Osservatorio antimafia - Le sentenze di patteggiamento e il sindacato giurisdizionale sulle informative antimafia

12 Aprile 2023

Lo scritto esamina le possibili ricadute, nel quadro dei princìpi formatisi in materia di sindacato giurisdizionale sulla legittimità dei provvedimenti amministrativi di prevenzione antimafia, del nuovo testo dell'art. 445, comma-1-bis, del codice di procedura penale, di cui alla Riforma Cartabia, che ha modificato il regime di utilizzabilità nel processo amministrativo della sentenza di patteggiamento, prevedendo che essa “non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova” nei giudizi extrapenali.

Testo della relazione svolta il 3 aprile 2023 presso l'Università degli Studi “Roma Tre”, nell'ambito dell'incontro di studi “Misure amministrative di prevenzione antimafia e tutela giurisdizionale”.

1. Un incontro di studio dedicato alla tutela giurisdizionale nel settore delle misure amministrative di prevenzione antimafia non può non considerare le interazioni esistenti fra le attività delle due giurisdizioni nelle quali solitamente tale tutela si articola, quella penale e quella amministrativa: con particolare riguardo alla circolazione processuale, e segnatamente probatoria, fra i medesimi elementi di fatto presi in considerazione, sia pure secondo diversi canoni valutativi, in ciascuna sede processuale.

Da questa analisi emerge peraltro che il sindacato giurisdizionale sui provvedimenti amministrativi di prevenzione antimafia avrebbe dei caratteri peculiari rispetto al tradizionale sindacato di legittimità che si compie nel giudizio impugnatorio.

Esso ripete in realtà tali tratti dalle caratteristiche del potere che viene esercitato mediante i provvedimenti che costituiscono oggetto di tale giudizio.

Non si tratta di potere discrezionale, ma lato sensu cautelare: “La valutazione rimessa al Prefetto è certamente opinabile, soggettiva, ma non è discrezionale: attiene alla conoscenza dei fatti, alla determinazione del loro valore indiziario, alla prova (anche non piena) della possibilità che una impresa sia esposta a infiltrazioni da parte della criminalità organizzata” (1).

All'amministrazione non è dunque rimesso un giudizio comparativo fra interessi, ma un giudizio prognostico circa la sussistenza di un pericolo d'infiltrazione, desunto dal legame di inferenza logica che avvince determinati fatti posti a fondamento della valutazione (in modo non dissimile da quanto avviene, ad esempio, in materia di provvedimenti abilitanti all'uso delle armi).

Per tale ragione la lettura delle sentenze del giudice amministrativo sembra a volte replicare, nella struttura, una sentenza penale: o, ancor più precisamente, un'ordinanza cautelare del giudice penale.

Il sindacato del giudice amministrativo, per tale ragione, paradossalmente è oggetto di critiche di segno opposto: da taluni lamentandosi un sindacato troppo invasivo rispetto a quello tradizionalmente esercitato nello scrutinio della legittimità dei provvedimenti (discrezionali); da altri, viceversa, ritenendosi che esso si arresterebbe alla legittimità estrinseca, senza un vaglio adeguato del profilo sostanziale della vicenda.

Si tratta di un'anomalia solo apparente: come accennato, il sindacato giurisdizionale sugli atti costituenti esercizio di un determinato potere è modellato sulla struttura logica di tale potere, per cui il giudice amministrativo non può che muovere dall'analisi della sussistenza del fatto, del suo significato obiettivo e di quello che assume se posto in una relazione inferenziale con altri fatti: secondo il noto canone quae singula non prosunt, collecta iuvant, che costituisce il fondamento della teoria della prova indiziaria (2).

Fra tali fatti spiccano sicuramente i reati commessi dalle persone interessate.

Esiste pertanto un problema di utilizzabilità dell'accertamento dei reati pregressi, o quanto meno della loro non inesistenza, in sede di sindacato giurisdizionale amministrativo sui provvedimenti di prevenzione antimafia.

Mi piace ricordare, in questo senso, la giurisprudenza, illuminata, formatasi nella III Sezione del Consiglio di Stato sotto la guida del compianto Presidente Franco Frattini: dai rapporti fra il sindacato giurisdizionale sulla legittimità dei provvedimenti prefettizi ed il controllo giudiziario (sentenze n. 1049/2021 e n. 319/2021), all'autonomia dei canoni valutativi propri del giudizio di legittimità dei provvedimenti amministrativi – in sede di ricognizione degli elementi sintomatici di un pericolo d'infiltrazione mafiosa – rispetto alla valutazione che dei medesimi fatti storici si compie nel processo penale ai fini dell'accertamento dei reati (sentenza n. 957/2021).

In questo contesto la giurisprudenza della III Sezione, proprio sotto la guida del Presidente Frattini, non ha mancato di rilevare come fosse legittima l'adozione di un provvedimento interdittivo antimafia sul presupposto dell'esistenza di una sentenza di applicazione di pena ex art. 444 cod. proc. pen. per un c.d. “reato-spia” (sentenza n. 515/2019).

Tale decisione, in particolare, ha affermato l'irrilevanza, ai fini dell'utilizzabilità della sentenza di patteggiamento come legittimo presupposto del provvedimento interdittivo, dei motivi, del tutto soggettivi, che avevano indotto l'imputato a chiedere nel processo penale l'applicazione di pena.

La conclusione riflette del resto coerentemente, nella specifica materia delle informative antimafia, il consolidato orientamento giurisprudenziale, sia del giudice amministrativo che del giudice civile, che attribuisce alla sentenza patteggiata una rilevante efficacia, sia pure agli specifici fini propri delle rispettive sedi e quanto meno in termini di fatto storico, anche nei procedimenti amministrativi e nei giudizi extrapenali (3).

2. L'assetto sopra delineato, garante della complessiva coerenza ordinamentale e dell'efficacia sia dell'azione amministrativa che del relativo sindacato giurisdizionale, è destinato ad essere rimeditato per effetto dell'entrata in vigore dell'art. 25, comma 1, lett. b), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che ha modificato il testo del comma 1-bis dell'art. 445 cod. proc. pen., riformando il regime dell'efficacia della sentenza di applicazione di pena nei giudizi extrapenali.

Il testo previgente stabiliva che «Salvo quanto previsto dall'articolo 653, la sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Salve diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna.».

Tale previsione, come si è visto, non ha impedito al giudice civile e al giudice amministrativo di pervenire all'affermazione dei princìpi fatti propri dal consolidato orientamento giurisprudenziale sopra richiamato.

Forse allo scopo di superare tale orientamento (4), il testo attualmente vigente prevede invece che “La sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia e non può essere utilizzata a fini di prova nei giudizi civili, disciplinari, tributari o amministrativi, compreso il giudizio per l'accertamento della responsabilità contabile. Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna. Salvo quanto previsto dal primo e dal secondo periodo o da diverse disposizioni di legge, la sentenza è equiparata a una pronuncia di condanna”.

3. Le innovazioni concernono quattro punti.

La nuova disposizione:

- stende il suo ambito applicativo anche ai giudizi disciplinari, tributari e contabili;

- aggiunge alla precedente affermazione della “inefficacia” della sentenza di patteggiamento, la regola per cui essa “non può essere utilizzata a fini di prova”;

- stabilisce che “Se non sono applicate pene accessorie, non producono effetti le disposizioni di leggi diverse da quelle penali che equiparano la sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, alla sentenza di condanna” (5);

- esclude dall'equiparazione della sentenza di patteggiamento ad una pronuncia di condanna non solo le fattispecie previste da “diverse disposizioni di legge”, ma anche quelle di cui al primo e al secondo periodo della disposizione.

L'obiettivo, evidentemente, è quello di incentivare l'appetibilità – per l'imputato - del ricorso al rito alternativo del patteggiamento, in un'ottica deflattiva del processo penale, riducendo le conseguenze dell'accertamento della sua penale responsabilità (intesa ovviamente nel senso minimo della insussistenza di cause di proscioglimento): quasi collegando alla scelta di tale rito una “immunità” amministrativa dalle conseguenze del reato.

I profili di criticità sono costituiti dal fatto che tale obiettivo è stato perseguito sacrificando valori affatto secondari, quali la complessiva coerenza dell'ordinamento e la funzionalità dei giudizi extrapenali (nei quali rilevi l'accertamento della responsabilità penale - come sopra inteso - operato con sentenza di applicazione di pena).

Inoltre, il segnale di politica del diritto che una simile modifica implica, separando tale accertamento della penale responsabilità dell'imputato dalle sue conseguenze extrapenali, è un regime di favor per il reo, e dunque un depotenziamento dell'efficacia deterrente dell'incriminazione e della responsabilità penale (che si vuole privare dei suoi effetti accertativi): un segnale, quindi, nel senso della immunità extrapenale per l'autore di reati che, anche all'esito del dibattimento, si avvalga dell'applicazione di pena.

Sotto questo profilo la Corte costituzionale, nella sentenza n. 336/2009, aveva chiarito quale fosse, sul piano dei valori in gioco, il significato del riconoscimento di effetti extrapenali alla sentenza di patteggiamento (nella fattispecie, si trattava dell'intervento in tal senso operato dalla legge n. 97 del 2001 in materia di giudizi disciplinari): “il legislatore ha inteso assicurare «non solo una sostanziale coerenza tra sentenza penale ed esito del procedimento amministrativo, ma, soprattutto, una linea di maggiore rigore per garantire il corretto svolgimento dell'azione amministrativa»(v. sentenza n. 186/2004). Un rigore, d'altronde, espressamente evocato nei lavori preparatori della citata legge n. 97/2001, al punto che lo stesso relatore della iniziativa legislativa non mancò di sottolineare come la opzione prescelta, «pur incidendo negativamente sulla portata deflattiva del contenzioso penale dell'istituto del patteggiamento, (aveva) il sicuro e positivo effetto di impedire che soggetti la cui credibilità è minata dall'applicazione della pena patteggiata, (potessero) continuare a rivestire responsabilità nelle amministrazioni pubbliche»”.

Sempre che, però, l'ambizioso obiettivo del legislatore – che, tra l'altro, con questa disposizione ha inteso intervenire sul delicato tema del regime della prova nel processo civile, in quello amministrativo e in quello tributario - sia in concreto praticabile.

Ci si deve infatti chiedere se esistano dei limiti (anche costituzionali) alle oscillazioni del legislatore (più volte intervenuto in materia, non sempre nella stessa direzione) fra politiche di rigore e politiche premiali.

4. Un primo problema riguarda il coordinamento fra disciplina del procedimento amministrativo e disciplina del processo.

La preclusione a desumere elementi di prova dalla sentenza patteggiata è prevista solo per i procedimenti sanzionatori.

Per ogni altra categoria essa non opera.

Dunque in materia di prevenzione antimafia la Prefettura può continuare a porre a fondamento dei propri provvedimenti interdittivi sentenze di patteggiamento, ma il giudice amministrativo davanti al quale l'interessato ricorra non può tenerne conto (ove venga contestata la sussistenza di un sufficiente quadro indiziario, tale da sorreggere la valutazione inferenziale relativa alla prognosi di infiltrazione).

È un disallineamento che può porre problemi sul piano della possibile divaricazione fra regime sostanziale delle misure amministrative di prevenzione antimafia e regime del sindacato giurisdizionale.

In materia di tutela penale della pubblica amministrazione, ad esempio, la legge 19 gennaio 2019, n. 3 (c.d. spazzacorrotti) modificò la disciplina della sentenza di patteggiamento in materia di reati contro la pubblica amministrazione, essendosi il legislatore reso conto che l'inasprimento delle pena previste per tali reati si rivelava strumento inefficace sul piano dela tutela penale degli interessi pubblici ove si fosse consentito agli autori di tali reati che avessero patteggiato di eludere le conseguenze del reato diverse dalla pena applicata.

5. Vi è poi un evidente problema di disparità di trattamento.

La commissione di un medesimo reato vincola l'esito del giudizio amministrativo relativo alla legittimità (dei presupposti) di un provvedimento (la revoca di una licenza, un permesso di soggiorno, un'informativa antimafia), a seconda del rito prescelto in sede di accertamento della responsabilità penale.

Il disvalore del fatto è il medesimo, ma le conseguenze in termini di compatibilità con la cura dell'interesse pubblico (come definito dal paradigma normativo regolante l'esercizio del potere) sono diverse ed opposte.

Si dirà che la disparità di trattamento è giustificata dal risparmio di attività processuali in tal modo ottenuta nel processo penale.

In realtà, un simile sacrificio di razionalità sembra anche non proporzionato al beneficio avuto di mira, posto che il regime della (in)efficacia della sentenza di patteggiamento opera “anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento”: dunque, quando non vi è stato alcun apprezzabile risparmio di attività e di impegno processuale nel giudizio penale che giustificherebbe – se non sul piano della rinuncia alle successive impugnazioni - il sacrificio dei valori e degli interessi antagonisti (ammesso che il sindacato giurisdizionale sulla cura dell'interesse pubblico che si compie nel processo amministrativo possa essere sacrificato, secondo un canone di proporzionalità, per deflazionare il processo penale).

Il fondamento giuridico e razionale della esclusione dell'efficacia extrapenale della sentenza di patteggiamento, secondo la dottrina processualpenalistica, non risiede infatti nel suo essere “acognitiva”, ma esclusivamente in una logica premiale (6).

Tanto più se la sentenza è stata resa all'esito del giudizio: “Invero, quand'anche si ritenessero estranei al contenuto della sentenza di «patteggiamento» l'accertamento della responsabilità dell'imputato e la relativa declaratoria, corrisponde a un punto fermo che la pronuncia applicativa di pena dopo la chiusura del dibattimento - in quanto fondata su una plena cognitio - manifesta connotazioni diverse rispetto a quella ex art. 444 tout court, posto che la stessa comporta di sicuro un implicito riconoscimento di responsabilità ben oltre i limiti segnati, ai fini del proscioglimento, dall'art. 129 c.p.p.. Donde la conseguenza che, per tali tipologie di decisioni, l'esclusione degli effetti extrapenali del giudicato non può che essere direttamente (ed unicamente) correlata alle caratteristiche premiali dell'istituto, a nulla rilevando il richiamo a un diverso fondamento razionale” (7).

Ne consegue, pertanto, che la discrezionalità del legislatore in materia incontra dei limiti ben precisi: “Se da un lato, infatti, con l'avvento del nuovo codice di rito è tramontato il principio della prevalenza della giurisdizione penale, a tutto vantaggio della autonomia dei procedimenti e delle giurisdizioni e della rigorosa limitazione delle questioni pregiudiziali, è altrettanto vero che una “ricomposizione” di sistema doveva essere prefigurata proprio sul versante dei rapporti tra il giudicato penale e le diverse (ma interferenti) sfere di giurisdizione civile, amministrativa o disciplinare davanti alle pubbliche autorità. Ciò ad evitare, evidentemente, da un lato, conflitti e contrasti tra giudicati; e, dall'altro, la perdita di acquisizioni processuali, che avrebbe negativamente inciso sulla economia dei giudizi” (Corte costituzionale, sentenza n. 336/2009).

Anche perché, come ricorda la Corte nella sentenza da ultimo richiamata, è “mutata (…) la configurazione originaria del patteggiamento come rito circoscritto alle vicende di criminalità “minore”” (il che, nella materia che qui viene specificamente in considerazione, assume un rilievo particolare: eventualmente anche nella prospettiva di un correttivo che introduca l'ennesima logica del “doppio binario”, come nel segnalato intervento in materia di reati contro la pubblica amministrazione); e l'istituto ha assunto “una dimensione più “matura”, anche per ciò che attiene allo spazio delibativo riservato al giudice e, conseguentemente, alla relativa “base fattuale”: il che giustifica (impone?) “corrispondenti ampliamenti anche sul versante degli effetti “esterni” del giudicato scaturente dal rito speciale, se riferiti al giudizio disciplinare davanti alle pubbliche autorità, per lo specifico risalto degli interessi coinvolti”.

6. Conclusione

Il brocardo latino Quod factum infectum fieri nequit, prima ancora di essere una massima che gli studenti di giurisprudenza apprendono all'inizio del loro corso di studi, è un passo tratto da una Commedia di Plauto (8).

Nei testi giuridici esso viene spesso utilizzato - a fini didascalici - come monito, come limite estremo che il diritto non può superare (nemmeno con la più fervida fantasia): pena il distacco dalla realtà, e dunque la negazione della sua funzione.

Chi scrive non è certo un difensore del creazionismo giudiziario (9): ma obiettivamente l'onnipotenza manifestata dal legislatore in questa occasione sembra superare ogni pur elevata brama creazionista cui finora la giurisprudenza ci aveva abituati.

Peraltro, l'orientamento giurisprudenziale che la norma in questione si pone di superare (che registra una totale consonanza fra la giurisprudenza del giudice civile e quella del giudice amministrativo) non è affatto “creativo”, ma piuttosto fedele ad un'interpretazione della disciplina dell'efficacia extrapenale delle sentenze di patteggiamento ispirata anzitutto a quelle esigenze di buon senso, logicità e coerenza che erano state indicate anche dalla Corte costituzionale.

È, soprattutto, un indirizzo interpretativo – memore di quel monito ricevuto negli anni della formazione - consapevole che un fatto, tanto più un fatto di reato, non può diventare non fatto.

Note

(1) F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta anticipata alla criminalità organizzata, in giustamm. it, n. 6/2018.

(2) In argomento F. Fracchia-M. Occhiena, Il giudice amministrativo e l'inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell'interesse pubblico, ne Il diritto dell'economia, n. 3/2018, pp. 1125 e segg.

(3) Ex multis: Cons. Stato, sez. III, n. 497/2021; Cass., sez. I, n. 16505/2019; Cass., sez. lav., 12 ottobre 2022, n. 29769; Cass., sez. lav., 31 gennaio 2022, n. 2876; Cass., sez. I, 20 dicembre 2021, n. 40796; Cass., sez. lav., 19 luglio 2021, n. 20560.

(4) “Dal tenore della novellata disposizione, sembrerebbe chiaro l'intento di voler superare quell'indirizzo interpretativo, diffusamente affermatosi nella giurisprudenza civile, secondo cui la sentenza di patteggiamento non solo sarebbe dotata di piena efficacia probatoria, ma presupporrebbe un'implicita ammissione di colpevolezza” (commento all'art. 445 c.p.p., in “C.p.p. commentato”, a cura di F. Rizzo, aggiornato da F. Giunchedi, C. Santoriello, G. Errico, Roma).

(5) “Nel caso in cui non siano applicate pene accessorie, si è inoltre previsto che la sentenza di cui all'art. 444, 2° co. possa essere equiparata ad una sentenza di condanna esclusivamente nell'ipotesi in cui vi sia una disposizione di legge penale che lo stabilisca espressamente. Eventuali norme extrapenali che dovessero operare tale equiparazione dovranno, pertanto, ritenersi improduttive di effetti” (op. ult. cit.).

(6) G. Mitja, Applicazione della pena su richiesta delle parti, in Enc. Dir., Annali, II-1, 2008.

(7) F. Terrusi, voce Rapporti fra giudicato penale e giudizio amministrativo, in Digesto disc. pen., XI, Torino, 1996.

(8) Atto IV, scena 10, v. 11 (Factum est illud; fieri infectum non potest) dell'Aulularia: meglio nota come “Commedia della pentola”, o “la Pentola d'oro” (una commedia degli equivoci alla quale si sarebbe ispirato Molière per “L'avaro”).

(9) G. Tulumello, Brevi riflessioni sulla formazione culturale del giurista, e sulle sue conseguenze, in Diritto&Questioni pubbliche, n. 2/2021, pp. 181-187; Id. Dello scrivere del giudice: brevi note su cause ed effetti dell'argomentazione giudiziaria, in giustizia-amministrativa.it., 21 ottobre 2021.

Le tesi esposte sono opinioni personali dell'autore, e non impegnano l'Istituto cui appartiene.

Per la registrazione di tutti gli interventi dei relatori al Convegno, v. Osservatorio antimafia – Misure amministrative di prevenzione antimafia e tutela giurisdizionale: la registrazione della Lezione aperta tenuta a Roma Tre