Sequestro e confisca di beni rientranti nella massa fallimentare: la parola alle Sezioni Unite

Ciro Santoriello
26 Aprile 2023

La Sezione III della Corte di cassazione penale ha rimesso alle Sezioni unite il tema - a lungo dibattuto ed oggetto di differenti letture offerte dalla stessa Corte – della sorte di beni rientranti nella massa fallimentare in caso di sequestro preventivo avente ad oggetto i medesimi.
Massima

Va rimessa alle Sezioni Unite la seguente questione: se in caso di fallimento dichiarato anteriormente alla adozione del provvedimento cautelare di sequestro preventivo, emesso nel corso di un procedimento penale relativo alla commissione di reati tributari, avente ad oggetto beni attratti alla massa fallimentare, l'avvenuto spossessamento del debitore erariale, indagato o, comunque, soggetto inciso dal provvedimento cautelare, per effetto della apertura della procedura concorsuale, operi o meno quale causa ostativa alla operatività del sequestro ai sensi dell'art. 12-bis, comma I , del d.lgs. n. 74 del 2000, secondo il quale la confisca e, conseguentemente il sequestro finalizzato ad essa, non opera nel caso di beni, pur costituenti il profitto o il prezzo del reato, se questi appartengono a persona estranea al reato.



Il caso

In sede di riesame era rigettato l'appello cautelare proposto dalla Curatela del fallimento di una società di persone avverso il provvedimento con il quale era stata rigettata l'istanza di dissequestro di beni facenti capo ai soci illimitatamente responsabili della persona giuridica fallita nonché falliti in proprio.

La ricorrente Curatela lamentava che nel disporre il sequestro non fosse stata considerata la circostanza della avvenuta dichiarazione del fallimento della società e dei soci, per effetto del quale i secondi sarebbero stati privati della amministrazione e della disponibilità dei beni sociali. Il Tribunale, tuttavia, riteneva infondata la censura, sostenendo che il sequestro preventivo (nel caso di specie adottato nell'ambito di un procedimento penale per illeciti fiscali) è destinato a prevalere sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto di qualsiasi procedura concorsuale, attesa l'obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro, per cui il rapporto fra il vincolo imposto dall'apertura della procedura concorsuale e quello discendente dal sequestro deve essere risolto a favore della seconda misura, anche qualora la dichiarazione di fallimento sia intervenuta prima del sequestro, richiamando in questo senso la giurisprudenza maggioritaria; inoltre, questo orientamento troverebbe conforto anche nella disciplina fissata dagli artt. 317 ss. d.lgs. n. 14 del 2014, nei quali è sancita la prevalenza delle misure cautelari reali rispetto alle procedure concorsuali. Nessuna rilevanza, inoltre, secondo il Tribunale avrebbe avuto, ai fini della prevalenza del sequestro sulla procedura concorsuale, il dato relativo alla disponibilità dei beni presso il fallito, posto che la natura e la funzione del sequestro a fine di confisca prescindono da tale dato, né in tale modo si determina alcuna violazione del principio della par condicio creditorum.

In sede di ricorso per cassazione da parte della Curatela viene sottolineata la violazione degli artt. 321 cod. proc. pen., 42 R.D. n. 267 del 1942 e 12-bis d.lgs. n. 74 del 2000, avendo il Tribunale di Pescara errato nell'interpretare, con riferimento al tenore testuale dell'art. 12-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, l'espressione in esso contenuta, limitativa del potere di confisca, giusta la quale il sequestro deve essere disposto "salvo che [i beni] appartengano a persona estranea al reato". Infatti, una volta dichiarato il fallimento, il soggetto attinto dalla procedura è spossessato dei propri beni, con perdita della disponibilità degli stessi, tanto che la sentenza dichiarativa del fallimento è soggetta a trascrizione e la vendita dei beni fallimentari è realizzata attraverso un atto sottoscritto dal Curatore, cui passa anche il possesso materiale e giuridico dei beni attratti alla massa fallimentare; oltre a doversi considerare che, nel caso di specie, il fallimento, cui aveva fatto seguito l'avvenuto spossessamento dei soggetti sottoposti alla procedura rispetto ai loro beni, era stato dichiarato anteriormente alla adozione della misura cautelare penale. Parimenti viziata sarebbe la ritenuta assenza di violazione della par condicio creditorum, posto che la posizione del Fisco sarebbe comparabile con quella degli altri creditori ed anzi sarebbe recessiva rispetto a quella di molte categorie di creditori privilegiati, con la conseguenza che il mantenimento del sequestro farebbe sì che l'Erario troverebbe un soddisfacimento preferenziale anche a discapito di quei creditori che, nell'ambito di un ordinario piano di riparto dell'attivo fallimentare, sarebbero stati ad esso certamente preferiti.



La questione

Il tema della sorte di beni rientranti nella massa fallimentare in caso di sequestro preventivo avente ad oggetto i medesimi ha lasciato spazio alla sedimentazione di letture non omogenee da parte della giurisprudenza della Corte di cassazione, anche a Sezioni Unite (Cass., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29951 e Cass., sez. un., 25 settembre 2014, n. 11170).

In una prima decisione (Cass., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29951 (cd. Focarelli; se ne veda il commento di MASSARI, Note minime in materia di sequestro probatorio sui beni del fallito, in Giur. it., 2005, 1507; IACOVIELLO, Fallimento e sequestri penali, in Fall., 2005, 1273), che riguardava un sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa di proventi di delitti tributari commessi per il tramite di un'associazione a delinquere, la Corte di legittimità riconobbe al giudice penale un compito di raccordo discrezionale tra finalità penalistiche e interessi fallimentari, differenziando – con argomentazione ancora attuale, come vedremo - la soluzione da adottare a seconda della tipologia del provvedimento penalistico preso in considerazione. Secondo la Cassazione, infatti, quando si versasse in un'ipotesi di (sequestro preventivo finalizzato a) confisca obbligatoria, essendo l'intervento ablatorio giustificato dalla pericolosità del bene, di cui si deve precludere in senso assoluto l'utilizzo da parte di chiunque, allora gli interessi dei creditori del fallimento sono destinati inevitabilmente ad essere recessivi rispetto alle finalità proprio dell'intervento penalistico e quindi la res va senz'altro sottratta alla massa fallimentare. Di contro, quando l'intervento ablatorio non avesse ad oggetto beni pericolosi (e quindi l'adozione della confisca non fosse obbligatoria), allora il giudice penale deve esercitare la sua discrezionalità per pervenire ad un'adeguata ponderazione degli interessi, prendendo in considerazione la possibilità che le esigenze sottese al sequestro ed alla confisca possano essere comunque realizzate mediante lo spossessamento in capo al fallito del suo patrimonio conseguentemente, ex art. 42 R.D. n. 267/1942, all'apertura delle procedura concorsuale.

Questa impostazione, tuttavia, non poteva dirsi ultimativa, in quanto il nostro ordinamento penale conosce (e con gli anni sono diventate sempre più numerose) ipotesi di confisca obbligatoria non aventi per oggetto res pericolose come descritte dall'art. 240, comma 2, n. 2, c.p.: si pensi alle diverse previsioni di confisca del profitto del reato presenti nel codice penale o alla confisca del profitto con riferimento agli illeciti tributari o nei confronti di società ed enti collettivi ex d.lgs. n. 231 del 2001. Era quindi da definire ulteriormente quale normativa applicare nel caso in cui, da un lato, l'intervento ablatorio del giudice penale fosse sì doveroso ma non giustificato in ragione della pericolosità del bene e, dall'altro, vi fosse comunque ragione di ritenere che, lasciando la res nella disponibilità del curatore fallimentare, quest'ultima non sarebbe comunque rientrata (nemmeno in modo indiretto) nella disponibilità del condannato alla chiusura della procedura concorsuale. A fronte di un contrasto interpretativo, con un indirizzo che attribuiva al giudice il potere di apprezzare caso per caso la natura dei beni, bilanciando istanze espropriative e fallimentari (Cass., sez. V, 8 luglio 2008, n. 33425; Cass., sez. un., 9 ottobre 2013, n. 48804) ed un altro, minoritario, che valorizzava invece la cifra formale dell'obbligatorietà della confisca sulla base della presunzione assoluta la pericolosità del bene frutto di attività illecita (Cass., sez. VI, 10 gennaio 2013, n. 19051), le sezioni unite (Cass., sez. un., 25 settembre 2014, n. 11170, cd. Uniland, su cui, per un commento, BONTEMPELLI, Sequestro preventivo a carico della società fallita, tutela dei creditori di buona fede e prerogative del curatore, in Arch. pen., 2015, n. 3-versione Web), pronunciandosi sui rapporti tra confisca ex art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001 e fallimento in un'ipotesi di cautela disposta prima della declaratoria fallimentare, affermarono che l'obbligatorietà della confisca non esclude in nuce la salvaguardia di interessi del fallimento, dovendo il giudice armonizzare finalità ablatorie e posizioni dei terzi che, con incolpevole affidamento, abbiano acquistato la titolarità di diritti sui beni dell'ente decotto, non potendo l'equilibrio economico, turbato dall'illecito, essere ripristinato a detrimento di costoro.



La decisione della Corte e la remissione alle Sezioni Unite

Il ricorso è stato rimesso alle sezioni unite.

In effetti, il rapporto fra misure ablatorie penali e sottoposizione a procedura fallimentare del soggetto destinatario della misura è oggetto di un articolato dibattito giurisprudenziale.

Un primo orientamento – sulla base di quanto sostenuto dalle sezioni unite (Cass., sez. un., 25 settembre 2014, n. 11170, secondo cui "i diritti acquisiti dai terzi in buona fede che, ai sensi dell'art. 19 d.lgs. n. 231 del 2001, sono fatti salvi rispetto alla confisca, si identificano nel diritto di proprietà e negli altri diritti reali che gravano sui beni oggetto dell'apprensione da parte dello Stato e non anche nei diritti di credito, con la derivante puntualizzazione che i creditori, prima della conclusione della procedura concorsuale e della assegnazione dei beni, non sono titolari di alcun diritto su questi ultimi e, quindi, sono privi di un titolo restitutorio” – ha sostenuto che il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo, anche per equivalente, dei beni della società fallita, posto che, non essendo questi titolare di alcun diritto sui beni del fallito, né in proprio, né quale rappresentante dei creditori del fallito i quali, prima della conclusione della procedura concorsuale, non hanno alcun diritto restitutorio sui beni, lo stesso non è portatore di alcuna posizione soggettiva tutelabile né in relazione al sequestro preventivo né, a maggior ragione, in ordine alla successiva confisca, sia essa diretta od anche per equivalente (Cass., sez. II, 19 giugno 2019, n. 27262; Cass., sez. III, 7 giugno 2016, n. 23388; Cass., sez. III, 7 ottobre 2016, n. 42469).

Successivamente però le Sezioni unite riconobbero in capo al curatore fallimentare la legittimazione a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale (Cass., sez. un., 13 novembre 2019, n. 45936). In questa decisione si sostenne che "la giurisprudenza civilistica qualifica esplicitamente il curatore come detentore dei beni del fallimento. E si tratta senz'altro di una detenzione qualificata, anche per il carattere pubblicistico della funzione per la quale la stessa è attribuita", per cui "la legittimazione all'impugnazione del curatore, in quanto derivante dalla sua posizione di soggetto avente diritto alla restituzione dei beni sequestrati, investe necessariamente la totalità dei beni facenti parte dell'attivo fallimentare. Ciò corrisponde peraltro al dato normativo rinvenibile nel contenuto dell'art. 42 l. fall., per il quale la dichiarazione di fallimento, privandone il fallito, conferisce alla curatela la disponibilità di tutti i beni di quest'ultimo esistenti alla data del fallimento; e quindi anche di quelli già sottoposti a sequestro".

Dopo tale decisione non ne sono mancate altre che hanno continuato a sostenere che il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente prevale sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto della dichiarazione di fallimento, attesa la obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro e nelle quali la ratio di tale prevalenza dell'interesse statale sull'interesse dei creditori è rinvenuta nell'esigenza di inibire l'utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente "pericoloso", in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato (Cass., sez. III, 25 maggio 2020, n. 15779; Cass., sez. III, 25 maggio 2020, n. 15776), richiamando in alcuni casi, a supporto di tali conclusioni, la disciplina contenuta nel codice della crisi d'impresa di cui agli artt. 317 ss. d.lgs. n. 14 del 2019 (Cass., sez. III penale, 1 febbraio 2022, n. 3575). Al più, per mitigare questa posizione, si è sostenuto che l'operatività della confisca dei beni anche in caso di avvenuto fallimento va comunque subordinata alla verifica "della esistenza (...non è ben chiaro se ulteriore o meno rispetto all'attivo fallimentare...) di una somma oggetto della cautela reale"; della "coesistenza (...) di diritti di proprietà concernenti gli stessi beni sottoposti a sequestro", in modo di non "arrecare pregiudizio", onde "soddisfare le preminenti ragioni di tutela penale", "alle concorrenti pretese creditorie"; dell'"eventuale già avvenuto recupero da parte dell'Erario delle somme non versate dal contribuente" (Cass., sez. VI, 5 ottobre 2022, n. 37716).

La decisione delle Sezioni Unite che ha riconosciuto la legittimazione del curatore ad impugnare misure ablatorie di carattere preventivo aventi ad oggetto beni ricadenti nella massa fallimentare ha però dato lo spunto per l'affermazione di un orientamento giurisprudenziale di segno radicalmente opposto, il quale afferma che, invece, il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di cui all'art. 12-bis, del D.Lgs. 74/2000 non può essere adottato sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare, in quanto la dichiarazione di fallimento importa il venir meno del potere di disporre del proprio patrimonio in capo al fallito, attribuendo al curatore il compito di gestire tale patrimonio al fine di evitarne il depauperamento (Cass., sez. III, 20 dicembre 2021, n. 47299; Cass., sez. II, 19 maggio 2022, n. 19682, nella quale l'impossibilità di eseguire il sequestro per equivalente in danno della persona fisica responsabile del reato è giustificata dalla impossibilità di apprendere i beni della persona giuridica che si è giovata del reato in quanto, essendone stato dichiarato il fallimento, è venuto meno in capo al fallito il potere di disporre del proprio patrimonio, con l'attribuzione al curatore, terzo estraneo al reato, del compito di gestire tale patrimonio onde evitarne il depauperamento; Cass., sez. III, 8 luglio 2022, n. 26275 nella quale si legge che "ove di consideri che il vincolo apposto a seguito della dichiarazione di fallimento sul patrimonio della persona fisica o giuridica (...) ne importa lo spossessamento ed il venir meno del potere di disporne (...), ne consegue che a partire da tale momento il Curatore subentra ope legis nell'amministrazione della massa attiva nella prospettiva della sua conservazione ai fini della tutela dell'interesse dei creditori"; né, è precisato, l'interesse ad una tale prevalenza va ricondotta solo agli interessi privatistici di carattere creditorio che concernono il fallimento, posto che i "riflessi pubblicistici cui lo stesso procedimento, attraverso l'indisponibilità dei beni del fallito, è sotteso - correlati alla necessità che il tracollo dell'impresa non si estenda a macchia di leopardo ai soggetti che con questa abbiano avuto rapporti e dunque posti a salvaguardia delle esigenze economiche della collettività (...) - non ne consentono l'assoggettabilità al vincolo penale per effetto del sequestro finalizzato alla confisca").

Secondo questa posizione, dunque, occorre riconoscere la prevalenza del fenomeno concorsuale rispetto a quello strettamente penale. In particolare si sostiene, quanto alla obbligatorietà della confisca in materia tributaria, che tale caratteristica cede, per espresso dettato legislativo, laddove la misura dovesse cadere o su beni appartenenti ad un soggetto estraneo al reato, anche in caso di confisca per equivalente, su beni non nella disponibilità del reo, e non vi sarebbe dubbio sul fatto che, una volta dichiarato il fallimento, interviene il fenomeno dello spossessamento dei beni del fallito, sicchè può ben dirsi che questi non sia più nella disponibilità dei medesimi. Inoltre, si evidenzia che – con riferimento al sequestro disposto per i reati tributari - la posizione dell'Erario non è ontologicamente dissimile da quella dei soggetti che si siano insinuati nel fallimento, ovvero lo abbiano promosso, i quali vantano una posizione creditoria insoddisfatta nei confronti del fallito, per cui attribuire un evidente privilegio al creditore tributario (peraltro non a tutti i creditori tributari, ma solamente a quelli per i quali l'adempimento della prestazione in favore è presidiata dalla sanzione penale) rispetto agli altri creditori, anche quelli per i quali il legislatore ha previsto il cosiddetto beneficio della prededuzione, determina una compromissione del principio della par condicio creditorum, reso ancora più sensibile dal fatto che dalla stessa, oltre alla violazione della regola della eguaglianza sostanziale, deriverebbe anche una sorta di privilegium Fisci, indicativo della attribuzione di una posizione dominante all'Erario, rispetto a quella degli altri operatori economici (Cass., sez. III, 18 marzo 2022, n. 11068).



Considerazioni conclusive

Nell'attesa della decisione delle Sezioni Unite, è da ritenere che la questione dei rapporti fra provvedimenti ablatori assunti nel processo penale e curatela fallimentare sarà definita sulla base di quanto previsto dal Titolo VIII del D.Lgs. 14/2019, dedicato per l'appunto ai rapporti fra “liquidazione giudiziale e misure cautelari penali” e che risponde al quesito inerente alla possibilità, per il curatore, con approvazione del giudice delegato, di contare sulla liquidazione di quel determinato bene al fine di far fronte alle spese della procedura e alla soddisfazione dei creditori.

La normativa risponde ad un principio generale espresso dall'art. 317 CCI (non a caso rubricato "Principio di prevalenza delle misure cautelari e tutela dei terzi") che sancisce – conformemente a quanto proposto da alcuni autori (MEZZETTI, Codice antimafia e codice della crisi: la regolazione del traffico delle precedenze in cui la spunta sempre la confisca, in Arch. pen., 2019, n. 1-versione Web, 8) – la prevalenza dei provvedimenti ablatori presenti nel codice di procedura penale, a prescindere dalla loro natura facoltativa o obbligatoria, sulla gestione concorsuale; quanto agli interessi dei creditori, questi ultimi, se “soccombono a monte … vengono recuperati a valle, attraverso una pur parziale soddisfazione sui beni confiscati, alle condizioni e secondo le modalità collaudate del d.lgs. n. 159 del 2011” (LEUZZI, I rapporti fra misure ablatorie penali e liquidazione giudiziale nel CCII, in Fall., 2019, 1440. Si veda anche BONTEMPELLI, La tutela dei creditori di fronte al sequestro e alla confisca dalla giurisprudenza “focarelli” e “uniland” al nuovo codice della crisi d'impresa, in Dirittopenalecontemporaneo, Riv. Trim., 2/2019, 123), come dimostrato dalla previsione di cui al nuovo art. 104-bis comma 1-bis, secondo periodo, delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 373 lett. a) d.lgs. n. 14 del 2019.

Il quadro che si delinea, dunque, è quello di un tentativo di bilanciamento tra i valori in campo, obiettivo che il legislatore (richiamando e prendendo spunto dai suggerimenti giurisprudenziali che si sono sopra riassunti) persegue differenziando l'ipotesi in cui si sia in presenza di sequestri preventivi finalizzati alla successiva esecuzione di una confisca obbligatoria, secondo quanto dispone l'art. 321 c. 2 c.p.p., allorché le esigenze di salvaguardia degli interessi più propriamente penalistici sono comunque destinate a prevalere rispetto ai diritti di terzi, ivi compresi i creditori fallimentari, dalle ipotesi di applicazione delle altre tipologie di sequestro cd. impeditivo e conservativo di cui al comma 1 dell'art. 321 c.p.p. finalizzate ad evitare che la "libera disponibilità di una cosa pertinente al reato possa aggravare o protrarre le conseguenze di esso, ovvero agevolare la commissione di altri reati", nel qual caso le misure adottate in ambito penale sono suscettibili di degradare rispetto alle dinamiche della procedura concorsuale (per un apprezzamento di questa soluzione MILANI, I rapporti fra sequestri e procedure concorsuali, in Dir. Pen. Proc., 2019, 1343).

Questo contemperamento di interessi, come detto, si realizza secondo quanto previsto dagli artt. 318, 319 e 320 CCI. L'art. 318 fa riferimento al cd. sequestro impeditivo: ritenendosi che con l'apertura della liquidazione giudiziale il debitore perde quella "libera disponibilità" dei propri beni - ivi compresi quelli qualificabili come "cose pertinenti al reato" - suscettibile di aggravare, protrarre o favorire la commissione di illeciti, è previsto dal primo comma della disposizione che la misura cautelare non possa essere disposta dal giudice penale allorché penda una procedura di liquidazione giudiziale, mentre (come prevede il secondo comma dello stesso art. 318) se la gestione concorsuale riguarda un bene già in precedenza assoggettato a vincolo penale, quest'ultimo dove essere revocato dietro richiesta del curatore, con restituzione delle cose in favore della procedura. Ai sensi del terzo comma dell'art. 318, poi, si prevede che sia onere del curatore comunicare all'autorità giudiziaria che aveva disposto (o richiesto) il sequestro la dichiarazione dello stato di insolvenza e di apertura della liquidazione giudiziale, l'eventuale provvedimento di revoca o chiusura della suddetta liquidazione, nonché l'elenco delle cose non liquidate e già sottoposte a sequestro. L'ultimo comma della medesima disposizione, infine, chiarisce che le precedenti disposizioni non si applicano (con permanenza, dunque, della misura reale penale) nei casi concernenti le cose di cui all'art. 146, D.Lgs. 14/2019 non suscettibili di liquidazione, per disposizione di legge o per decisione degli organi della procedura concorsuale.

Per quanto concerne i rapporti tra sequestro conservativo e liquidazione giudiziale, l'art. 319, comma 1, D.Lgs. 14/2019 dispone che, in pendenza della procedura concorsuale, tale misura cautelare non può essere disposta, mentre, quando il sequestro conservativo sia stato adottato prima dell'apertura della liquidazione, il curatore deve ritenersi legittimato ad impugnare la misura reale per chiederne la revoca, al fine di ottenere la restituzione in favore della procedura delle cose sequestrate. Lo scopo di questa disciplina è evitare l'applicazione o il mantenimento di una misura posta a tutela di determinate categorie di creditori del debitore (i danneggiati dal reato e lo Stato per le sanzioni pecuniarie) rispetto agli altri, tenuti a concorrere sul suo patrimonio secondo il principio della par condicio e la scelta del legislatore è conforme a quanto sostenuto in precedenza in sede giurisprudenziale, ove si affermava che il sequestro conservativo previsto dall'art. 316 c.p.p. - in quanto strumentale e prodromico ad una esecuzione individuale nei confronti del debitore ex delicto - rientrasse, in caso di fallimento dell'obbligato, nell'area di operatività del divieto di cui all'art. 51 R.D. 16 marzo 1942, n. 267, per il quale dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento (Cass., sez. un., 24 maggio 2004, n. 29951).

Quanto invece ai rapporti fra procedura di liquidazione giudiziale e sequestro finalizzato alla confisca – nozione che ricomprende sia quella disciplinata dall'art. 240 c.p. con riferimento al prezzo o profitto del reato, sia quella allargata di cui al "nuovo" art. 240-bis c.p., sia le ipotesi di confisca per equivalente, di prevenzione e, infine, la confisca "sanzione" prevista dall'art. 19 D.Lgs. n. 231/2001 -, il legislatore del 2019, mediante la menzionata riforma dell'art. 104-bis disp. att. c.p.p., ha deciso di far riferimento alla disciplina contenuta del codice antimafia ed in particolare a quanto dispone il Titolo IV del Libro I con riferimento alla salvaguardia dei diritti dei terzi.