Sopravvenienze contrattuali: obbligo di rinegoziazione

08 Febbraio 2023

Cenni al complesso fenomeno delle sopravvenienze contrattuali con conseguente focus sulle sopravvenienze c.d. atipiche. Analisi dei rimedi esperibili in caso di eventi perturbativi del negozio giuridico in assenza di un’esplicita regolamentazione del legislatore e delle parti e introduzione all’obbligo di rinegoziazione del contratto e alle conseguenze derivanti dalla sua violazione.

Le sopravvenienze contrattuali

I contratti risentono sovente delle c.d. sopravvenienze contrattuali, ossia quegli eventi perturbativi che si realizzano successivamente alla stipula dell’accordo di durata che alterano il contesto giuridico o fattuale in cui l’accordo si è formato.

Le sopravvenienze vengono distinte dalla dottrina maggioritaria in tre categorie differenti:

  • sopravvenienze che modificano l’equilibrio economico originariamente sussistente tra le parti;
  • sopravvenienze che rendono impossibile l’esecuzione di un contratto (ad esempio, derivanti da un sopravvenuto divieto giuridico di commercializzazione di un determinato bene);
  • sopravvenienze che rendono le prestazioni oggetto del contratto inidonee a soddisfare gli interessi delle parti.

Le sopravvenienze contrattuali comportano un’alterazione sostanziale del sinallagma contrattuale, aggravando il sacrificio richiesto a una delle parti o riducendo l’interesse derivante dall’esecuzione del contratto; tali eventi perturbativi, tuttavia, sono fisiologici nei contratti di durata e rappresentano un rischio inevitabile per i contraenti.

Alcune sopravvenienze vengono definite tipiche dal momento che o è lo stesso ordinamento a prevederle e a regolamentare le conseguenze derivanti dalla loro manifestazione (sopravvenienze legalmente tipiche) oppure le parti, in sede di conclusione del contratto, hanno determinato esplicitamente le conseguenze connesse ad eventi futuri ed incerti. 

In caso contrario, si parlerà di sopravvenienza atipica.

Per quanto riguarda la gestione degli eventi perturbativi, è necessario, in primo luogo, escludere la rilevanza delle sopravvenienze contrattuali che non comportano un’alterazione rilevante del contesto in cui è stato stipulato l’accordo; non tutti gli eventi, infatti, sono in grado di determinare un’apprezzabile variazione dell’equilibrio contrattuale.

Allorché, invece, la sopravvenienza comporti un’effettiva incidenza nell’equilibrio del contratto, l’ordinamento ha predisposto dei rimedi. Tali rimedi hanno, in parte, natura conservativa, dal momento che sono finalizzati a permettere la prosecuzione del contratto, pur apportando delle modifiche finalizzate alla neutralizzazione degli squilibri che si sono manifestati.

I rimedi caducatori, al contrario, in presenza di una sopravvenienza contrattuale rilevante mirano a rimuovere il vincolo contrattuale e gli effetti allo stesso connessi.

Le sopravvenienze contrattuali atipiche

La problematica principale delle sopravvenienze contrattuali riguarda, come è stato accennato in precedenza, quegli accadimenti perturbativi i cui effetti non sono regolamentati dal Legislatore e dalle stesse parti in sede contrattuale.

L'ordinamento interno è del tutto insufficiente a fronteggiare in maniera idonea il complesso ventaglio degli accadimenti che si possono manifestare nei contratti di durata, prediligendo rimedi caducatori che, tuttavia, non soddisfano a pieno l'interesse delle parti e prevedendo rigidi criteri applicativi che rendono oltremodo difficoltoso l'utilizzo di tali strumenti.

Inoltre, anche in sede di stipula del contratto, il tema delle sopravvenienze viene sovente trascurato dalle parti, rendendo l'applicazione dei rimedi c.d. “convenzionali” del tutto residuale.

Nonostante gli ultratrentennali sforzi del diritto sovranazionale orientati nella gestione delle sopravvenienze contrattuali atipiche, soltanto negli anni Novanta la dottrina e la giurisprudenza si sono dedicate a tale tema.

Un orientamento dottrinale tradizionale, muovendo dal principio generale pacta sunt servanda (codificato dall'art. 1372 c.c.), negava effettiva rilevanza alle sopravvenienze atipiche, ritenendo che, al manifestarsi delle stesse, il contratto continuasse ad avere piena efficacia tra le parti e riconducendo all'eventuale sacrificio del contraente una manifestazione del rischio intrinsecamente connesso alla stipula del contratto stesso.

Secondo tale orientamento, permettere all'accertamento giudiziale di intervenire ove il Legislatore e le parti hanno deciso di non farlo comporterebbe una macroscopica violazione dell'intangibilità eteronoma del contratto, dalla quale potrebbe derivare una dannosa e pericolosa interferenza del giudice negli affari dei privati.

Inoltre, ammettere la rilevanza di eventi perturbativi sopravvenuti e non regolamentati dal Legislatore e dalle parti metterebbe in discussione la necessaria stabilità dei rapporti giuridici privati.

Tale orientamento, a lungo sostenuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza, è stato gradualmente superato mediante un revirement interpretativo.

Alla luce dell'importanza assunta dalla nozione di causa in concreto e della conseguente valorizzazione della clausola generale di buona fede contrattuale quale fonte immediatamente integrativa del contratto, è stata sostenuta l'impossibilità di ritenere l'art. 1467 c.c. un'eccezione alla generale irrilevanza delle sopravvenienze.

Secondo l'orientamento ormai prevalente, l'art. 1467 c.c. rappresenterebbe, al contrario, l'espressione del principio generale della vincolatività del contratto rebus sic stantibus (ossia: “stando così le cose”), tale per cui l'accordo ha valore solo quando è riferito ad una situazione di fatto e di diritto che ne costituisce il presupposto. Da ciò deriva che, in presenza di un'alterazione dei presupposti giuridici e fattuali, la stessa vincolatività del contratto è posta in dubbio, non “stando [più] così le cose”. 

Pertanto, pur riconoscendo valore al principio pacta sunt servanda, è necessario relativizzare tale principio alla luce della portata riconosciuta alla regola generale del rebus sic stantibus, di cui è espressione non solo l'art. 1467 c.c., ma anche tutte le altre disposizioni codicistiche che riconoscono rilevanza alle sopravvenienze nei contratti tipici.

I rimedi alle sopravvenienze atipiche: l'obbligo di rinegoziazione del contratto

Il primo rimedio elaborato dalla dottrina e dalla giurisprudenza è la presupposizione; di derivazione tedesca e traente le sue origini dalla dottrina pandettistica, questo istituto permette di gestire le sopravvenienze contrattuali che non soddisfano i rigidi requisiti previsti dall'art. 1463 c.c. (impossibilità sopravvenuta) e dall'art. 1467 c.c. (eccessiva onerosità sopravvenuta).

La presupposizione è applicabile quando, pur in mancanza di un'esplicita pattuizione in tal senso, è possibile ritenere che le parti, in sede di stipula del contratto, abbiano tenuto conto di un presupposto obiettivo, in difetto del quale diviene carente l'interesse all'efficacia del vincolo contrattuale.

Ai fini dell'applicabilità della presupposizione, devono essere presenti tre requisiti fondamentali:

  • situazione fattuale e giuridica comunemente considerata essenziale dalle parti;
  • situazione fattuale e giuridica ritenuta come certa e non rischiosa dalle parti;
  • obiettività della situazione presupposta dalle parti (non dovendo dipendere, pertanto, dalla condotta dei contraenti o da una loro manifestazione di volontà).

In presenza dei requisiti sopraindicati, la sopravvenienza dev'essere ritenuta rilevante. Tuttavia, non vi è unanimità di vedute in ordine al rimedio esperibile che, tuttavia, sarà di carattere caducatorio (una dottrina riconosce la sussistenza di un diritto potestativo di recesso, un altro orientamento propende per l'applicazione analogica dell'art. 1467 c.c. e altri esponenti della più recente dottrina ritengono applicabile il rimedio dell'inesigibilità della prestazione per contrarietà alla clausola di buona fede contrattuale).

Un secondo rimedio finalizzato alla gestione delle sopravvenienze atipiche è stato elaborato dalla giurisprudenza, che ha ritenuto applicabili analogicamente gli artt. 1256 c. 2 e 1463 c.c. a tutti i casi in cui la prestazione sottesa al contratto, pur essendo fattualmente possibile, non è più idonea a soddisfare l'interesse delle parti a causa di una sopravvenienza contrattuale.

Tuttavia, con esplicito riferimento alle sopravvenienze contrattuali che alterano l'equilibrio esistente al momento della stipula, i rimedi caducatori sin qui riportati potrebbero non essere pienamente satisfattori; la caducazione elimina ab origine il problema ma appare inadeguata a far fronte alle esigenze di mantenimento del rapporto contrattuale in caso di contratti di lunga durata o di rapporti economici impegnativi che potrebbero, se adeguati a dovere, proseguire per lungo tempo.

La dottrina e la giurisprudenza più recenti hanno ipotizzato la possibilità di configurare in capo alle parti contrattuali un vero e proprio obbligo di conservazione del contratto mediante la c.d. rinegoziazione, rendendo i rimedi caducatori l'extrema ratio.

L'obbligo di rinegoziazione dei termini contrattuali trae origine e fondamenta, secondo un autorevole orientamento dottrinale, dall'art. 1375 c.c., che dispone che il contratto debba essere eseguito secondo buona fede, e dall'art. 2 Cost.

Infatti, la condotta della parte che, approfittando di una sopravvenienza, attiva un rimedio caducatorio rifiutandosi – quantomeno – di tentare la rinegoziazione del contenuto del contratto, si pone in netto contrasto con il generale obbligo di tutela reciproca delle parti, riconosciuto dall'art. 1375 c.c.

La violazione dell’obbligo di rinegoziazione del contratto

È doveroso precisare che l’obbligo di rinegoziazione del contratto è stato tradizionalmente ritenuto un’obbligazione di mezzi; la finalità dell’obbligo non è quella di vincolare le parti a un “matrimonio” che non può più funzionare, circostanza che senza dubbio frustrerebbe il principio di autonomia negoziale delle parti.

Al contrario, si richiede alle parti una collaborazione leale e trasparente, tesa a trovare un rimedio conservativo idoneo a soddisfare gli interessi negoziali.

Ciò premesso, non è il mancato raggiungimento di un accordo ad integrare la violazione dell’obbligo di rinegoziazione contrattuale, potendo la stessa essere integrata solo da un comportamento contrario a buona fede di una delle parti che potrebbe manifestarsi in caso di rifiuto alla negoziazione o, in alternativa, in caso di negoziazione condotta in mala fede.

In seguito all’inadempimento dell’obbligo di rinegoziazione del contratto, sicuramente è azionabile il rimedio della risoluzione contrattuale che, tuttavia, ha natura caducatoria.

Un orientamento dottrinale ha elaborato un’interpretazione dell’obbligo di rinegoziazione del contratto finalizzata a renderlo un vero e proprio obbligo (nell’an ma non nel quantum) di contrarre, suscettibile di esecuzione specifica in sede giudiziale.

La dottrina maggioritaria, tuttavia, nega tale possibilità, ritenendo che – a differenza di quanto accade nell’ambito della reductio ad aequitatem nella risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta e della possibilità riconosciuta al giudice di modificare il contenuto del contratto preliminare in presenza di sopravvenienze – il riconoscimento di un tale potere in capo al giudice comporterebbe una violazione del principio di autonomia negoziale delle parti.

In conclusione, la violazione dell’obbligo di rinegoziazione contrattuale renderebbe esperibile il solo rimedio caducatorio della risoluzione contrattuale.

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