Riforma processo civile: la mediazione delegata

Roberta Metafora
26 Aprile 2023

Il recente d.lgs. n. 149/2022 ha apportato numerose innovazioni all'istituto della mediazione: tra queste particolare rilievo assume la riforma della mediazione delegata dal giudice, come è evidente dalla circostanza che il legislatore della novella ha riservato a tale figura una autonoma collocazione normativa.
Breve premessa

Il recente d.lgs. n. 149/2022 ha apportato numerose innovazioni all'istituto della mediazione: tra queste particolare rilievo assume la riforma della mediazione delegata dal giudice, come è evidente dalla circostanza che il legislatore della novella ha riservato a tale figura una autonoma collocazione normativa all'interno del nuovo art. 5-quater del d.lgs. n. 28/2010 (la cui entrata in vigore è prevista a partire dal 1° luglio 2023).

Come è noto, si ha mediazione delegata quando è il giudice della causa in corso che prende l'iniziativa di invitare le parti a svolgere un procedimento di mediazione perché ritiene che le stesse possano trovare maggiore soddisfazione in un accordo conciliativo in luogo di una sentenza (Luiso, La risoluzione non giurisdizionale delle controversie, XI ed., Milano, 2021, 63).

Il nuovo art. 5-quater cit. entrerà in vigore a partire dal prossimo 1° luglio 2023; sino a quel momento, la mediazione delegata trova la sua disciplina nell'attuale art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28/2010, come modificato dal d.l. n. 69/2013.

La disciplina della mediazione delegata nell'originaria formulazione dell'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28/2010 e nella successiva modifica ad opera del d.l. n. 69/2013

Stando all'originaria formulazione dell'art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28/2010, il giudice di merito, finanche in appello, «valutata la natura della causa, lo stato dell'istruzione e il comportamento delle parti», poteva invitare queste ultime a dar vita ad un procedimento di mediazione dinanzi ad uno degli organismi abilitati. Se tutte le parti in lite aderivano a tale invito, la causa veniva rinviata ad altra udienza, al fine di consentire l'espletamento della procedura.

L'invito formulato dal giudice non era tuttavia vincolante per i contendenti, i quali potevano scegliere se aderirvi o meno, tanto che, nel caso di rifiuto, erano completamente indenni da effetti processuali sfavorevoli, salva la responsabilità processuale per mala fede di cui all'art. 96 c.p.c.

Con la l. n. 98/2013, di conversione del d.l. n. 69/2013 (c.d. decreto del fare) è stato tuttavia modificato in maniera incisiva l'istituto in esame, trasformandosi l'invito del giudice in un ordine, giacché è stato stabilito che egli, in presenza delle medesime condizioni poc'anzi indicate, può senz'altro «disporre l'esperimento del procedimento di mediazione.

La attuale disciplina, dunque, non richiede più il consenso delle parti, potendo il giudice ordinare d'ufficio l'instaurazione della procedura conciliativa sia in primo che in secondo grado. Tra l'altro, egli ha il potere di ordinare l'avvio del tentativo di mediazione anche laddove esso sia stato già esperito ante causam e sia fallito e ciò tanto nelle materie soggette a condizione di procedibilità, quanto in quelle non soggette a condizione di procedibilità, qualora ravvisi la sussistenza dei presupposti per la conciliazione tra le parti sulla base di elementi dagli stessi portati in giudizio (Trib. Monza, sez. I, ord. 24 giugno 2020).

Si è dunque in presenza di un vero e proprio comando, impartito attraverso un'ordinanza che può essere emessa fino a quando la causa non entra nella fase decisoria.

Con la stessa ordinanza, il giudice assegna alle parti un termine di quindici giorni per presentare la domanda di mediazione di fronte ad un apposito organismo e, al contempo, rinvia la causa ad una successiva udienza.

Emerge dunque con chiarezza che anche in questa ipotesi, come nella mediazione obbligatoria ex lege, l'avvio della procedura compositiva è condizione di procedibilità della domanda giudiziale, finanche in appello.

Pertanto, alla prima udienza utile, il giudice verificherà il rispetto ad opera delle parti del comando da lui impartito con l'ordinanza, e se ravvisa che le parti non hanno esperito il tentativo di mediazione, allora potrà definire il giudizio dichiarando l'improcedibilità dell'azione.

È da escludere che il giudice possa imporre condizioni ulteriori e diverse rispetto a quelle previste per la mediazione obbligatoria, disponendo ad esempio che la mediazione delegata si svolga dinanzi ad un particolare organismo, oppure che il primo incontro abbia un particolare contenuto, oppure ancora che il mediatore debba formulare una proposta di conciliazione.

In altre parole, la legge non dà al giudice alcun potere di incidere sulla disciplina normativa, potendo solo rendere obbligatoria una mediazione che non lo è secondo l'elencazione contenuta nell'art. 5 del d.lgs. n. 28/2010. La scelta di disporre la mediazione nelle ipotesi in cui essa non è obbligatoria è infatti frutto del potere discrezionale del giudice, il cui esercizio non richiede una specifica motivazione e che come tale non è sindacabile in cassazione (Cass. 10 marzo 2023, n. 7269).

Una questione su cui la giurisprudenza e la dottrina si sono a lungo pronunciate riguarda il contenuto che deve avere l'ordinanza con cui il giudice impone alle parti di eseguire il tentativo di mediazione; al riguardo, l'orientamento giurisprudenziale oggi prevalente individua all'interno di questi provvedimenti un contenuto necessario ed uno eventuale.

Il primo consiste nell'ordine, sempre presente, che il giudice rivolge alle parti in causa di effettuare la mediazione, mettendo a loro disposizione il termine di quindici giorni e fissando una successiva udienza a distanza di almeno tre mesi.

Il secondo, invece, riguarda tutti quegli inviti, solo eventuali, che il giudice può avanzare: ad esempio, l'invito rivolto al mediatore a verbalizzare in maniera precisa e circostanziata le motivazioni dedotte dalle parti circa il fallimento del tentativo di mediazione (Trib. Ascoli Piceno, ord. 22 dicembre 2015).

Dunque, come è evidente, il procedimento di mediazione delegata seguirà le regole generali previste per le altre tipologie di mediazione, senza alcuna deroga.

La correttezza di tale affermazione trova conferma dal superamento di quell'orientamento giurisprudenziale a mente del quale doveva ritenersi legittima la previsione contenuta nell'ordinanza del giudice di prevedere obbligatoria per il mediatore la formulazione di una proposta di conciliazione anche in assenza di una concorde richiesta delle parti (Trib. Vasto, ord. 23 giugno 2015; Trib. Gorizia, ord. 3 giugno 2021). In merito, l'art. 9, comma 4 del Regolamento unitario per gli Organismi di Mediazione Forensi costituiti dai Consigli dell'Ordine degli Avvocati approvato dal Consiglio Nazionale Forense in occasione della seduta amministrativa del 21 gennaio 2022 ha definitivamente confermato l'impossibilità per il mediatore di procedere in tal senso se tutte le parti in mediazione non glielo richiedono espressamente, perché, altrimenti, egli acquisterebbe le vesti, che non gli competono, di “ausiliario” del giudice. Ne consegue che tale possibilità deve essere esclusa anche quando il giudice rivolge tale invito nell'ordinanza con cui dispone l'esecuzione della mediazione.

La natura del termine assegnato dal giudice alle parti per la presentazione dell'istanza di mediazione

Una questione particolarmente dibattuta in materia di mediazione delegata dal giudice riguarda la natura del termine di quindici giorni da questi assegnato alle parti affinché le stesse presentino la domanda di mediazione.

Sul punto la giurisprudenza di merito ha assunto, nel tempo, posizioni diverse, considerando, a volte, tale termine come perentorio e, altrettante volte, come ordinatorio.

È chiaro che la diversa qualificazione giuridica ha delle conseguenze processuali: nel primo caso, l'attività di mediazione deve obbligatoriamente essere eseguita in quel determinato lasso di tempo pena l'improcedibilità della domanda giudiziale, la quale, tra l'altro, si profilerebbe come ingiusta laddove la mediazione, anche se avviata in ritardo, si fosse comunque svolta e conclusa tra le parti entro l'udienza di rinvio del giudice; nel secondo caso, invece, qualora i quindici giorni non dovessero essere rispettati, non sarebbe previsto alcun effetto sfavorevole in capo alle parti in lite.

A fondamento della tesi della perentorietà del termine (v. da ultimo Corte d'Appello di Brescia del 17 dicembre 2021, n. 1667) è stato osservato che, pur in mancanza di indicazione espressa, il regime di perentorietà può essere desunto in via interpretativa tutte le volte in cui, per lo scopo che persegue e la funzione che adempie, il termine debba essere rigorosamente osservato. Del resto, sarebbe illogico ritenere che, a fronte della previsione della sanzione di improcedibilità per mancato esperimento della mediazione e di un termine relativamente ristretto per l'inizio del procedimento, si lasciasse poi alla libera valutazione dell'onerato la scelta arbitraria del tempo in cui iniziarlo.

Dunque, per quest'indirizzo, il termine de quo ha natura perentoria, il che trova conferma dalla gravità della sanzione prevista nel caso del suo spirare inutilmente, vale a dire l'improcedibilità della domanda giudiziale, la quale comporta la necessità di emettere una sentenza di puro rito, così impedendo al processo di pervenire al suo naturale epilogo. Tale conseguenza, come è evidente, mal si concilia con la violazione di un termine meramente ordinatorio.

Sennonché, di recente la Suprema Corte è intervenuta in materia, affermando che il decorso del termine di quindici giorni non rende, di per sé, la domanda giudiziale improcedibile (Cass. 14 dicembre 2021, n. 40035).

Le argomentazioni poste alla base di tale decisione sono le seguenti.

In primo luogo, osserva la S.C. che per stabilire se si sia verificata o meno la condizione di procedibilità della domanda giudiziale, occorre considerare che l'art. 5, comma 2, seconda parte, d.lgs. n. 28/2010 stabilisce che «l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda» e che ai sensi del comma 2-bis della stessa norma «quando l'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale la condizione si considera avverata se il primo incontro dinanzi al mediatore si conclude senza l'accordo». Da tali disposizioni, dunque, si desume che il legislatore ha ricollegato la procedibilità della domanda al solo evento dell'esperimento del procedimento di mediazione e non al mancato rispetto del termine di presentazione della domanda di mediazione.

Deve pertanto escludersi il carattere perentorio del termine di quindici giorni, fissato dal giudice ai sensi del d.Lgs. n. 28/2010, art. 5, comma 2, in considerazione della mancanza di qualsivoglia indicazione normativa in tal senso, anche alla luce della circostanza che l'attivazione della mediazione delegata non costituisce attività giurisdizionale.

Ancora, per la S.C., la natura non perentoria trova conforto nella ratio legis sottesa alla mediazione obbligatoria ope iudicis che è quella della ricerca della soluzione migliore possibile per le parti, dato un certo stato di avanzamento della lite e certe sue caratteristiche, per cui va privilegiata una interpretazione del dato normativo che favorisca l'effettivo esperimento della mediazione.

Ne segue che il giudice solo se all'udienza fissata da egli fissata con il provvedimento con cui aveva disposto l'invio delle parti in mediazione riscontra che il procedimento non è stato iniziato o non si è concluso per una colpevole inerzia iniziale di una delle parti dovrà accertare il mancato avveramento della condizione di procedibilità e dunque chiudere il giudizio in rito.

La mediazione delegata secondo la riforma Cartabia

Allo scopo di valorizzare ed incentivare la mediazione demandata dal giudice, il legislatore delegato trasfonde nel nuovo art. 5-quater la disciplina contenuta nell'originario art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28/2010, confermandosi così il potere del giudice, anche in sede di appello, di disporre, con ordinanza motivata, nella quale dare conto delle circostanze valutate (relative alla natura della causa, allo stato di istruzione della stessa e al comportamento delle parti), l'esperimento del procedimento di mediazione.

Stando all'art. 5-quater cit., il «giudice, anche in sede di giudizio di appello, fino al momento della precisazione delle conclusioni, valutata la natura della causa, lo stato dell'istruzione, il comportamento delle parti e ogni altra circostanza, può disporre, con ordinanza motivata, l'esperimento di un procedimento di mediazione. Con la stessa ordinanza fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all'art. 6. La mediazione demandata dal giudice è condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Si applica l'articolo 5, commi 4, 5 e 6. All'udienza di cui al comma 1, quando la mediazione non risulta esperita, il giudice dichiara l'improcedibilità della domanda giudiziale».

È possibile evidenziare delle differenze tra questa disposizione e quella attualmente vigente. Innanzitutto, i criteri in base ai quali il giudice decide se ordinare ai contendenti in lite l'esperimento del tentativo di mediazione saranno più ampi, perché oltre alla natura della causa, allo stato dell'istruzione e al comportamento delle parti, anche «ogni altra circostanza» sarà in grado di convincere il giudice circa la presenza di concrete possibilità di successo di una composizione in via bonaria.

Inoltre, se allo stato attuale il giudice può ordinare l'attivazione della procedura di mediazione prima dell'udienza di precisazione delle conclusioni o, in mancanza, prima della discussione della causa, egli potrà, a partire dal 30 giugno 2023, spingersi fino al momento prima delle precisazioni delle conclusioni, il quale deve intendersi, relativamente al nuovo rito ordinario, riferito al termine di sessanta giorni prima dell'udienza di rimessione della causa in decisione come previsto dal novellato art. 189 c.p.c. per il deposito di note scritte contenenti la precisazione delle conclusioni.

Resta ferma la possibilità per il giudice di disporre la mediazione delegata anche in appello, nonostante la scarsa utilizzazione dell'istituto in questo grado del processo.

Pochi sono i provvedimenti editi in materia (si v., tra tutti, App. Milano 22 marzo 2016) e talvolta, l'incombente è stato ordinato alle parti sul malcelato presupposto di definire la causa in tempi rapidi a fronte della mole dei giudizi pendenti davanti alla Corti d'Appello, che sono quelle, tra i vari uffici giudiziari, che hanno sofferto di più le lungaggini processuali, anche a seguito delle varie riforme del processo civile.

Tuttavia, vi è da chiedersi come sia possibile discorrere di «facilitazione dell'accesso alla giustizia», in relazione ad una lite che non soltanto è già stata instaurata in sede giurisdizionale, ma si trova perfino in sede di impugnazione. In tale fase del processo, infatti, le parti sono disposte controvoglia ad accogliere l'invito - che, peraltro, non è più tale - del giudice di appello, nel senso che, demandate in mediazione, difficilmente potranno trovare un accordo, «in quanto almeno una, ossia l'appellato, si trova in una posizione di indubbio favore, risultando vincitore in primo grado e con "in mano" una sentenza provvisoriamente esecutiva (vantaggio che, del resto, lo stesso appellato ha tutto l'interesse a consolidare in via definitiva)» (Celeste, La mediazione delegata in appello nei nuovi rapporti di vicinato, in Imm. e propr., 2018, 456 ss.).

Nonostante le critiche avanzate, la riforma assegna un ruolo da protagonista alla mediazione in generale ed in specie a quella delegata, incentivandola anche attraverso la formazione degli operatori e l'istituzione di percorsi di formazione in mediazione per i magistrati. A tal proposito, il primo comma del nuovo art. 5-quinquies del d.lgs. n. 28 del 2010 prevede che: «Il magistrato cura la propria formazione e il proprio aggiornamento in materia di mediazione con la frequentazione di seminari e corsi, organizzati dalla Scuola superiore della magistratura, anche attraverso le strutture didattiche di formazione decentrata». Tra l'altro, tale formazione e i contenziosi definiti con mediazione verranno presi in considerazione ai fini della valutazione della carriera dei magistrati stessi: «Ai fini della valutazione di cui all'art. 11 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, la frequentazione di seminari e corsi di cui al comma 1, il numero e la qualità degli affari definiti con ordinanza di mediazione o mediante accordi conciliativi costituiscono, rispettivamente, indicatori di impegno, capacità e laboriosità del magistrato. Le ordinanze con cui il magistrato demanda le parti in mediazione e le controversie definite a seguito della loro adozione sono oggetto di specifica rilevazione statistica».

Saranno anche concretizzabili progetti di collaborazione tra il capo di ogni ufficio giudiziario e le università, gli ordini professionali degli avvocati, gli organismi di mediazione, gli enti di formazione nonché altri enti ed associazioni professionali e di categoria, «per favorire il ricorso alla mediazione demandata e la formazione in materia di mediazione».

Se tale norma da una parte sembra avere l'obiettivo di superare la drastica alternativa tra la formazione istituzionale e l'apprendimento pratico, dall'altra pone il problema della profonda differenza tra il processo e la procedura di mediazione, concepita quale luogo in cui il mediatore tenta di instaurare un dialogo tra le parti, di certo non competitivo, avendo come obiettivo non la vittoria, bensì la composizione della lite tramite un accordo che sia per i litiganti soddisfacente. Sotto questo profilo, difatti, i giuristi risultano essere i soggetti meno adatti a gestire simili percorsi, avendo quale unico vantaggio quello di comprendere le pretese giuridiche da cui i litiganti partono, pretese che, in quanto tali, non dovrebbero entrare nella gestione del tavolo delle trattative.

In conclusione, se la sfida che il legislatore deve porsi non è quella del mero abbattimento del contenzioso all'interno degli uffici giudiziari, ma di un vero e proprio ammodernamento e allineamento agli standard europei del modello italiano di processo, sembra congruo assegnare a quest'ultimo una funzione residuale quando la disponibilità delle situazioni sostanziali permette di scegliere vie alternative; a condizione, però, che ciascuna di tali scelte sia congegnata come opportunità da vagliare liberamente e non debba mai presentarsi né rivelarsi come un ripiego.

Sommario