Contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa
Antonio Gerardo Diana
26 Gennaio 2023
Nel contributo si esamina il contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa, individuando i differenti schemi contrattuali e la risoluzione del contratto soffermandosi sull’analisi degli effetti della stessa.
Il profilo disciplinare
Per associazione in partecipazione, regolata dalle norme dettate dal c.c. (artt. 2549 e s. c.c.), s'intende un contratto di scambio (ovvero sinallagmatico) con cui una parte (l'associante) attribuisce ad un'altra parte (quella dell'associato), una partecipazione alla distribuzione degli eventuali utili di una sua impresa oppure di uno o di più affari. Tale partecipazione, nel caso di attività procrastinata negli anni, ovvero svolta in più esercizi, può avere cadenza annuale.
Tutto ciò, a fronte di un dato apporto (generalmente costituito da una somma di denaro).
In genere, poi, la partecipazione della quale si ha qui motivo, è anche alle perdite relative all'impresa, oppure all'affare considerato. Tuttavia, una tale partecipazione rimane delimitata al solo perimetro dell'apporto reso.
Talune volte, però, può accadere che l'apporto non sia costituito dalle già menzionate somme di denaro, ma da una prestazione lavorativa. In tal caso, si distingue detto apporto da quello riferito al lavoro subordinato, in quanto non si concreta un effettivo vincolo di dipendenza. All'assenza di questo elemento, si aggiunge anche quello riferito alla mancanza della stessa garanzia relativa ad un guadagno, solitamente connaturato alla sussistenza di un rapporto lavorativo.
Con la figura in esame, sostanzialmente, all'imprenditore si offre l'opportunità di avvalersi di uno strumento con cui procedere al reperimento di risorse finanziarie, necessarie all'espletamento della propria attività. Uno strumento, peraltro, utile all'imprenditore anche al fine di intercettare mezzi finanziari, per lo svolgimento di date operazioni, senza onerarsi anche di costi fissi.
Sulla posizione, pertanto, che viene assunta dai soggetti terzi, può osservarsi come gli stessi vengano con il contratto che si esamina ad acquistare diritti e coevemente ad assumere obbligazioni nei soli confronti dell'associante (art. 2551 c.c.)
Per quanto, invece, alla gestione dell'impresa, oppure dell'affare, si osserva come essa viene a gravare in capo allo stesso associante (ai sensi dell'art. 2552 c. 1 c.c.). Si fa, però, salva la possibilità che possa procedersi all'attribuzione di poteri di gestione e di rappresentanza alla parte associata. In tal caso, è fatto ricorso ad un distinto mandato con rappresentanza o preposizione institoria.
Per quanto alla causa del contratto che qui si considera, si osserva come un elemento essenziale di essa sia costituito dalla partecipazione dell'associato al rischio d'impresa. Quegli, infatti, è chiamato a prestare detta partecipazione tanto agli utili quanto alle relative perdite.
In capo alle parti, tuttavia, riposa anche la facoltà di preferire una diversa soluzione, con riguardo alla partecipazione alle eventuali perdite, segnatamente optando per la determinazione di una misura diversa rispetto a quella, invece, prevista per la partecipazione agli utili. Esse, inoltre, possono spingersi sino a prevedere l'esclusione in radice della partecipazione del'associato alle perdite medesime. Si tratta, in tal caso, di quella particolare situazione definita della cointeressenza impropria (art. 2554 c.c.).
Invece, la diversa situazione, impegnata questa dalla cointeressenza propria, prevede una partecipazione sia agli utili quanto alle perdite, ma senza apporto all'impresa altrui.
La legge conferisce all'associato un potere di controllo. Tale riconoscimento fonda sulla condizione dello stesso associato di partecipe del rischio economico dell'impresa, oppure dell'affare, anche se nei limiti della quota di utili cui egli partecipa e dell'apporto da lui conferito.
In particolare, l'associato ha diritto almeno a ricevere il rendiconto relativo all'affare che si sia portato a soluzione, oppure al rendiconto concernente la gestione su base annuale, qualora si tratti appunto di gestione che si protragga nel tempo per oltre l'anno. Ciò, ovviamente, salvo i poteri di controllo conferiti allo stesso associato dal contratto.
Il conferimento del potere del quale qui dinanzi, è necessario all'associato al fine di consentirgli l'effettiva individuazione delle ragioni di congruità riguardanti sia gli utili sia le stesse perdite che gli fossero appunto eventualmente addebitate (art. 2552 c.c.).
Accertamento di un rapporto professionale come di associazione in partecipazione
Questione non meno rilevante poi quella che si pone in relazione all'accertamento della natura di un dato rapporto professionale, ossia se lo stesso sia riconducibile al contratto di associazione in partecipazione, come disciplinato dalla normativa di riferimento (artt. 2549 e s. c.c.).
Sul punto si osserva come sia necessario condurre un'apposita indagine, finalizzata all'accertamento della effettiva esistenza del controllo della gestione dell'impresa o dell'affare da parte dell'associante.
Una tale attività può essere condotta attraverso la possibilità di accesso ai documenti economici dell'impresa, nonché all'obbligo della rendicontazione periodica dello stesso associante dei risultati di gestione.
Altro aspetto da indagare, poi, riguarda la possibilità, o meno, che il corrispettivo dell'attività lavorativa escluda il rischio d'impresa e, dunque, lo stesso carattere aleatorio del contratto, talché l'associato non nutre alcuna certezza in ordine alla remuneratività dell'apporto da lui eseguito.
Accertamento del rapporto contrattuale di associazione in partecipazione con prestazione di lavoro dell'associato
L'associazione in partecipazione, come si è detto, incontra la relativa disciplina nelle norme dettate dal codice civile (artt. 2549-2554 c.c.).
Con tale contratto una parte (associante) attribuisce all'altra (l'associato), la partecipazione agli utili dell'impresa, oppure di uno o anche più affari, verso un dato apporto che, come anche si è osservato, può essere costituito anche da una prestazione di lavoro.
In astratto, a tale riguardo, lo schema contrattuale che qui si vaglia appare agevolmente distinguibile dal rapporto di lavoro subordinato. Nella realtà, tuttavia, la linea che disegna il confine tra queste due figure appare affatto libera da incertezze.
Quindi, allo scopo di giungere all'individuazione della stessa linea confinaria tra le due diverse tipologie contrattuali, si è sostenuto che, nell'ambito della distinzione tra il contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato e contratto di lavoro con retribuzione collegata agli utili dell'impresa, la possibilità di ricondurre all'uno piuttosto che all'altro degli anzidetti schemi il rapporto, impone l'effettuazione di un'apposita indagine. Quest'ultima, in modo particolare, ha per scopo di cogliere la prevalenza degli elementi che sono caratteristici delle due distinte tipologie di contratto.
Nell'esecuzione dell'indagine, si ritiene così che debba aversi particolare cura di considerare come, nel caso del contratto di associazione, sia necessario osservare l'obbligo di rendiconto periodico dell'associante con l'esistenza per l'associato di un rischio d'impresa; mentre, il rapporto di lavoro subordinato, postula la sussistenza di un vincolo effettivo di subordinazione più esteso del potere generico dell'associante di rendere direttive ed istruzioni al soggetto cointeressato all'impresa.
Differenza tra schemi contrattuali (rapporto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro e rapporto di lavoro dipendente)
Sulla distinzione tra il contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa dell'associato e di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell'impresa, si ritiene che la riconducibilità di una fattispecie all'una, piuttosto che all'altra delle due tipologie di rapporti, impone di indagare le singole situazioni, allo scopo di individuare la prevalenza in esse, sulla base delle modalità con cui è attuato il concreto rapporto, dei vari elementi di cui sono caratterizzati i due diversi ambiti contrattuali considerati, avendo cura della circostanza che, da una parte, il rapporto di associazione postula la stesura di un rendiconto periodico dell'associante, nonché la sussistenza per l'associato di un rischio d'impresa; ben diversa, invece, la situazione nella quale è calato il rapporto di lavoro subordinato, il quale postula, la sussistenza di un più saldo ed effettivo vincolo di subordinazione, di gran lunga maggiore del solo generico potere di direttiva ed istruzione dell'associante rispetto al cointeressato.
Nel rapporto di lavoro subordinato, quindi, si delinea la soggezione del prestatore al potere sia gerarchico sia disciplinare del soggetto che assume le decisioni di base della stessa organizzazione dell'azienda.
La riconduzione, dunque, di un dato rapporto all'uno, invece che all'altro dei due schemi qui in considerazione, impone, come si è detto, l'esecuzione di un'apposita indagine, finalizzata ad evidenziare la prevalenza, alla stregua delle modalità di attuazione del rapporto concreto, degli elementi che si pongono in chiave di caratterizzazione dei due distinti rapporti qui considerati.
L'elemento reputato, in specie, idoneo a contraddistinguere il rapporto di lavoro subordinato, così da differenziarlo da altre fattispecie (si v. ad es. il caso del rapporto di lavoro autonomo; della società oppure dell'associazione in partecipazione con apporto di prestazioni lavorative), è costituito, come già rilevato, dalla sussistenza di una condizione di assoggettamento di colui che esegue la prestazione lavorativa, al potere direttivo, disciplinare e, in ultima analisi, organizzativo del datore di lavoro.
Di questi ultimi poteri, deve poi rilevarsi, quello direttivo non può concretarsi solamente in un mero svolgimento di attività con cui sono impartite direttive, appunto, a carattere, però, generale, dovendosi piuttosto manifestare, mediante l'imposizione di ordini precisi e specifici, ripetuti ed assolutamente concernenti la stessa prestazione lavorativa. Inoltre, l'esplicazione del potere organizzativo non può, a sua volta, trovare svolgimento in un mero coordinamento, anche questo così compatibile con dei rapporti aventi una diversa natura, dovendo avere la propria manifestazione, invece, in un effettivo inserimento del lavoratore nell'ambito dell'organizzazione aziendale.
Peraltro, l'imputazione, per opera delle parti, di una data qualificazione al contratto all'atto della relativa conclusione, non ha carattere decisivo. Tuttavia, essa non può considerarsi come del tutto sfornita di una sua rilevanza. Così, ove a fronte della imputata natura subordinata del rapporto costituito, sia, invece, dedotta (e provata in modo documentale) nella opportuna sede, la sussistenza di un rapporto di associazione in partecipazione, deve procedersi sul terreno del relativo accertamento, facendo ricorso a criteri di particolare rigore.
Sul punto di cui qui in ultimo, infatti, si osserva come anche la figura dell'associato, può ricevere un tipo di inquadramento che lo rende destinatario di direttive ed istruzioni e che lo fa oggetto anche dell'espletamento di un'attività di coordinamento, la quale, in senso ampio, può essere intesa come organizzativa.
Nell'accertamento meticoloso al quale si è fatto dinanzi riferimento, non debbono poi essere trascurati aspetti, i quali sono riferibili ora all'uno ora all'altro dei due rapporti che qui si considera (in via di esempio, quindi: per uno, l'assunzione di un rischio economico e l'approvazione di rendiconti; per l'altro, poi, la soggezione reale e provata, al potere disciplinare del datore di lavoro).
Infine, la causa del contratto di associazione in partecipazione: la quale consiste, come già sottolineato, nello scambio tra un dato apporto dell'associato all'impresa dell'associante e nel conseguente vantaggio di carattere economico che l'associante medesimo s'impegna a consentire di ricevere all'associato.
Invece, non assume significato qualificante la partecipazione alle perdite, poiché anche nel caso in cui essa sia esclusa, non viene meno la condivisione del rischio d'impresa, anche se nelle forme della mancata remunerazione del lavoro svolto; e neanche la commisurazione della partecipazione del lavoratore associato al ricavo dell'impresa anziché agli utili netti, dato che la norma (art. 2553 c.c.), ammette che le parti possano determinare la misura della partecipazione dell'associato agli utili; infine, analoga mancanza di un valore significativo è attribuita all'assenza di un controllo effettivo dell'associato sulla gestione dell'impresa (atteso che la legge prevede il diritto dell'associato sia al controllo sia al rendiconto annuale della gestione, lasciando però libero lo stesso associato di esercitare, oppure non, tali poteri).
In breve, pertanto, sulla specifica materia della distinzione tra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa da parte dell'associato e contratto di lavoro subordinato con retribuzione collegata agli utili dell'impresa, si osserva come la riconducibilità della fattispecie concreta all'uno piuttosto che all'altro degli schemi anzidetti, pone al suo centro lo svolgimento di una indagine la quale si prefigge come scopo di cogliere la prevalenza, sulla scorta delle modalità di attuazione del rapporto concreto, degli elementi caratterizzanti le due diverse tipologie di contratto.
In tale sede, in modo particolare, occorre perciò avere cura di considerare che il contratto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro, postula l'obbligo in capo all'associante alla rendicontazione periodica; l'associato è poi soggetto al rischio d'impresa.
Diversa connotazione, invece, quella acquisita dal rapporto di lavoro subordinato, il quale presuppone la sussistenza effettiva di un vincolo di lavoro subordinato appunto, più esteso del generico potere dell'associante di impartire direttive ed istruzioni al cointeressato. In particolare, detto rapporto implica un assoggettamento al potere sia gerarchico sia disciplinare della persona, oppure di quell'organo che assuma le scelte di fondo dell'organizzazione dell'azienda.
Esclusione della partecipazione alle perdite e soggezione al rischio economico in senso ampio dell'associato
La divisione delle perdite non si considera elemento dal quale non sia dato prescindere, al fine della configurazione della fattispecie dell'associazione in partecipazione come tale.
A fondamento di detta valutazione, la considerazione per cui la norma (art. 2553 c.c.), nonostante ne preveda il ricorso in via generale, ammette che le parti possano derogare a tale regola. Ove ciò si verifichi, quindi, dette parti limitano la divisione alla sfera degli utili.
Tuttavia, anche a fronte del verificarsi di una tale eventualità, non cessa la sussistenza del carattere aleatorio del contratto. Ciò, in quanto, in assenza di utili, l'apporto lavorativo offerto dall'associato, si conclude con il non ricevere compenso alcuno.
Conseguentemente, si è ritenuto che l'associato, il quale presti il proprio apporto lavorativo in una impresa che ottenga dei risultati di segno negativo, è soggetto, in senso ampio, ad un rischio di ordine economico, anche ove le parti medesime abbiano escluso la partecipazione alle perdite. Nel caso di cui qui in ultimo, infatti, la mancanza di utili, ha quale effetto la stessa mancanza di compensi, in quanto questi ultimi sono necessariamente collegati all'andamento economico dell'impresa.
La risoluzione del contratto di associazione in partecipazione
Il contratto di associazione in partecipazione è annoverato tra i contratti di scambio. Ciò postula che a questa figura non sia applicabile la disciplina prevista per le società, mentre trovano applicazione le disposizioni che, in generale, sono previste per i contratti sinallagmatici: così in materia di risoluzione per inadempimento. Ciò che ha fatto ritenere inapplicabili le disposizioni dettate, invece, per la fattispecie dell'esclusione del socio.
L'associante, nell'ambito del rapporto di cui qui si argomenta, possiede una sua sfera di discrezionalità, centro unico di responsabilità per lo svolgimento dell'attività economica.
Tuttavia, prendendo le mosse dal carattere sinallagmatico del contratto di associazione in partecipazione, si è così ritenuta l'ammissibilità dell'azione di risoluzione per inadempimento, nel caso in cui abbia luogo una situazione di completa inerzia, oppure di omesso perseguimento, da parte dell'associante, degli scopi ai quali è preordinata l'attività di gestione dell'impresa ovvero dell'affare.
Quadro, questo, nel quale si colloca la soluzione che si è così sposata e che perora la tesi della sussistenza delle condizioni idonee ai fini della risoluzione del contratto di associazione in partecipazione. Ciò, segnatamente, con riguardo all'ipotesi di inadempimento radicale dell'associante che non consenta all'associato la partecipazione agli utili maturati dall'impresa, mancando altresì di rendere il conto della gestione.
Non di meno l'associante ha facoltà di domandare la risoluzione del contratto, allorquando sia dimostrato che l'altra parte (l'associato), invece di attivarsi per il raggiungimento degli interessi che accomunano le parti, assuma una condotta sostanzialmente votata al disconoscimento di quegli stessi.
Per meglio puntualizzare sull'argomento, occorre in primo luogo ribadire che, nell'ambito del contratto che si sta esaminando, di regola la titolarità in via esclusiva dell'impresa e della relativa gestione, come poste in capo all'associante, incontra un limite, rispettivamente: nell'obbligo dello stesso associante alla rendicontazione, sia al compimento dell'affare oppure della gestione annuale, la quale si protragga per un tempo superiore all'anno (secondo la previsione dell'art. 2552 c. 3 c.c.) sia in corso di durata del rapporto medesimo; nel dovere generale di esecuzione del contratto secondo buona fede.
Quest'ultimo, poi, trova suoi approdi concreti nel dovere di realizzare l'affare, oppure l'intera operazione economica osservandosi un tempo, il quale sia ragionevolmente necessario al raggiungimento di un tale obiettivo.
Conseguentemente può cosi rilevarsi come, in base ai principi generali posti a fondamento della figura della risoluzione del contratto sinallagmatico per inadempimento (che trovano applicazione, come sopra osservato, alla particolare fattispecie del contratto di associazione in partecipazione), la peculiare condizione relativa allo stato d'inerzia, oppure quella riferita al mancato perseguimento, da parte dell'associante, degli scopi ai quali la stessa attività dell'impresa o di gestione dell'affare rimane comunque rivolta, matura la specifica condizione dell'inadempimento, allorché essa si caratterizzi per essersi protratta ben oltre ogni ragionevole limite di tollerabilità.
La situazione di totale inerzia, oppure quella riferita al mancato perseguimento dei fini ai quali la gestione dell'affare oppure dell'impresa che costituisce l'oggetto del contratto sinallagmatico di associazione in partecipazione, è rivolta può, pertanto, legittimare il ricorso all'esperimento dell'azione di risoluzione per inadempimento, secondo le regole degli artt. 1453 e s. c.c.
Una tale condizione, si è ritenuta riferita anche all'ipotesi in cui il contratto in questione non annoveri la previsione di particolari controlli da parte dell'associato oppure di termini ai fini dell'inadempimento dell'obbligo assunto dalla controparte, ove maturi la circostanza per cui un tale comportamento omissivo si protragga nel tempo superando i limiti propri della ragionevole tolleranza, come dinanzi già sottolineato.
Accanto a questa prima complessiva valutazione, può poi aggiungersi, a proposito della figura dell'associazione in partecipazione, come la stessa sia riconducibile alla categoria dei contratti di collaborazione. Essa annovera quale “missione” il conseguimento di un risultato comune mediante l'apporto dei partecipanti. Quest'ultimo, come si è già chiarito, è in parte patrimoniale ed in parte personale. Quindi, ove ricorra il caso della cessazione di uno solamente di detti elementi, che rivesta carattere essenziale rispetto al rapporto che si è concluso, tale circostanza può elevarsi a situazione causalmente idonea a determinare la risoluzione del contratto.
Aspetto sul quale pure si richiama l'interesse dell'interprete, è poi quello legato alla valutazione della gravità dell'inadempimento, segnatamente in relazione all'accoglimento della domanda di risoluzione eventualmente proposta (art. 1445 c.c.).
Il relativo accertamento deve effettuarsi tenuto conto del quadro complessivo del rapporto e degli interessi reciproci delle parti contraenti. Così, ove l'inadempimento nel quale sia incorsa una parte non sia anche grave, il rifiuto di adempiere opposto dall'altra parte, non è accompagnato da buona fede e, dunque, in quanto tale da concludere come non giustificato.
Risoluzione e suoi effetti
La risoluzione per inadempimento dell'associante del contratto di associazione in partecipazione è all'origine di un'altra, non meno importante questione: quella munita di carattere restitutorio.
In tale eventualità, in modo particolare, si pone la necessità di chiarire se, da parte dell'associato, vi sia il relativo diritto alla restituzione della somma che, in sede di apporto, egli ebbe così modo di corrispondere all'associante, oppure della somma la quale consegua dall'applicazione sull'importo a suo tempo apportato, in addizione oppure sottrazione degli utili/perdite maturate sino al momento della anzidetta risoluzione del vincolo contrattuale.
La soluzione tradizionalmente seguita, milita in senso favorevole alla prima ipotesi. A sostegno di tale opzione, infatti, si argomenta che l'applicazione, secondo la via sostanziale, della regola contemplata dalla seconda parte della norma (art. 1458 c. 1 c.c.) per i contratti ad esecuzione continuata oppure periodica, risulta chiusa essenzialmente dal rilievo secondo cui l'apporto dell'associato rappresenta una dazione o prestazione unitaria, la cui natura è quella patrimoniale oppure tecnica, a fronte ed in cambio di una controprestazione, anche questa considerata unitariamente, costituita dalla partecipazione agli utili ed alle eventuali perdite.
In senso contrario alla soluzione normativa, si è invece sostenuto che, qualora la risoluzione del contratto segua a vicende le quali affliggano non la fattispecie, ma lo svolgimento del rapporto contrattuale, nel contratto di associazione in partecipazione, l'associato è soggetto, per l'intera durata del rapporto, al rischio, relativo all'esercizio dell'impresa e/o allo svolgimento dell'affare al quale il contratto fa riferimento. Talché, le perdite interessano l'associato, sino al limite segnato dall'azzeramento dell'apporto.
D'altronde, si è pure osservato, come in caso di cessazione del contratto di associazione in partecipazione per scadenza del termine di durata stabilito dalle parti, in capo all'associato non si porrebbe un diritto alla restituzione dell'apporto da lui reso, inteso in quanto tale, come anche si verificherebbe tenuto conto della soluzione inizialmente richiamata. Egli, si è sostenuto, avrebbe invece diritto al conseguimento di una somma, la quale conteggi sia l'apporto sia i risultati di periodo dell'impresa o degli affari compiuti.
In base, invece, alla previsione recata dalla norma (art. 2553 ult. Parte c.c.), la partecipazione alle perdite dell'associato è definita nella misura del valore relativo al suo apporto.
Il contratto di associazione in partecipazione è stato anche letto in chiave di figura negoziale il cui scopo, nell'ambito appunto di un rapporto sinallagmatico con elementi di aleatorietà, è quello costituito da finalità che, in parte, sono analoghe a quelle proprie dei contratti societari. In particolare, si è sostenuto che ai sensi della relativa disposizione di legge (art. 77 L.Fall.), il contratto di associazione in partecipazione si scioglie in conseguenza del fallimento dell'associante. Sulla figura dell'associato, quindi, il diritto di far valere nel passivo il proprio credito per quella parte dei conferimenti, la quale non sia assorbita dalle perdite a suo carico.
In effetti, si è sottolineato, come la disciplina della quale qui in ultimo si è ricordato il contenuto, parrebbe porsi come conseguenza diretta della regola relativa alla non retroattività dei contratti ad esecuzione continuata (art. 1458 c. 1 c.c.).
Si rammenta, infine che, ai sensi della disciplina dettata dal codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (art. 182 D.Lgs. 14/2019), lo scioglimento dell'associazione in partecipazione è determinato in conseguenza dell'apertura della liquidazione giudiziale nei confronti dell'associante. La norma riconosce all'associato il diritto di far valere nel passivo della liquidazione giudiziale, il credito per quella parte dei conferimenti che non è assorbita dalle perdite a suo carico. Su quest'ultima figura, poi, la stessa disposizione di legge prevede l'obbligo del versamento della parte ancora dovuta nei limiti delle perdite poste a suo carico.
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Sommario
Accertamento del rapporto contrattuale di associazione in partecipazione con prestazione di lavoro dell'associato
Differenza tra schemi contrattuali (rapporto di associazione in partecipazione con apporto di lavoro e rapporto di lavoro dipendente)
Esclusione della partecipazione alle perdite e soggezione al rischio economico in senso ampio dell'associato