tale possibilità si è data in un momento successivo alla pubblicazione delle offese su Facebook. Pronunciandosi sul discrimine tra ingiuria e diffamazione in caso di offese espresse per il tramite di piattaforme telematiche con servizio di messaggistica istantanea e comunicazione a più voci, la Corte ha chiarito che solo il requisito della contestualità tra comunicazione dell'offesa e recepimento della stessa da parte dell'offeso vale a configurare l'ipotesi dell'ingiuria. In difetto del requisito della contestualità, che non risulta emerso nel corso del processo, l'offeso resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore; nel qual caso, si profila l'ipotesi della diffamazione.

In riferimento dei possibili contesti in cui un'espressione offensiva può esternarsi, può dunque osservarsi, parafrasando la decisione della Cassazione n. 38099 del 2015 che “la diffamazione, avente natura di reato evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa”, a condizione che essi siano, in quel momento e in quel luogo (virtuale o non), in grado di difendersi.

Osservazioni

Dal provvedimento analizzato si può affermare che la sottile differenza tra ingiuria e diffamazione sta in una semplice emoji; che semplice, in realtà, non è. Perché in qualunque contesto, nemmeno una faccina sorridente può salvare dalla valutazione su reato o meno. Tuttavia, quando è utilizzata per prendere in giro la disabilità di una persona a mezzo social pubblico, può esserlo.

Il contesto, in questo caso, riguarda un commento arricchito di faccine sorridenti per deridere una persona dalla vista scarsa: dopo i primi due gradi di giudizio, che avevano sentenziato la mancanza della diffamazione, con il provvedimento in esame la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha annullato la decisione della Corte d'Appello di Milano, che aveva rubricato come ingiuria un post in cui l'autore ironizzava con emoji sulla miopia del destinatario.

Per la Cassazione, "le espressioni adoperate dall'imputato sottendono una deminutio della persona offesa, che, in quanto ipovedente, non avrebbe dignità di interlocuzione pari a quella degli altri utenti della piattaforma". Anche il mezzo di comunicazione con cui è stato espresso il commento, Facebook in questo caso, e le tempistiche costrette dei social, entrano a far parte dell'ampio contesto enunciato dalla Corte di Cassazione.

Con un post pubblicato su FB i tempi di replica non sono quelli di un confronto immediato, il contesto non è più consequenziale ma diventa frammentato. "Il requisito della contestualità tra comunicazione dell'offesa e recepimento della stessa da parte dell'offeso vale a configurare l'ipotesi dell'ingiuria [...] In difetto del requisito della contestualità, l'offeso resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore" per cui un insulto con emoji può portare all'accusa di diffamazione aggravata: "L'elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è costituito dal fatto che nell'ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all'offeso, mentre nella diffamazione l'offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore".

Ciò non vuol dire smettere di usare le emoji per accompagnare i propri stati d'animo, ma ricordarsi che il contesto e il tipo di relazione personale che abbiamo con la persona cui stiamo lasciando un commento, valgono anche nei social.

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