Diritto alla detrazione dell'IVA, comportamenti abusivi, risparmio d'imposta e consapevolezza tra giurisprudenza sovranazionale e di legittimità

Andrea Venegoni
18 Aprile 2023

Nell'ambito della vendita di un bene immobile tra soggetti passivi, non può negarsi all'acquirente il diritto alla detrazione dell'IVA assolta a monte, per il solo fatto che egli sapeva o avrebbe dovuto sapere che il venditore si trovava in stato d'insolvenza o in difficoltà finanziarie tali da poterne comportare il mancato versamento dell'IVA all'erario.
Il principio di neutralità ed il caso concreto

Il meccanismo di assolvimento dell'IVA, come è noto, si basa sul principio di neutralità.

Prendendo in considerazione lo schema base di operazioni puramente nozionali, esso significa, quindi, che, per ogni operazione rientrante nella sfera di debenza dell'IVA, chi paga l'imposta all'operatore “a monte” ha il diritto di detrarla nell'operazione “a valle”.

Questo è, in sostanza, il significato dell'art. 168 della direttiva IVA 2006/112/CE secondo cui “nella misura in cui i beni ed i servizi sono impiegati ai fini di sue operazioni soggette ad imposta, il soggetto passivo ha diritto, nello Stato membro in cui effettua tali operazioni, di detrarre dall'importo dell'imposta di cui è debitore l'IVA dovuta o assolta nello Stato membro per i beni ceduti o i servizi resi da un altro soggetto passivo”.

Nel caso di specie, in estrema sintesi, si configura la seguente situazione:

a) nel 2007, un operatore economico riceve un finanziamento da una banca per effettuare un'operazione immobiliare e, a fronte del finanziamento, costituisce a favore della banca un'ipoteca su una parte del relativo terreno;

b) alcuni anni dopo, nel 2015, un altro operatore economico (colui che è diventato parte nella controversia in cui è stata sollevata la questione pregiudiziale), che ai fini della presente nota si può definire come “soggetto passivo”, rileva dalla banca il credito verso l'operatore che voleva effettuare l'operazione immobiliare, inclusi i diritti derivanti dall'ipoteca, che la banca gli cede;

c) a quell'epoca, l'operatore economico che voleva effettuare l'operazione immobiliare e che aveva ricevuto il finanziamento dalla banca era già soggetto a procedura di insolvenza davanti alla giurisdizione nazionale;

d) tra maggio ed agosto 2016, il soggetto passivo, dopo un'asta infruttuosa sul terreno, acquista il bene direttamente dall'operatore economico in difficoltà economica (il venditore), versando anche l'IVA sul prezzo; egli registra la fattura nella propria contabilità detraendo l'IVA versata “a monte”; anche il venditore registra la fattura, scorporando l'IVA dal prezzo, ma senza versare l'imposta all'erario, in virtù del suo stato di insolvenza;

e) nell'ottobre 2016, il venditore viene dichiarato fallito;

f) nel dicembre 2016, il soggetto passivo chiede allora all'amministrazione fiscale il rimborso l'eccedenza di IVA risultante dalla detrazione dell'IVA a monte, non avendo il venditore versato l'IVA a suo carico;

g) l'amministrazione nega il rimborso e la detrazione dell'IVA, ipotizzando un comportamento in malafede del soggetto passivo, in quanto egli poteva rendersi conto fin dall'inizio dell'operazione che il venditore, a causa delle sue condizioni economiche, non avrebbe versato l'IVA. Ipotizza, quindi, che l'operazione altro non sia stata che un sistema sfruttato dal soggetto passivo per lucrare indebitamente sulla situazione ed ottenere un rimborso di IVA;

h) da qui sorge la controversia tributaria sul mancato rimborso, nell'ambito della quale il giudice tributario solleva la questione pregiudiziale.

La sentenza CGUE del 15 settembre 2022, C-227/21

La sentenza in epigrafe ricorda, in primo luogo, il sistema-base di funzionamento dell'IVA, anche per come elaborato dalla giurisprudenza della Corte e, in particolare, il fatto che il sistema delle detrazioni di cui all'art. 168 della direttiva IVA è inteso ad esonerare interamente l'imprenditore dall'IVA dovuta o assolta nell'ambito di tutte le sue attività economiche. Il sistema comune dell'IVA garantisce pertanto la neutralità dell'imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purché queste siano, in linea di principio, di per sé soggette all'IVA.

Il diritto a detrazione previsto dagli artt. 167 ss. della direttiva IVA afferma la sentenza (punto 25), costituisce parte integrante del meccanismo dell'imposta e, in linea di principio, non può essere soggetto a limitazioni.

Quanto al fatto che, nel caso di specie, il venditore non aveva versato l'IVA all'erario nazionale, la sentenza afferma che ciò è irrilevante ai fini della detrazione da parte del soggetto passivo, perché subordinare la detrazione a tale adempimento, che grava su un soggetto diverso (il venditore o prestatore di servizi “a monte”) comporterebbe che il soggetto passivo sarebbe soggetto ad un'imposizione economica cui non è tenuto e che il sistema delle detrazioni mira appunto ad evitare.

Sulla base di queste considerazioni, la controversia sembrerebbe di facile soluzione, nel senso che il soggetto passivo aveva certamente diritto alla detrazione dell'IVA “a valle”.

Il punto è, però, un altro.

Guardando al mero risultato economico dell'operazione, infatti, se, nel caso di specie, la detrazione fosse stata riconosciuta al soggetto passivo, si sarebbe ottenuto che, da un punto di vista come detto meramente economico, nessuno avrebbe versato l'IVA su un'operazione che vi era, invece, soggetta. L'IVA, infatti, non è stata versata dal venditore in virtù delle sue condizioni economiche, ma, in virtù della detrazione, non sarebbe stata sostenuta economicamente nemmeno dal soggetto passivo.

Il risultato sarebbe stato allora, che su un'operazione certamente soggetta ad IVA, nessuno avrebbe pagato l'imposta, pur essendo avvenuto il trasferimento del bene.

Una situazione che, in teoria, potrebbe anche fare pensare ad uno schema architettato ad arte per permettere al beneficiario finale (il soggetto passivo) di ottenere il bene senza il pagamento di alcuna imposta in favore dello Stato.

Per questo, la Corte, nella seconda parte della sentenza, si sofferma su una serie di concetti di grande importanza: in particolare, se si è in presenza di una frode, oppure dell'uso distorto di meccanismo lecito (abuso del diritto); il tutto sulla premessa che la materia rientra nella propria giurisdizione per la natura dell'imposta sul valore aggiunto.

L'IVA, gli interessi finanziari dell'Unione e la direttiva 1371/2017 (c.d. direttiva PIF)

Tra le varie questioni affrontate dalla sentenza, un inciso è particolarmente importante, anche se non riguarda strettamente la materia fiscale.

Si tratta della parte in cui essa ribadisce che le entrate provenienti dall'IVA attengono agli interessi finanziari dell'Unione.

È una questione su cui molto si è dibattuto negli anni passati, soprattutto in occasione dell'approvazione di nuovi strumenti normativi per la protezione degli interessi finanziari dell'Unione anche attraverso il diritto penale, ed in particolare la direttiva 1371/2017 (c.d. direttiva PIF) che ha compiuto, sulla scia di una precedente Convenzione del 1995, un ulteriore tentativo di più intensa armonizzazione dei reati in materia [1], ed il regolamento UE 1939/2017 che ha istituito l'Ufficio della Procura Europea (generalmente noto con l'acronimo “EPPO” dell'espressione inglese European Public Prosecutor Office), l'organo giudiziario inquirente dal 2021 addetto a condurre indagini penali europee su tali reati.

Ai fini penalistici, tuttavia, le condotte di evasione IVA rilevanti ai fini dell'inclusione nella c.d. “area PIF” e quindi nelle indagini di EPPO sono solo quelle che provocano un danno di almeno 10 milioni di euro e coinvolgono almeno due Stati Membri dell'Unione.

L'affermazione della Corte di Giustizia per cui l'IVA attiene agli interessi finanziari dell'Unione, che ribadisce una giurisprudenza consolidata in parte citata nella pronuncia in commento, è rilevante perché tale concetto era stato messo in discussione da vari Stati in sede di negoziazione degli strumenti normativi sopra ricordati e, se tali tesi avessero avuto il sopravvento, le condotte di frode che riguardano l'IVA sarebbero rimaste al di fuori dalla c.d. “area PIF” e dagli strumenti normativi che la riguardano.

Quello che però è importante sottolineare anche ai fini dell'analisi della presente sentenza, è che la direttiva PIF sopra indicata contiene una definizione di “frode”. Ai fini penalistici, per l'applicazione della direttiva e delle indagini di EPPO, essa riguarda solo le frodi che, come detto, determinano un danno di almeno 10 milioni di euro e coinvolgono almeno due Stati Membri.

Ai fini non penalistici, in cui non esiste una definizione di “frode”, ma in cui è importante stabilire cosa sia un comportamento fraudolento perché certamente esso rientra nella categoria dei “comportamenti abusivi” che non legittimano la detrazione, ed ai quali la sentenza fa ampi riferimenti, la definizione contenuta nella direttiva PIF può certamente essere un criterio interpretativo, sebbene non esclusivo, e, naturalmente, non subisce i limiti sopra indicati che incontra invece la definizione penalistica.

Orbene, ai sensi dell'art. 3, § 2, lett. d) della suddetta direttiva la frode in materia di IVA consiste nell'azione od omissione in relazione:

i) all'utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti relativi all'IVA, cui consegua la diminuzione di risorse del bilancio dell'Unione;

ii) alla mancata comunicazione di un'informazione relativa all'IVA in violazione di un obbligo specifico, cui consegua lo stesso effetto; ovvero

iii) alla presentazione di dichiarazioni esatte relative all'IVA per dissimulare in maniera fraudolenta il mancato pagamento o la costituzione illecita di diritti a rimborsi dell'IVA.

Il comportamento abusivo ostativo della detrazione

Si può quindi ritenere che, in presenza delle condizioni sopra indicate, si sia davanti ad un comportamento abusivo, cui la sentenza in commento fa riferimento.

Ma sul piano non penalistico vi possono essere altre situazioni che potrebbero non configurare necessariamente reato e, in particolare, “frode”, ed essere qualificate ugualmente come comportanti abusivi.

La sentenza, infatti, afferma che tale situazione ricorre in presenza di due requisiti:

a) le operazioni devono avere come obiettivo l'ottenimento di un vantaggio fiscale contrario all'obiettivo perseguito dalle disposizioni della direttiva IVA;

b) lo scopo di tali operazioni deve consistere esclusivamente nell'ottenimento del suddetto vantaggio fiscale indebito.

La questione è stabilire quando ricorrano tali situazioni, e qui l'analisi si fa prevalentemente casistica e non può prescindere dalle caratteristiche della situazione concreta.

Il fatto è che la realtà ha molte sfumature tra il bianco ed il nero, per cui tra il comportamento palesemente non abusivo e quello chiaramente abusivo vi è, in mezzo, tutta una gamma di situazioni che richiedono un'analisi specifica da parte del giudice di merito nel caso singolo.

Per fare un esempio, forse un po' semplicistico ma che rende molto bene la situazione, si potrebbe fare la seguente equiparazione: il pagamento di un'imposta corrisponde al pagamento di un pedaggio autostradale.

Se lo scopo al quale io tendo è raggiungere lo stadio di Milano partendo da Genova, per andare a vedere la partita, senza pagare il pedaggio autostradale (cioè tendo a voler raggiungere un risultato senza pagamento di imposta), ho davanti a me varie possibilità.

Posso decidere di fare tutto il percorso su strada statale, e in tal caso non avrò pagato alcun pedaggio (quindi nessuna imposta nella nostra equiparazione), ma certamente non mi si potrà imputare di avere posto in essere un “comportamento abusivo” (e tantomeno fraudolento) tendente ad un indebito vantaggio fiscale, perché fare tutto il percorso su strada statale è una possibilità che l'ordinamento mi mette a disposizione, ed utilizzarla è del tutto lecito, anche se comporta il mancato pagamento di un'imposta (nel nostro esempio, il pedaggio).

Se, invece, deciderò di utilizzare l'autostrada, ma, arrivato al casello di Milano, sfreccerò veloce senza fermarmi a pagare il pedaggio, sfondando la barriera rappresentata dalla apposita sbarra che, normalmente, viene aperta dal personale solo dopo il pagamento, avrò certamente compiuto un comportamento non solo abusivo, ma in aperta violazione della legge, contrario all'ordinamento e tendente all'evasione dell'imposta.

Questi sono i due estremi, all'interno dei quali si possono, però, configurare una serie di altre situazioni.

Se, per ipotesi, una norma stabilisse che le autovetture che trasportano malati non pagano il pedaggio in autostrada, e io caricassi sulla mia vettura, a Genova, un mio parente malato, ma, arrivato a Milano in autostrada ed avendo fatto valere tale circostanza evitando il pagamento, lo lasciassi poi due ore in macchina o in un bar e io andassi a vedere la partita, la qualificazione del mio comportamento richiederebbe un'analisi più complessa.

È vero, infatti, che la norma esenta dal pagamento del pedaggio chi trasporta malati, e in questo senso io ho utilizzato una possibilità che l'ordinamento mi mette a disposizione, ma la norma ha una chiara finalità agevolativa nei confronti di questi ultimi, per favorire l'accesso ai centri di ricerca milanesi.

Se io utilizzo tale possibilità per uno scopo completamente diverso (andare a vedere la partita senza pagare l'autostrada), si può fondatamente ritenere che abbia ottenuto indebitamente un vantaggio contrario a quello che la norma intende perseguire.

Le varianti, però, possono anche aumentare: potrei portare il malato con me a vedere la partita, oppure potrei portarlo effettivamente prima in ospedale (rispondendo allo scopo della norma), ma poi potrei completare la giornata andando con lui allo stadio; anzi, potrei avere pianificato già dalla partenza questo progetto, di sfruttare la sua presenza sulla mia auto ed approfittare della sua visita medica, fatta fissare appositamente nel giorno che mi interessava, per fare combaciare questa situazione con il vero fine del mio viaggio a Milano, andare a vedere la partita senza pagare il pedaggio autostradale (cioè l'imposta), come, invece, avrei dovuto fare normalmente.

Tornando al caso di cui si occupa la presente sentenza, la Corte di Giustizia sembra proprio voler richiamare ancora una volta l'attenzione su pratiche che – al di fuori delle ipotesi classiche di “frode” – consentono il conseguimento di un risultato che non è quello che la norma utilizzata intende ottenere.

Nell'ordinamento italiano, la Corte di cassazione si occupa di queste tematiche ormai da parecchi anni, avendo elaborato il concetto di “abuso del diritto” in materia tributaria come la realizzazione di operazioni economiche prive di reale sostanza che, però, realizzano vantaggi fiscali indebiti.

Lo stesso è stato da ultimo normativamente previsto dal 2016 con l'introduzione dell'art. 10-bis nella l. n. 212/2000, a seguito dell'evoluzione giurisprudenziale che si fa tradizionalmente risalire alle tre sentenze della Corte di cassazione n. 30055, 30056 e 30057 del 2008.

Il concetto, però, era ampiamente noto all'ordinamento UE e alla giurisprudenza della Corte di Giustizia da epoca anteriore, come emerge dal solo riferimento alla sentenza “Halifax” del 2002 e a molte altre dopo di essa.

Senza addentrarsi ora in un'analisi approfondita di questo concetto, può essere utile richiamare, a mero titolo esemplificativo, una delle ultime sentenze della Suprema Corte che si sono espresse sul tema [2].

In essa, in realtà in materia di imposte dirette, la Corte conferma che “il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo – rinvenibile negli stessi principi costituzionali che informano l'ordinamento tributario italiano oltre che nei principi comunitari (Cass. 19 febbraio 2014, n. 3938) – che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d'imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, la cui ricorrenza deve essere provata dal contribuente”.

In particolare, precisa ancora la sentenza, integra gli estremi del comportamento abusivo quell'operazione economica che – tenuto conto sia della volontà delle parti implicate, sia del contesto fattuale e giuridico – ponga quale elemento predominante e assorbente della transazione lo scopo di ottenere vantaggi fiscali, con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale se quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi d'imposta.

Questione delicata è, però, come sia ripartito l'onere della prova in materia.

Anche in questo caso, l'ultima giurisprudenza citata, che riprende orientamenti già affermati nella giurisprudenza della Corte, ribadisce che “la prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato (Cass. 21 gennaio 2009, n. 1465) e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull'Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l'onere di allegare l'esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate”.

Inoltre, non è configurabile l'abuso del diritto se non sia stato provato dall'ufficio il vantaggio fiscale che sarebbe derivato al contribuente accertato dalla manipolazione degli schemi contrattuali classici (Cass. 22 settembre 2010, n. 20029). Pertanto, il carattere abusivo, sotto il profilo fiscale, di una determinata operazione, nel fondarsi normativamente sul difetto di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale (Cass., Sez. Un., 23 dicembre 2008, n. 30055 e 30057; v. CGUE nei casi 3M Italia, Halifax, Part Service), presuppone quanto meno l'esistenza di un adeguato strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dai contraenti, sia comunque funzionale al raggiungimento dell'obiettivo economico perseguito (Cass. 30 novembre 2012, n. 21390, p. 3.2) e si deve indagare se vi sia reale fungibilità con le soluzioni eventualmente prospettate dal fisco (Cass. 26 febbraio 2014, n. 4604, Cass. 16 marzo 2016, n. 5155, in motivazione).

Dopo avere ripercorso l'evoluzione della giurisprudenza e della normativa (culminata con l'introduzione del già citato art. 10-bis), la Corte ribadisce un concetto chiarificatore, alla luce del quale può esser letta anche la vicenda di cui si è occupata la Corte di Giustizia con la sentenza qui in commento: la scelta di un'operazione fiscalmente più vantaggiosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, laddove sia lo stesso ordinamento tributario a prevedere tale facoltà, a condizione che non si traduca in uso distorto dello strumento negoziale o in un comportamento anomalo rispetto alle ordinarie logiche d'impresa, posto in essere per realizzare non la causa concreta del negozio, ma esclusivamente o essenzialmente il beneficio fiscale.

Neppure il conseguimento di un vantaggio fiscale, quindi, è di per sé rivelatore dell'abusività dell'operazione, “poiché è richiesta la concomitante condizione di inesistenza di ragioni economiche diverse dal semplice risparmio di imposta e l'accertamento dell'effettiva volontà dei contraenti di conseguire un indebito vantaggio fiscale”.

La consapevolezza del carattere abusivo dell'operazione

Su tutto ciò, nelle operazioni IVA che coinvolgono due operatori economici, si innesta poi il tema della consapevolezza dell'abusività dell'operazione ai fini della detrazione dell'imposta.

Poiché, come detto in apertura, il meccanismo di neutralità dell'IVA postula che colui che la versa all'altro operatore economico (“a monte”) la possa poi detrarre, la questione è “quanta” consapevolezza dell'eventuale abusività dell'operazione occorre in capo a quest'ultimo.

Il tema ricorre abbondantemente nella giurisprudenza anche della Corte di cassazione, in particolare quando si tratta di stabilire il diritto alla detrazione dell'IVA in caso di operazioni inesistenti.

In altri termini, quando un operatore economico risulta coinvolto in un'operazione fittizia.

Sul punto, come è noto, si distinguono le operazioni oggettivamente inesistenti da quelle soggettivamente inesistenti.

Le posizioni giurisprudenziali sul punto affermano vari principi, spesso con posizionamenti e riposizionamenti su alcuni aspetti, ma, in estrema sintesi, si può affermare che, partendo dal caso estremo, se l'operazione è oggettivamente inesistente, nel senso che compare solo sulla fattura, ma, in realtà, non è mai stata messa in pratica e nessun pagamento dell'IVA è stato effettuato dall'acquirente o dal beneficiario del servizio, l'imposta non è neppure detraibile.

In questo scenario, però, anche l'effettivo pagamento dell'imposta indicata in fattura non dà necessariamente il diritto alla detrazione, esistendo giurisprudenza che lo nega in virtù del richiamo al principio di inerenza del pagamento alla prestazione (in questo caso inesistente) [3].

Ancora, per quanto in giurisprudenza si ricordi che, ai sensi della sesta direttiva 77/388/CEE, art. 10, § 2, e art. 17, § 1: “il diritto alla detrazione è legato alla realizzazione effettiva della cessione di beni o della prestazione di servizi di cui trattasi, per cui in difetto della cessione effettiva dei beni o della prestazione dei servizi un siffatto diritto non può sorgere, non essendo sufficiente la sua indicazione della relativa fattura (cfr. Corte UE, 27 giugno 2018, SGI)”,peraltro, si afferma anche che, se l'operazione ha comunque comportato l'assolvimento del versamento dell'imposta, il diritto alla detrazione deve essere riconosciuto per difetto di danno erariale [4].

Vi è, poi, un'ulteriore gamma di situazioni in cui il diritto alla detrazione viene in discussione.

Interessante, in particolare, è il caso delle operazioni soggettivamente inesistenti, in cui, di regola, il costo, con l'IVA, viene effettivamente sostenuto e l'operazione sottostante è anche reale, ma intercorre effettivamente con un soggetto diverso da quello che compare sulla fattura.

Qui viene in rilievo, in particolare – e in tal senso il tema trova un elemento di congiunzione con la vicenda in commento – il concetto di “consapevolezza della partecipazione” ad un'operazione irregolare, se non addirittura fraudolenta [5].

Al riguardo, l'orientamento della Corte di cassazione, ribadito nella giurisprudenza più recente [6], è nel senso che l'amministrazione finanziaria ha l'onere di provare, anche in via indiziaria, non solo che il fornitore era fittizio, ma anche che il destinatario era consapevole, disponendo di indizi idonei a porre sull'avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto, che l'operazione era finalizzata all'evasione dell'imposta, essendo sostanzialmente inesistente il contraente; incombe, invece, sul contribuente la prova contraria di aver agito nell'assenza di consapevolezza di partecipare ad un'evasione fiscale e di aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi.

Il coinvolgimento in operazioni soggettivamente inesistenti, quindi, non esclude sempre necessariamente, per sé solo, il diritto alla detrazione dell'IVA che è stata versata; anzi, in molti casi, quando non sarà stato possibile provare l'elemento soggettivo della consapevolezza della partecipazione ad un'operazione non regolare, il diritto sarà riconosciuto.

Su questa linea – seppure in un contesto diverso – appare potersi collocare il principio affermato dalla sentenza della Corte di Giustizia in commento, secondo cui non può essere negato il diritto alla detrazione per il solo fatto che l'acquirente sapeva che il venditore era in difficoltà economiche e, probabilmente, non avrebbe neppure versato l'IVA all'erario.

L'effettività del pagamento dell'imposta, in altri termini, appare determinante ai fini della detrazione, a meno che non emerga in maniera chiara che l'intero schema era preordinato all'evasione della stessa.

Andrea Venegoni

Note

[1] Recepita in Italia con il d.lgs. n. 75/2020, con ulteriori modifiche da parte del d.lgs. n. 156/2022.

[2] Cass, sez. V, 13 ottobre 2022, n. 1166/23.

[3] Cass., Sez. V, ord. 11 ottobre 2021, n. 27592.

[4] Cass., Sez. V, 30 settembre 2021, n. 26515.

[5] Sul tema, v., in questo Portale, R. GUIDA, “Frodi carosello” IVA: le linee guida della CGUE sull'onere probatorio a carico del fisco e sulla diligenza richiesta al cessionario, commento a CGUE 1° dicembre 2022, C-512/21.

[6] Si veda, tra le altre, Cass., sez. V, 9 agosto 2022, n. 24471.