No a gogne mediatiche: la CEDU condanna la black list online dei debitori del fisco ungherese
13 Marzo 2023
É quanto stabilito dalla Grand Chamber L.B. c. Ungheria del 9 marzo. Il ricorrente ha contestato invano sia i presunti reati fiscali ascrittigli, sia l'accertamento fiscale subito nel 2013 che la sua “messa alla berlina” in base ad un onere divulgativo previsto dalla legge interna dal 1996. L'elenco dei morosi inizialmente includeva «il nome del contribuente, la sede legale, il numero di identificazione fiscale (nel caso di entità commerciali) e l'indirizzo (nel caso di privati), nonché la data della decisione finale». Il campo di applicazione era stato ampliato da successive riforme (2016-2018) ed esteso non solo ai suddetti morosi, ma anche a chi non aveva ottemperato all'obbligazione di pagamento stabilita da una decisione finale, presentato la dichiarazione dei redditi per due anni ed attualmente pubblica «anche un elenco dei contribuenti nei confronti dei quali è stato avviato un procedimento di esecuzione (articolo 266, lettera d), un elenco dei datori di lavoro che non hanno dichiarato i propri dipendenti alle autorità fiscali (articolo 265), un elenco dei contribuenti che non hanno dichiarato l'imposta sul valore aggiunto per due anni consecutivi (sezione 266(l)) e un elenco dei contribuenti il cui codice fiscale è stato revocato come sanzione, rendendo illegale per loro continuare le attività commerciali per le quali la registrazione è richiesta ai sensi della legislazione fiscale (articolo 266, lettera c)». È stata anche istituita recentemente «un'interfaccia di ricerca che consenta l'accesso ai dati dei debitori fiscali degli anni precedenti (risalenti al 31 dicembre 2014). Questo database non fornisce l'accesso agli elenchi completi dei debitori fiscali degli anni precedenti, ma consente agli utenti di cercare informazioni sui contribuenti in base ai loro nomi». Sono pubblicate inoltre liste dei contribuenti virtuosi. No a gogne mediatiche: la privacy prevale sull'interesse al recupero dei crediti. L'onere pubblicitario era giustificato da esigenze di trasparenza, di risanamento dell'economia nazionale e dal «fine di rafforzare la chiarezza e l'affidabilità delle relazioni economiche e incoraggiare comportamenti rispettosi della legge da parte del contribuente». In primo grado le sezioni semplici avevano ritenuto questi interessi pubblici e le necessità informative della collettività prevalenti sulla tutela della privacy delle categorie di contribuenti morosi coinvolti. La GC è stata di diversa opinione evidenziando che «nel determinare se le informazioni personali conservate dalle autorità comportino aspetti della vita privata, la Corte terrà debitamente conto del contesto specifico in cui le informazioni controverse sono state registrate e conservate, della natura delle registrazioni, del modo in cui tali registrazioni sono utilizzate e elaborati e i risultati che possono essere ottenuti»: è indubbio che questi dati, seppure di pubblico interesse, potevano avere ripercussioni sulla vita sia privata che professionale dell'interessato. Inoltre, seppure il Legislatore ha ampio margine discrezionale in materia e tale pubblicazione abbia una solida base legale rispondendo a fini imperativi di pubblico interesse, deve essere sempre attuato un equo bilanciamento tra i contrapposti interessi in gioco: tale discrezionalità, perciò, è soggetta a chiari limiti dovendo rispettare alcuni principi cardine, stabiliti anche dalle norme internazionali e dalla prassi della CGUE in materia ( v. §§.30-57 della sentenza cui si rinvia per ogni approfondimento): «il principio della limitazione delle finalità (articolo 5, lettera b, della Convenzione sulla protezione dei dati), secondo cui qualsiasi trattamento di dati personali deve essere effettuato per uno scopo specifico e ben definito e solo per scopi aggiuntivi compatibili con lo scopo originale», i principi della minimizzazione dei dati, dell'esattezza degli stessi e della limitazione della conservazione «in base al quale i dati personali devono essere conservati in una forma che consenta l'identificazione degli interessati per un arco di tempo non superiore a quello necessario agli scopi per i quali i dati sono trattati», sì che anche un trattamento inizialmente lecito può divenire illecito se protratto eccessivamente nel tempo. Nella fattispecie ciò non è avvenuto perché, come evidenziato dal ricorrente, durava ben oltre i 180 giorni ex lege. Inoltre, è palese come queste liste esponessero gli interessati oltre ad una gogna mediatica anche a rischi che terzi s'impossessassero dei loro dati per attività di profilazione per fini commerciali, per usarli in altri procedimenti, per mera curiosità ecc. Tutto ciò è incompatibile sia con la tutela della privacy in senso lato sia con quanto strettamente necessario in uno stato democratico. Ciò è una malpratice comune anche ad altri Stati membri come evidenziato da un'indagine di diritto comparato riportata in sentenza. Nello specifico la GC ha evidenziato come il Parlamento ungherese, seppure obbligato, non ha adottato alcun meccanismo protettivo e di controllo onde evitare abusi, né ha preso in alcuna considerazione detti rischi di uso improprio e ritrasmissione di dati da parte di terzi: ciò ha comportato che questa ingerenza non fosse necessaria in uno stato democratico e contraria ai dettami dell'art. 8 Cedu. (Fonte: Diritto e Giustizia) |