Il contraddittorio nel procedimento della nuova interdittiva antimafia

Maria Alessandra Sandulli
15 Aprile 2022

Il contributo esamina il tema del contraddittorio nel rilascio dell'informativa antimafia interdittiva anche alla luce del c.d. "decreto discovery" che ha introdotto uno specifico obbligo di contraddittorio in tale procedimento.

Il tema che mi è stato chiesto di affrontare è, come noto, uno dei più caldi dell'annoso dibattito sul delicato e difficile bilanciamento tra i contrapposti interessi incisi dalla disciplina e dall'applicazione delle cd informazioni interdittive antimafia (di seguito, per brevità, anche “interdittive antimafia” o solo “interdittive”) [1]. Come ripetutamente sottolineato dalla giurisprudenza, l'interdittiva antimafia è “una misura volta alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica Amministrazione” [2].

Per una migliore percezione della posizione della giurisprudenza amministrativa è ancora utile richiamare le parole dell'Adunanza plenaria n. 3 del 2018: l'interdittiva antimafia è “un provvedimento amministrativo al quale deve essere riconosciuta natura cautelare e preventiva, in un'ottica di bilanciamento tra la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica e la libertà di iniziativa economica riconosciuta dall'art. 41 Cost.; … misura volta – ad un tempo – alla salvaguardia dell'ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione. Tale provvedimento, infatti, mira a prevenire tentativi di infiltrazione mafiosa nelle imprese, volti a condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica amministrazione e si pone in funzione di tutela sia dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, riconosciuti dall'art. 97 Cost., sia dello svolgimento leale e corretto della concorrenza tra le stesse imprese nel mercato, sia, infine, del corretto utilizzo delle risorse pubbliche. L'interdittiva esclude, dunque, che un imprenditore, persona fisica o giuridica, pur dotato di adeguati mezzi economici e di una altrettanto adeguata organizzazione, meriti la fiducia delle istituzioni (sia cioè da queste da considerarsi come ‘affidabile') e possa essere, di conseguenza, titolare di rapporti contrattuali con le predette amministrazioni, ovvero destinatario di titoli abilitativi da queste rilasciati, come individuati dalla legge”.

Il provvedimento prefettizio ha, dunque, il precipuo fine di prevenire possibili infiltrazioni mafiose nell'economia, che inevitabilmente andrebbero a condizionare le scelte e gli indirizzi della Pubblica Amministrazione, costituendo al contempo un presidio dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, previsti dall'art. 97 Cost.

Da ciò la difficoltà di trovare un giusto equilibrio tra i contrapposti diritti e interessi: da un lato, i diritti fondamentali dei consociati a vivere in un clima di sicurezza pubblica e quelli degli imprenditori a operare in un regime di libera concorrenza e, dall'altro, i diritti dei destinatari dei provvedimenti interdittivi, che, in nome di tali diritti e interessi fondamentali, incidono comunque su sfere di libertà e diritti fondamentali della persona, tra i quali, alla luce della CEDU e della Carta di Nizza, devono ritenersi compresi anche il diritto di impresa e di proprietà.

Il tema qui affrontato ha assunto, come noto, massima attualità per effetto del c.d. decreto discovery n. 152 del 2021, con il quale, rispondendo a un'esigenza ripetutamente rappresentata dalla dottrina, il legislatore ha introdotto un obbligo di contraddittorio nel procedimento per il rilascio dell'informazione.

Ricordo a me stessa che, in base all'art. 91, co. 1, del Codice antimafia (d.lgs. n. 159/2011, più volte modificato e integrato fino alla citata riforma del 2021), l'informazione antimafia (liberatoria o interdittiva) deve essere acquisita dalle pp. AA. e dai soggetti a esse equiparati “prima di stipulare, approvare o autorizzare i contratti e subcontratti, ovvero prima di rilasciare o consentire i provvedimenti indicati nell'articolo 67, il cui valore sia: a) pari o superiore a quello determinato dalla legge in attuazione delle direttive comunitarie in materia di opere e lavori pubblici, servizi pubblici e pubbliche forniture, indipendentemente dai casi di esclusione ivi indicati; b) superiore a 150.000 euro per le concessioni di acque pubbliche o di beni demaniali per lo svolgimento di attività imprenditoriali, ovvero per la concessione di contributi, finanziamenti e agevolazioni su mutuo o altre erogazioni dello stesso tipo per lo svolgimento di attività imprenditoriali; c) superiore a 150.000 euro per l'autorizzazione di subcontratti, cessioni, cottimi, concernenti la realizzazione di opere o lavori pubblici o la prestazione di servizi o forniture pubbliche”.

L'informazione è rilasciata dal Prefetto, previa consultazione della banca dati nazionale unica, e conserva validità per dodici mesi.

In particolare, ai sensi dell'art. 92 del Codice, “quando non emerge, a carico dei soggetti ivi censiti, la sussistenza di cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all'articolo 67 o di un tentativo di infiltrazione mafiosa di cui all'articolo 84, comma 4”, l'informazione antimafia liberatoria deve essere “immediatamente conseguente” alla suddetta consultazione.

Qualora, invece, da quest'ultima emerga la sussistenza di tali circostanze, il Prefetto, entro i successivi 30 giorni, deve disporre le verifiche occorrenti e rilasciare, se del caso, un'informazione interdittiva (art. 92, co. 2). Il termine è protratto quando le verifiche disposte siano di particolare complessità: in questo caso, il Prefetto deve darne tempestiva comunicazione (“senza ritardo”) all'amministrazione interessata, e fornirle le informazioni acquisite nei successivi 45 giorni. L'ultimo periodo del comma precisa che il Prefetto procede con le stesse modalità quando la consultazione della banca dati è eseguita per un soggetto che risulti non censito.

L'art. 92 aggiunge peraltro che, decorso il suddetto termine di 30 gg. o, “nei casi di urgenza, immediatamente, i soggetti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, procedono anche in assenza dell'informazione antimafia”; ma I contributi, i finanziamenti, le agevolazioni e le altre erogazioni di cui all'articolo 67 sono corrisposti sotto condizione risolutiva e [qualora sopravvenga l'informazione interdittiva] i soggetti di cui all'articolo 83, commi 1 e 2, revocano le autorizzazioni e le concessioni o recedono dai contratti”.

Come ripetutamente segnalato dalla dottrina, sia accademica che togata, e ben avvertito anche dalla più recente giurisprudenza, l'informazione interdittiva antimafia - nonostante la sua, formale, provvisorietà - può avere un effetto esiziale sull'impresa che ne è attinta.

Concepita come una misura di nicchia, essenzialmente focalizzata sui rapporti contrattuali della pubblica amministrazione e come tale in qualche modo giustificata dal diritto del committente (pubblico e privato) di scegliere contraenti - almeno apparentemente - “sicuri”, la misura ha acquistato sempre maggiore valenza quando, come ben evidenziato anche in un recente convegno presso il Consiglio di Stato [3], il legislatore ne ha esteso l'ambito di applicazione alle autorizzazioni commerciali e, attraverso i protocolli di legalità, alla contrattazione privata, e la giurisprudenza ha traslato i principi e le linee interpretative maturati quando l'informativa era riferita ai soli rapporti contrattuali con la p.A. anche a questa nuova e più ampia area di incidenza dello strumento.

L'operatore colpito dall'interdittiva, perché l'autorità prefettizia, da una serie di elementi puramente indiziari, ha rinvenuto un rischio di potenziale pericolo, non si vedrà invero più soltanto precluso l'accesso ai contratti pubblici, ma si troverà più generalmente impossibilitato ad avviare qualsivoglia attività economica (tanto che si è parlato di “ergastolo imprenditoriale”). Il che, verosimilmente, lo esporrà al dissesto o al fallimento, anche se all'esito del giudizio -amministrativo e/o penale- intentato per reagire allo strumento, il pericolo si rivelasse insussistente o comunque evitabile attraverso la sottoposizione a misure di prevenzione meno radicali. Ricordo a tale proposito che la Corte costituzionale, con la sent. n. 57/2020 [4], per giustificare la conformità dell'istituto dell'interdittiva ai principi sostanziali e procedimentali a tutela dei diritti fondamentali dei soggetti colpiti, ha riconosciuto “un ruolo particolarmente rilevante [al] carattere provvisorio della misura”, propugnando una lettura rigorosa del termine annuale di validità previsto dall'art. 86 del codice: “È questo il senso della disposizione dell'art. 86, comma 2, del d.lgs. n. 159/2011, secondo il quale l'informativa antimafia ha una validità limitata di dodici mesi, cosicché alla scadenza del termine occorre procedere alla verifica della persistenza o meno delle circostanze poste a fondamento dell'interdittiva, con l'effetto, in caso di conclusione positiva, della reiscrizione nell'albo delle imprese artigiane, nella specie, e in generale del recupero dell'impresa al mercato. E va sottolineata al riguardo la necessità di un'applicazione puntuale e sostanziale della norma, per scongiurare il rischio della persistenza di una misura non più giustificata e quindi di un danno realmente irreversibile…” [5], il quale sottolinea che la durata annuale della misura non implica che, alla scadenza dei 12 mesi, gli elementi posti a base dell'originario provvedimento perdano di attualità, poiché essi, in mancanza di elementi sopravvenuti di segno contrario, mantengono inalterata la loro valenza indiziaria e ben possono giustificare il rinnovo del provvedimento interdittivo negli anni a seguire [6].

Nei fatti, a quanto mi si dice, l'interdittiva viene tendenzialmente confermata.

Sicché - nonostante il carattere formalmente preventivo e provvisorio, sul quale la giurisprudenza amministrativa e costituzionale appoggia anche la sufficienza della cd tassativizzazione giurisprudenziale dei presupposti indiziari, incompatibile con uno strumento di tipo sanzionatorio [7] - essa finisce in buona sostanza per limitare in via permanente l'esercizio dell'attività di impresa. Limite che viene, come noto, “giustificato dalla considerazione che il metodo mafioso, per sua stessa ragion di essere, costituisce un «danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41, comma secondo, Cost.), già sul piano dei rapporti tra privati (prima ancora che in quello con le pubbliche amministrazioni), oltre a porsi in contrasto, ovviamente, con l'utilità sociale, limite, quest'ultimo, allo stesso esercizio della proprietà privata. Il metodo mafioso è e resta tale, per un essenziale principio di eguaglianza sostanziale prima ancora che di logica giuridica, non solo nelle contrattazioni con la pubblica amministrazione, ma anche tra privati, nello svolgimento della libera iniziativa economica” [8].

Nella Relazione della DIA al Parlamento sul I semestre 2021 si legge infatti significativamente che con l'interdittiva, “in termini generali, si impedisce quindi alle imprese interessate di stipulare contratti con la pubblica amministrazione in ossequio al principio costituzionale di assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione” e, “nel contempo si concorre al mantenimento di un sano regime concorrenziale ed alla difesa dell'ordine pubblico economico che ha la funzione di garantire, proteggere e dirigere l'attività economica nazionale”. Nella precedente Relazione per il I semestre 2020, la stessa Direzione rimarcava che la misura rappresenta “la massima anticipazione della tutela preventiva dello Stato dal crimine organizzato (...) in quanto comporta l'esclusione di un soggetto, ritenuto potenzialmente infiltrato dalla criminalità organizzata, dalla possibilità di intrattenere rapporti con le pubbliche amministrazioni”, esplicitando che essa è l'esito di un'apposita istruttoria effettuata in riferimento a “condizioni che non costituiscono un numero chiuso e non consistono solo in circostanze desumibili dalle sentenze di condanna per particolari delitti e dalle misure di prevenzione antimafia”, nella quale possono rilevare anche le “motivazioni che lumeggino situazioni di infiltrazione mafiosa da provvedimenti giudiziari non ancora definitivi”, ovvero i “rapporti di parentela, amicizia e collaborazione con soggetti controindicati e che indichino un verosimile pericolo di condizionamento criminale per intensità e durata”, nonché “aspetti anomali nella composizione e gestione dell'impresa sintomatici di cointeressenza dell'azienda e dei soci con il fenomeno mafioso”. Si tratta, come si vede e come noto, di elementi necessariamente indiziari che, per di più, il Prefetto valuta con un forte deficit di contraddittorio e che il giudice amministrativo sindaca, alla luce della richiamata tipizzazione giurisprudenziale e secondo la regola del “più probabile che non” (affatto diversa da quella dell'“in dubio pro reo”) [9], con i limiti che inevitabilmente derivano da un procedimento che, per garantire l'effetto “sorpresa” non era e, nonostante la riforma del 2021, non è pienamente trasparente [10].

Il dibattito sulla natura e sui presupposti dell'interdittiva, cui si lega strettamente quello sull'ambito e sull'effettività del relativo sindacato giurisdizionale, è sempre acceso e il TAR di Reggio Calabria ha apportato importanti contributi al suo sviluppo. La tematica ha, come noto, coinvolto anche la Corte di Giustizia e la Corte costituzionale, portandola a coniare la discutibile categoria della tassatività giurisprudenziale o “giurisprudenza tassativizzante”, ritenuta eccezionalmente idonea a integrare i fisiologici limiti evolutivi del sistema normativo in una lotta contro un'organizzazione particolarmente forte, agguerrita e pericolosa, senza ledere il principio di legalità dell'azione amministrativa e quello di effettività della tutela giurisdizionale. In particolare, la Corte costituzionale, ha, ancora nel 2020 (con la nota sentenza n. 57/20), affermato la “tenuta” del sistema, facendo leva sulla natura preventiva e provvisoria dell'informazione interdittiva, per escludere che -diversamente da quanto affermato (all'esito della nota sentenza CEDU del 23 dicembre 2017 nella causa De Tommaso c. Italia) per le misure di prevenzione limitative della libertà personale ed esteso alle misure patrimoniali in quanto lesive di un altro diritto convenzionale come quello di proprietà- con riferimento alle informazioni, e in particolare a quelle cd “generiche”, la presenza di elementi “elastici” di valutazione, lasciati all'apprezzamento del Prefetto, arrechi un vulnus agli artt. 3 e 41 Cost. e integri una violazione del principio fondamentale di legalità sostanziale, riconoscendo alla cd tipizzazione giurisprudenziale, inaugurata dalla sentenza n. 1743/2016 del Consiglio di Stato, la capacità di garantire un livello sufficiente di tassatività sostanziale (che, in ambito sanzionatorio alla stregua dei cc.dd. Engel criteria, non sarebbe invece adeguata); e ha escluso del pari un vulnus al principio di effettività della tutela, affermando che, attraverso l'utilizzo dei poteri cognitori e istruttori riconosciutigli dal codice processuale, il sindacato del giudice amministrativo scende “nei fatti” ed è pieno perché valuta la ragionevolezza e la proporzionalità del giudizio prognostico, secondo la logica del ragionamento induttivo di tipo probabilistico (non quindi “al di là di ogni ragionevole dubbio”, ma soltanto “più probabile che non” o “probabilità cruciale”), posto a fondamento dell'informazione.

Su questi profili abbiamo ascoltato/ascolteremo come da programma, gli altri autorevoli relatori.

Il filo del rasoio sul quale, in assenza di una tipizzazione normativa previa, chiara e certa delle ipotesi in cui il Prefetto è legittimato a interdire l'esercizio di diritti fondamentali sulla base del “sospetto” di infiltrazione mafiosa, corre il confine tra valutazione e arbitrio e, in ambito processuale, quello tra potere/dovere di esercitare un sindacato effettivo sull'attendibilità del criterio valutativo utilizzato e conseguenzialità logica della decisione assunta, attraverso un controllo pieno e reale sui fatti e divieto di invasione dell'ambito di valutazione riservato all'autorità prefettizia, giustifica le perplessità e le preoccupazioni che, da varie parti, sono state espresse con riferimento alla riduzione delle garanzie di prevedibilità e di tutela dei soggetti esposti alla misura, e, soprattutto, sta alla base dell'esigenza, del pari da più parti espressa, di ripensamento in senso più garantista del contraddittorio procedimentale. È noto, del resto, che le garanzie partecipative sono tanto più importanti e devono essere tanto più rafforzate quanto meno sono stringenti quelle di legalità sostanziale. Da ciò la centralità del ruolo del procedimento quale luogo di verifica in contraddittorio della correttezza dei fatti posti a fondamento della decisione, anche per un rafforzamento del controllo giurisdizionale sull'eccesso di potere, nella prospettiva della tutela effettiva e piena delle situazioni soggettive incise.

Per questa ragione, la migliore dottrina ha da tempo auspicato un intervento riformatore dell'art. 93, co. 7, del Codice antimafia, che rimetteva allo stesso Prefetto la possibilità di disporre, ove lo ritenesse utile, sulla base delle informazioni acquisite, l'invito dei soggetti interessati ad un'audizione personale, per produrre, anche allegando elementi documentali, ogni informazione che ritenessero a loro volta utile: una garanzia di contraddittorio, pertanto, evidentemente attenuata, subordinata alla valutazione - difficilmente sindacabile - della sua utilità da parte della medesima autorità agente.

Diversi Autori, tra i quali mi piace in particolare ricordare Franco G. Scoca e Marco Mazzamuto, hanno manifestato perplessità nei confronti della posizione che, nel bilanciamento tra i contrapposti interessi giustifica l'attenuazione delle garanzie partecipative degli operatori economici in ragione della necessità di arginare con la massima celerità il fenomeno -indubbiamente gravissimo- della criminalità organizzata, in nome della difesa della legalità sostanziale, da intendersi come vero presidio nei riguardi dei pericoli rappresentati dalle organizzazioni mafiose.

La giurisprudenza ha sostenuto con convinzione questa tesi, muovendo dal presupposto della natura tendenzialmente cautelare e preventiva dell'interdittiva, e della sua conseguente riconducibilità alle ipotesi di esenzione dall'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento indicate dall'art. 7 della legge n. 241/1990 [11], e dal radicato convincimento che le garanzie procedimentali introdotte da tale legge non possono trovare applicazione nei procedimenti di tutela antimafia “… intrinsecamente caratterizzati da profili del tutto specifici, connessi ad attività di indagine, oltre che da finalità … del tutto incompatibili con le procedure partecipative” [12].

Se è però certamente vero che le esigenze di immediata efficacia e di “effetto sorpresa” delle misure di prevenzione antimafia, possono giustificare delle deroghe anche sul piano del contraddittorio procedimentale, imposto - anche a livello generale - “ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da particolari esigenze di celerità del procedimento”, è altrettanto evidente che l'effettiva necessità e giustificabilità di tali deroghe deve essere valutata caso per caso, attraverso un necessario vaglio di proporzionalità, in relazione alla grave incidenza delle misure interdittive antimafia su diritti fondamentali dei loro destinatari.

Ciò a maggior ragione nelle ipotesi in cui, come agevolmente si evince da una rapida disamina della giurisprudenza, la valutazione prefettizia è esito di una “relazione riservata” proveniente dagli uffici che conducono le indagini sui reati commessi dalla criminalità organizzata. Sicché, essendo tali indagini ontologicamente sottoposte a segreto istruttorio, l'interessato non è messo in condizione di conoscere i fatti e gli elementi sulla base dei quali il Prefetto abbia assunto la decisione interdittiva, anche se essi sono sempre accessibili al giudice amministrativo, che valuta poi se ostenderli anche alle altre parti.

Come rilevato nella lucida ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale fornita dal consigliere Noccelli a margine della già richiamata sentenza n. 57 del 2020 della Corte costituzionale, in tale pronuncia, pur rigettando le questioni di l c del sistema sottoposte al suo vaglio, la Consulta, ponendo l'accento sulla particolare severità degli effetti della misura interdittiva “generica” (che alcuni AA hanno significativamente definito come “ergastolo imprenditoriale”), ha osservato che la mancanza, in materia, di una previsione analoga a quella dell'art. 67, comma 5, del d. lgs. n. 159/2011 (il quale dispone che “Per le licenze ed autorizzazioni di polizia, ad eccezione di quelle relative alle armi, munizioni ed esplosivi, e per gli altri provvedimenti di cui al comma 1 le decadenze e i divieti previsti dal presente articolo possono essere esclusi dal giudice nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all'interessato e alla famiglia), “merita indubbiamente una rimeditazione da parte del legislatore”. Rileva quindi l'A. che tale “garbato monito rivolto al legislatore” dimostra che l'incidenza dell'istituto sulla libertà imprenditoriale resta un problema aperto per quattro essenziali motivi, sui quali la Corte non è stata chiamata a pronunciarsi nello specifico: tra essi, appunto, il deficit di contraddittorio procedimentale, oggetto della riforma del 2021.

Ricordo a questo proposito che, in direzione opposta a quella seguita dalla surrichiamata giurisprudenza amministrativa, con ordinanza n. 28 del 13 gennaio 2020, il TAR Puglia, sede di Bari, sez. III, rimarcando che l'informazione interdittiva non è una misura provvisoria e strumentale all'adozione di un ulteriore provvedimento, bensì un “atto conclusivo del procedimento amministrativo avente effetti definitivi, conclusivi e dissolutori del rapporto giuridico tra l'impresa e la P.A., con riverberi assai durevoli nel tempo, se non addirittura permanenti, indelebili e inemendabili …”, aveva chiesto alla Corte di Giustizia UE di chiarire pregiudizialmente, ai fini della decisione del giudizio, se gli artt. 91, 92 e 93 del d. lgs. n. 159/2011, nella parte in cui non prevedevano il contraddittorio procedimentale in favore del soggetto nei cui confronti il Prefetto si proponeva di rilasciare una informazione antimafia, fossero compatibili con il principio del contraddittorio, quale espressione di civiltà giuridica europea, garantito dall'art. 41 della Carta di Nizza e inserito nel catalogo dei principi generali del Diritto dell'Unione in base all'art. 6, par. 3 del Trattato [13].

L'ordinanza non passava inosservata dal Consiglio di Stato, e, pochi giorni dopo, con la sentenza n. 820 del 31 gennaio 2020, redatta dallo stesso consigliere Noccelli, la III Sezione, si preoccupava di re-intervenire sul tema nonostante la questione del contraddittorio (definita nel senso della sua necessità dal giudice di I grado [14]) non formasse oggetto del giudizio di appello. In particolare, richiamando una precedente giurisprudenza della Corte di Giustizia, il Collegio -presieduto da Franco Frattini, all'epoca Presidente aggiunto e da qualche mese al vertice del Consiglio di Stato- riteneva “di dover rilevare incidenter tantum che, ferma restando ogni cognizione della Corte UE sulla questione rimessale [dal TAR Puglia], l'assenza di una necessaria interlocuzione procedimentale in questa materia non costituisca un vulnus al principio di buona amministrazione, perché, come la stessa Corte UE ha affermato, il diritto al contraddittorio procedimentale e al rispetto dei diritti della difesa non è una prerogativa assoluta, ma può soggiacere a restrizioni, a condizione che «queste rispondano effettivamente a obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti» (sentenza della Corte di Giustizia UE, 9 novembre 2017, in C-298/16, § 35 e giurisprudenza ivi citata)”. A ulteriore sostegno di tali considerazioni, il Consiglio di Stato ricordava che, più recentemente (con la sentenza 26 settembre 2019, in C-63/18, § 37), la stessa Corte UE, seppure ai diversi fini della compatibilità eurounitaria della disciplina italiana del subappalto, aveva “ribadito che «il contrasto al fenomeno dell'infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si applicano nell'ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici».

In sintesi, la III Sezione ribadiva la legittimità del sistema disegnato dall'art 97, co 3, del Codice antimafia, ritenendo che “la discovery anticipata, già in sede procedimentale, di elementi o notizie contenuti in atti di indagine coperti da segreto investigativo o in informative riservate delle forze di polizia, spesso connessi ad inchieste della magistratura inquirente contro la criminalità organizzata di stampo mafioso e agli atti delle indagini preliminari, potrebbe frustrare la finalità preventiva perseguita dalla legislazione antimafia, che ha l'obiettivo di prevenire il tentativo di infiltrazione da parte delle organizzazioni criminali, la cui capacità di penetrazione nell'economia legale ha assunto forme e “travestimenti” sempre più insidiosi”.

Aggiungeva inoltre la sentenza che, come già chiarito dalla propria precedente giurisprudenza, “la delicatezza della ponderazione intesa a contrastare in via preventiva la minaccia insidiosa ed esiziale delle organizzazioni mafiose, richiesta all'autorità amministrativa, può comportare anche un'attenuazione, se non una eliminazione, del contraddittorio procedimentale, che del resto non è un valore assoluto, come ha pure chiarito la Corte di Giustizia UE nella sua giurisprudenza (ma v. pure Corte cost.: sent. n. 309 del 1990 e sent. n. 71 del 2015), o slegato dal doveroso contemperamento di esso con interessi di pari se non superiore rango costituzionale, né un bene in sé, o un fine supremo e ad ogni costo irrinunciabile, ma è un principio strumentale al buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e, in ultima analisi, al principio di legalità sostanziale (art. 3, comma secondo, Cost.), vero e più profondo fondamento del moderno diritto amministrativo (Cons. Stato, sez. III, 9 febbraio 2017, n. 565)”.

In questo quadro si inseriva la richiamata sentenza n. 57 del 26 marzo 2020 della Corte costituzionale, che ricordando la propria sentenza n. 309 del 1993, ha ribadito che in questa materia la mera eventualità e non obbligatorietà del contraddittorio procedimentale non confligge con i principî costituzionali.

La Corte di Giustizia, con ordinanza 28 maggio 2020 (in C-17/20), non entrava purtroppo nel merito della questione sollevata dal TAR pugliese, rilevandone la manifesta irricevibilità per difetto di rilevanza transfrontaliera, ma ricordava, incidentalmente, che il rispetto dei diritti di difesa costituisce un “principio generale del diritto dell'Unione che trova applicazione quando l'amministrazione intende adottare nei confronti di una persona un atto che le arrechi pregiudizio”.

Come sottolineato nel ricordato scritto di Noccelli, restava quindi “sullo sfondo l'interrogativo, se la partecipazione procedimentale, almeno in certe ipotesi, non sia necessaria ad evitare l'emissione del provvedimento interdittivo ed adottare misure meno invasive per l'impresa a rischio di infiltrazione mafiosa, anche in una prospettiva de iure condendo”.

Tanto che, nella pluricommentata sentenza n. 4979 del 2020 [15], la medesima III Sezione del Consiglio di Stato - pur ricordando che, nel sistema disegnato dall'art. 93 del Codice, l'audizione degli interessati “non è assente, ma solo eventuale, rimettendo alla valutazione discrezionale del prefetto la scelta sulla ‘… utilità di detto contraddittorio procedimentale in seno ad un procedimento informato da speditezza, riservatezza ed urgenza, per evidenti ragioni di ordine pubblico' ” e che il sacrificio delle garanzie procedimentali, giustificato anche dall'esigenza di evitare strumentali iniziative dilatorie, sarebbe compensato dalla possibilità di far valere le proprie ragioni in sede giurisdizionale, attraverso il sindacato sull'atto adottato dal Prefetto, che, contrariamente a quanto assume parte della dottrina, sarebbe pieno ed effettivo, in termini di full jurisdiction (cfr. sent. n. 2854/2020) - nei passaggi conclusivi, accogliendo anche le sollecitazioni della dottrina, suggeriva, de iure condendo, un recupero, quantomeno parziale, delle garanzie procedimentali, nel rispetto dei diritti di difesa spettanti al soggetto destinatario del provvedimento, in tutte quelle ipotesi in cui la permeabilità mafiosa «appaia alquanto dubbia, incerta, e presenti, per così dire, delle zone grigie o interstiziali, rispetto alle quali l'apporto procedimentale del soggetto potrebbe fornire utili elementi a chiarire alla stessa autorità procedente la natura dei rapporti tra il soggetto e le dinamiche, spesso ambigue e fluide, del mondo criminale».

Si è così opportunamente osservato che, in tutte queste ipotesi, l'ordinamento dovrebbe generalmente garantire la partecipazione dell'operatore interessato, salvo che essa non frustri l'urgenza di provvedere e le particolari esigenze di celerità invocabili ai sensi dell'art. 7 della l. n. 241/1990, per bloccare un grave, incontrollabile o imminente pericolo di infiltrazione mafiosa e, dunque, non ostacoli la ratio stessa dell'informazione antimafia quale strumento di massima tutela preventiva nella lotta contro la mafia.

Come rilevato in dottrina [16], il riconoscimento di tale garanzia è tanto più importante in quanto, “laddove la decisione prefettizia si basi su accertamenti di fatto complessi, in questo caso addirittura di tipo indiziario, ben possono manifestarsi margini di errore, rispetto ai quali non sembrano residuare strumenti di protezione adeguata dell'interessato in assenza di una sua audizione”.

Di contro, il contraddittorio procedimentale:

a) consentirebbe all'impresa di esercitare in sede procedimentale i propri diritti di difesa e di spiegare le ragioni alternative di determinati atti o condotte, ritenuti dalla Prefettura sintomatici di infiltrazione mafiosa, nonché di adottare, eventualmente su proposta e sotto la supervisione della stessa Prefettura, misure di self cleaning, che lo stesso legislatore potrebbe introdurre già in sede procedimentale con un'apposita rivisitazione delle misure straordinarie, ad esempio, dall'art. 32, comma 10, del d.l. n. 90/2014, conv. con mod. in l. n. 114/2014, da ammettersi, ove la situazione lo consenta, prima e al fine di evitare che si adotti la misura più incisiva dell'informazione antimafia;

b) consentirebbe allo stesso Prefetto di intervenire con il provvedimento interdittivo quale extrema ratio solo a fronte di situazioni gravi, chiare, inequivocabili, non altrimenti giustificabili e giustificate dall'impresa, secondo la logica della probabilità cruciale, di infiltrazione mafiosa, all'esito di una istruttoria più completa, approfondita, meditata, che si rifletta in un apparato motivazionale del provvedimento amministrativo, fondamento e presidio della legalità sostanziale in un ordinamento democratico, che sia il più possibile esaustivo ed argomentato;

c) consentirebbe infine al giudice amministrativo di esercitare con maggiore pienezza il proprio sindacato giurisdizionale sugli elementi già valutati dalla Prefettura in sede procedimentale, anche previo approfondimento istruttorio nel contraddittorio con l'impresa, nonché sul conseguente corredo motivazionale del provvedimento prefettizio, e di affinare così ulteriormente, nell'ottica della full jurisdiction, i propri poteri cognitori e istruttori in questa delicata materia, crocevia di fondamentali valori costituzionali, eurounitari e convenzionali in gioco.

Anche la giurisprudenza amministrativa andava rimarcando il valore del contraddittorio anche sul piano sostanziale [17].

*

In questo quadro si è inserito il d.l. n. 152/2021, convertito nella l. n. 233 del 29 dicembre, che ha, tra l'altro, introdotto la possibilità che il Prefetto, nei casi in cui rilevi situazioni di mera “agevolazione occasionale”, disponga meno incisive misure amministrative di cd “prevenzione collaborativa”, e, per quanto qui di interesse, all'art. 48, ha ridisciplinato il “contraddittorio nel procedimento di rilascio dell'interdittiva antimafia”.

La novella ha innanzitutto modificato l'art. 92 del Codice, sostituendo il vecchio comma 2-bis con una nuova disposizione, dove si legge che “Il prefetto, nel caso in cui, sulla base degli esiti delle verifiche disposte ai sensi del comma 2, ritenga sussistenti i presupposti per l'adozione dell'informazione antimafia interdittiva ovvero per procedere all'applicazione delle misure di cui all'articolo 94-bis [le riferite misure amministrative di prevenzione collaborativa], e non ricorrano particolari esigenze di celerità del procedimento, ne dà tempestiva comunicazione al soggetto interessato, indicando gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa”.

Come è immediatamente percepibile dal confronto con l'art. 93, co. 7, modificato a sua volta dal medesimo art. 48, la garanzia partecipativa inserita nell'art. 92 si aggiunge a quella, che, come vedremo, resta meramente eventuale, prevista dal primo e, per quanto visto, comparabile alla comunicazione di avvio del procedimento di cui all'art. 7 l. n. 241/1990.

Il nuovo obbligo informativo opera, infatti, soltanto nell'ipotesi in cui il Prefetto, all'esito delle verifiche di quanto emerso dalla consultazione della banca dati, ritenga sussistenti i presupposti per l'adozione dell'informazione interdittiva ovvero per procedere all'applicazione delle nuove misure amministrative di prevenzione collaborativa introdotte dall'art. 94-bis.

Si tratta, quindi, di una sorta di contestazione degli addebiti, con invito a controdedurre.

Sintomaticamente, la novella parla di “preavviso di interdittiva o della misura amministrativa di prevenzione collaborativa”, nel quale il Prefetto deve indicare all'interessato gli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa, assegnandogli un termine, non superiore a 20 giorni, per presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate da documenti, nonché per richiedere l'audizione, da effettuare secondo le modalità previste dall'art. 93, commi 7, 8 e 9. In buona sostanza, il coinvolgimento dell'interessato diventa regola generale soltanto dopo che il Prefetto si sia già indirizzato verso l'adozione della misura preventiva. Se quindi, a prima lettura, la deroga all'obbligo informativo a fronte di “particolari esigenze di celerità del procedimento” sembra ricalcare il modello di cui all'art. 7 l. 241/1990, quando la si cala nell'ambito della contestazione degli addebiti, assume ben altro impatto. Il destinatario del preavviso, infatti, non potrà contribuire alla progressiva valutazione degli elementi che hanno, ab origine, indotto il Prefetto ad avviare la procedura, ma potrà soltanto cercare di indurlo a modificare la valutazione che esso ha sostanzialmente già effettuato. Affinché la novella non si risolva in una mera “parvenza di garanzia partecipativa”, occorrerà quindi che i poteri (amministrativo e giurisdizionale) chiamati rispettivamente ad applicarla e interpretarla

- leggano in modo rigoroso la deroga, considerando che il riferimento normativo alle “particolari esigenze di celerità” esclude che esse coincidano con quelle - fisiologiche -delle misure di prevenzione e, trattandosi di una eccezione alla regola, non può essere utilizzato per eluderla;

- tengano in reale considerazione le osservazioni e i documenti che l'interessato adduca a sostegno delle proprie controdeduzioni: il Prefetto valutandoli senza preconcetti e il Giudice garantendo quel sindacato pieno sui fatti ed effettivo sulla ragionevolezza della relativa valutazione in forza del quale il Consiglio di Stato e la Corte costituzionale hanno ritenuto giustificabile l'attenuazione del contraddittorio procedimentale. Merita a tale riguardo ancora una volta ricordare che il Giudice delle leggi, premesso che l'informazione interdittiva si pone in una “prospettiva anticipatoria della difesa della legalità …, comportando un giudizio prognostico circa probabili sbocchi illegali della infiltrazione mafiosa” e, pertanto, è chiaramente basata “su elementi fattuali più sfumati di quelli che si pretendono in sede giudiziaria, perché sintomatici e indiziari”, ha espressamente sottolineato che il Prefetto deve effettuare “una attenta valutazione di tali elementi, che devono offrire un quadro chiaro, completo e convincente del pericolo di infiltrazione mafiosa”. E ancora - nel rimarcare che tale valutazione, discrezionale, ma “dalla forte componente tecnica”, deve essere accuratamente motivata, onde consentire “un vaglio giurisdizionale pieno ed effettivo”- ha espressamente giustificato la tenuta del sistema con l'argomento che la giurisprudenza amministrativa in materia ha identificato un “nucleo consolidato … di situazioni indiziarie … costruendo un sistema di tassatività sostanziale” e che nelle pronunce che si sono occupate dell'istituto si è proceduto a verificare consistenza e coerenza di tutti gli elementi raccolti dal Prefetto, non limitandosi ad un sindacato meramente estrinseco. Questa esigenza non può certo ritenersi attenuata per effetto del nuovo “preavviso di interdittiva o della misura amministrativa di prevenzione collaborativa”, che colmano solo in parte il gap di contraddittorio procedimentale più volte denunciato dalla dottrina.

In coerenza con questa linea, la novella prevede del resto che l'invio della comunicazione sospende il termine entro cui il Prefetto dovrà rilasciare l'informazione antimafia ai sensi dell'art. 92, co. 2, e fissa un tempo tendenzialmente congruo per la conclusione della procedura in contraddittorio, precisando che, entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione da parte dell'interessato, l'autorità, ove non proceda al rilascio dell'informazione antimafia liberatoria, dispone l'applicazione delle misure amministrative di “prevenzione collaborativa” nei casi di situazioni di agevolazione occasionale, oppure, laddove non ricorrano tali casi (e dunque la stessa autorità ravvisi la presenza di tentativi stabili di infiltrazione mafiosa), adotta l'informazione interdittiva, dandone comunicazione all'interessato entro 5 giorni, valutando la sussistenza dei presupposti per le misure di cui all'art. 32, co. 10, del d.l. n. 90/2014 (ossia la nomina di un commissario o la rinnovazione degli organi sociali) e, in caso affermativo, informandone tempestivamente il Presidente dell'Autorità Nazionale Anticorruzione.

Il co. 2-quater, del nuovo art. 94-bis specifica peraltro espressamente che, ai fini dell'adozione della misura interdittiva, il Prefetto possa prendere in considerazione anche le sopravvenienze manifestatesi nel periodo intercorso fra la ricezione della comunicazione e la conclusione della procedura in contraddittorio.

La nuova “difesa” procedimentale nasce quindi evidentemente monca. Sembra infatti che i Prefetti stiano di fatto sterilizzando la riforma apponendo una clausola di stile mutuata dalle riferite disposizioni. Non vi è poi chi non veda come la formula utilizzata dal legislatore – “informazioni che, se disvelate, sono suscettibili di pregiudicare procedimenti amministrativi o attività processuali in corso, ovvero l'esito di altri procedimenti amministrativi finalizzati alla prevenzione delle infiltrazioni mafiose”- lasci ancora una volta estrema discrezionalità all'autorità amministrativa, riducendo - o quantomeno aggravando - il sindacato del giudice amministrativo, che sarà costretto a defatiganti istruttorie processuali [18], con dilazione dei tempi di definizione del giudizio, e conseguente sostanziale svilimento della tutela contro una misura teoricamente provvisoria.

A quest'ultimo riguardo, mi è stata peraltro segnalata la tendenza dei Prefetti a confermare l'interdittiva, rigettando le istanze di revisione e aggiornamento della misura, ex art. 91, comma 5, del Codice, negando per di più, anche in questi casi, nonostante l'evidente assenza di esigenze di celerità, le correlate garanzie partecipative.

Il problema maggiore resta comunque a mio avviso quello degli atti riservati.

A quanto mi hanno riferito alcuni avvocati che seguono specificamente la materia, le informative di polizia, sulla cui scorta viene adottata l'interdittiva, in tempi recenti non rimangono più riservate, ma vengono tutt'al più omissate in talune parti (p.es.: sui nomi dei soggetti “controllati” con l'interessato, ma certamente non fino all'eventuale giudizio (ove sono poi rese accessibili integralmente).

Il problema della riservatezza riguarda però gli atti dei procedimenti penali, specie quelli in corso ed in fase di indagine, i quali non sono mai prodotti, ma solo menzionati e/o citati nelle parti di interesse dalle Prefetture e dalle forze di polizia: sui loro contenuti e sui fatti ivi citati in effetti non esiste, nell'ambito delle misure di prevenzione amministrativa, alcun contraddittorio. Si pensi alla criticità di tutto ciò, vieppiù considerando che anche nel caso di un processo penale che venga esitato con una sentenza di assoluzione con formula piena, la stessa sentenza assolutoria può non esser sufficiente ad escludere l'adozione di un'interdittiva e può essere anzi posta a fondamento della stessa. In sostanza ove non ci sia “contraddittorio” sui fatti, la valutazione è rimessa totalmente alla discrezionalità del Prefetto.

Da qui l'importanza di un sindacato pieno ed effettivo del giudice amministrativo, che ha il diritto e il dovere di accedere a tutti gli atti ed elementi presupposti al provvedimento impugnato.

Sindacato che, evidentemente, deve estendersi al necessario controllo di proporzionalità della scelta interdittiva rispetto a quella di mera prevenzione collaborativa e che incide, per l'effetto, sulla concreta valenza della graduazione delle misure di prevenzione costituente, come già osservato, la più importante novità della riforma del 2021.

A questi ultimi fini, come considerazione di chiusura, non si può peraltro mancare di segnalare come il legislatore abbia perso un'importante occasione per dare alle imprese, come pure era stato suggerito, una possibilità di adottare misure di self cleaning.

Note

* Lo scritto riproduce il testo, corredato da note, della Relazione su “Il contraddittorio nel procedimento della nuova interdittiva antimafia” tenuta dall'A. all'Incontro di studio sul tema “Il nuovo volto delle interdittive antimafia alla luce del Piano nazionale di ripresa e resilienza”, organizzato dalla Sezione staccata di Reggio Calabria del T.A.R. Calabria e dall'Università degli studi di Reggio Calabria, l'8 aprile 2022.

[1] Tra gli studi più recenti sulle interdittive antimafia, si vedano, senza pretesa di esaustività, R. Maria e A. Amore, Effetti «inibitori» delle interdittive antimafia e bilanciamento fra principi costituzionali: alcune questioni di legittimità dedotte in una recente ordinanza di rimessione alla Consulta (5 maggio 2021), in Federalismi.it, n. 12/2021; G. D'Angelo, Il tentativo d'infiltrazione mafiosa ai fini dell'adozione dell'informazione interdittiva, tra garanzie procedimentali, tassatività sostanziale e sindacato giurisdizionale, in Foro it., 2021; F. Figorilli-W. Giulietti, Contributo allo studio della documentazione antimafia: aspetti sostanziali, procedurali e di tutela giurisdizionale, in federalismi.it, 2021; le varie note a sentenza di R. Rolli e R. Rolli-M. Maggiolini su Giustiziainsieme, negli anni 2020 e 2021; M. Mazzamuto, Interdittive prefettizie: rapporti tra privati, contagi e giusto procedimento, in Giur. it., 2020; M. Noccelli, Le informazioni antimafia tra tassatività sostanziale e tassatività processuale,in giustizia-amministrativa.it, 2020; A. Longo, La Corte costituzionale e le informative antimafia. Minime riflessioni a partire dalla sentenza n. 57 del 2020, in Nomos 2020; e ancora i contributi raccolti in G. Amarelli e S. Sticchi Damiani (a cura di), Le interdittive antimafia e le altre misure di contrasto all'infiltrazione mafiosa negli appalti pubblici, Torino, 2019, tra cui quello dello stesso G. Amarelli, Le interdittive antimafia “generiche” tra interpretazione tassativizzante e dubbi di incostituzionalità, ivi, pp. 207 ss.; R. Garofoli e G. Ferrari, Sicurezza pubblica e funzioni amministrative di contrasto alla criminalità; le interdittive antimafia, in giustizia-amministrativa.it, J. P. De Jorio, Le interdittive antimafia e il difficile bilanciamento con i diritti fondamentali, Napoli, 2019; A. Longo, La «massima anticipazione di tutela». Interdittive antimafia e sofferenze costituzionali, in federalismi.it, 2019; F. Siracusano, Impresa mafiosa e contiguità, in A. M. Maugeri, V. Scalia e G. M. Vagliasindi (a cura di), Crimine organizzato e criminalità economica, Pisa, 2019, pp. 325 ss.; A. Bongarzone, L'informativa antimafia nelle dinamiche negoziali tra privati e pubbliche amministrazioni, Napoli, 2018, pp. 21 ss.; F.G. Scoca, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in giustamm.it, 2018A. Specifici riferimenti anche in F. Fracchia e M. Occhiena, Il giudice amministrativo e l'inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell'interesse pubblico, in Dir. econ., 2018, 3, pp. 1125-1164. Sull'istituto si sono pronunciate, come è noto, ripetutamente pronunciate, sia la Corte costituzionale (cfr. da ultime le sentt. n. 4 del 2018 n. 4 e n. 57 del 2020) che l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (cfr. la sent. 6 aprile 2018, n. 3, su cui v. i commenti di G. Leone, L'Ad. Plen. del Cons. di Stato alle prese con l'interdittiva prefettizia antimafia e la teoria dell'interpretazione, in Foro amm., 2018, 1103 e di M. Mazzamuto, Pagamento di imprese colpite da interdittiva antimafia e obbligatorietà delle misure anticorruzione, in Giur. it., 2019, 1, p. 157 ss. nonché, da ultimo, la sent. n. 23 del 26 ottobre 2020).

[2] Per tutte, quella della III Sezione del Consiglio di Stato, dalla nota sent. 3 maggio 2016 n. 1743 alla recente sent. 25 ottobre 2021 n 7165, su cui il richiamato commento di R. Rolli e M. Maggiolini.

[3] G. VELTRI, Questioni controverse in tema di interdittive antimafia, Relazione al convegno su “Questioni controverse di diritto amministrativo. Un dialogo tra Accademia e Giurisprudenza”, svoltosi a Palazzo Spada il 1° aprile scorso e visualizzabile dal link youtube indicato sul sito della giustizia amministrativa.

[4] Su cui cfr. inter alia A. LONGO La Corte costituzionale, cit.

[5] Merita in proposito rimarcare che la giurisprudenza amministrativa è consolidata nell'affermare che il decorso del termine annuale indicato dall'art. 86 non implica la decadenza automatica dell'eventuale misura interdittiva, ma impone soltanto di procedere alla verifica della persistenza o meno delle circostanze poste a fondamento dell'interdittiva, con l'effetto, in caso di conclusione positiva, della reiscrizione dell'impresa nell'albo le imprese e, in generale, del suo recupero al mercato. Il principio è ribadito, citando anche l'Adunanza Plenaria n. 23 del 2020, in un ampio e puntuale scritto del consigliere di Stato Massimiliano NOCCELLI, pubblicato nel 2021 sul sito della giustizia amministrativa: M. NOCCELLI, Le informazioni antimafia tra tassatività sostanziale e tassatività processuale, in www.giustizia-amministrativa 2020.

[6] L'A. richiama in proposito Cons. Stato, sez. III, 5 ottobre 2016, n. 4121, nel senso che la persistente rilevanza degli elementi indiziari posti a base dell'informativa affermata dalla giurisprudenza, anche dopo il decorso del termine annuale previsto dall'art. 86, co 2, cit., non è l'effetto di una non prevista ultrattività dell'informativa positiva, a differenza di quella c.d. negativa (o liberatoria), né tantomeno il frutto di una non consentita interpretazione in malam partem, come pure si è ritenuto, ma l'oggetto di una precisa disposizione normativa e, in particolare, dell'art. 91, comma 5, dello stesso d. lgs. n. 159/2011, per il quale «il Prefetto, anche sulla documentata richiesta dell'interessato, aggiorna l'esito dell'informazione al venir meno delle circostanze rilevanti ai fini dell'accertamento dei tentativi di infiltrazione mafiosa». Secondo la giurisprudenza amministrativa, tale disposizione ha evidentemente considerato che gli elementi posti a base dell'informativa antimafia a effetto interdittivo non “scadono” per il decorso del termine annuale, in quanto l'aggiornamento “liberatorio” dell'informativa può esservi solo quando essi perdano la loro rilevanza indiziaria del pericolo di infiltrazione (così ad es. TAR Lazio, Latina, sez. I, n. 32/2021). A conferma e sostegno di tale chiave di lettura, il Collegio ha aggiunto che sarebbe del resto irragionevole e contrario alla ratio della normativa antimafia «sostenere che elementi di consistente gravità, quali ad esempio l'assidua frequentazione, nel tempo, di soggetti pregiudicati o l'altrettanto costante collaborazione economica dell'impresa con la mafia o, addirittura, la presenza di soggetti controindicati nelle cariche societarie, perdano la loro efficacia indiziante solo perché l'informativa sia “scaduta” decorso l'anno dalla sua emanazione».

[7] Cfr. da ultimo, prima della riforma del 2021, Cons. Stato, sez. III, 25 ottobre 2021 n. 7165 (con nota di P. CACACE, Conformità dell'interdittiva antimafia alle norme costituzionali, euro unitarie e internazionali pattizie, in giustamm.it, 2021, che, richiamando anche la sentenza n. 3 del 2018 dell'Adunanza plenaria, rimarca che la natura cautelare, anticipatoria e prudenziale, affermata da consolidata giurisprudenza, rende estranee al sistema sanzionatorio penale le misure interdittive antimafia, soggette, invece, al principio di legalità e a quello del giusto procedimento “secondo criteri di ragionevolezza, adeguatezza e proporzionalità”.

[8] Cfr. Cons. Stato, sez. III, sent. n. 565 del 2017.

[9] Cfr. in argomento F. Fracchia-M. Occhiena, Il giudice amministrativo e l'inferenza logica: “più probabile che non” e “oltre”, “rilevante probabilità” e “oltre ogni ragionevole dubbio”. Paradigmi argomentativi e rilevanza dell'interesse pubblico, in Dir. econ., 2018, 3, pp. 1125-1164.

[10] V. infra.

[11] Cfr. la sentenza n. 3 del 2018 dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato.

[1]2 Cons. Stato, sez. III, 26 ottobre 2016, n. 4555 e, a seguire, tra le altre, sentt. 30 novembre 2017, n. 5623 e, più recentemente, 3 marzo 2020, n. 1576.

[13] Sull'ordinanza v. i commenti di L. Bordin, Contraddittorio endoprocedimentale e interdittive antimafia: la questione rimessa alla Corte di Giustizia. E se il problema fosse altrove? in Federalismi.it, 22 luglio 2020 e di G. Carratelli, Il (mancato) contraddittorio endoprocedimentale in materia di informazione antimafia, in Amministrazione e contabilità dello Stato e degli enti pubblici(www.contabilitapubblica.it), 30 gennaio 2021.

[14] TAR Lombardia, Brescia, sentenza del 17 maggio 2019 c. Prefettura di Mantova, con numero oscurato.

[15] Su cui, inter alia, gli scritti di R. Rolli, e di R. Rolli e M. Maggiolini, citt.

[16] F. Figorilli, W. Giulietti, cit.

[17] Cfr. le sentt. Cons. Stato, Sez. III, 9 aprile 2021 n. 2899, nonché, subito dopo la novella 2021, 13 dicembre 2021 n. 8309, rimarcando che soprattutto nelle “ipotesi in cui la permeabilità mafiosa appaia alquanto dubbia, incerta, e presenti, per così dire, delle zone grigie o interstiziali (…) l'apporto procedimentale del soggetto potrebbe in effetti fornire elementi utili a chiarire alla stessa autorità procedente la natura dei rapporti tra il soggetto e le dinamiche, spesso ambigue e fluide, del mondo criminale”.

[18] Esemplificativamente, per restare in Calabria, l'ordinanza TAR Catanzaro, 16 aprile 2021 n. 784.

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