Aggravamento del dissesto (l. fall.)

05 Luglio 2016

Con l'espressione “aggravamento del dissesto” ci si riferisce ad una situazione in cui il dissesto della società sia già in atto e subisca, a seguito di specifiche operazioni poste in essere da determinati soggetti, un ulteriore aggravamento generando, in buona sostanza, una nuova diminuzione delle garanzie in favore dei creditori. Diverse sono le disposizioni normative della Legge Fallimentare che fanno riferimento all'aggravamento del dissesto, o anche alla causazione dello stesso, inteso come evento di una determinata condotta.

Inquadramento

Con l'espressione “aggravamento del dissesto” ci si riferisce ad una situazione in cui il dissesto della società sia già in atto e subisca, a seguito di specifiche operazioni poste in essere da determinati soggetti, un ulteriore aggravamento generando, in buona sostanza, una nuova diminuzione delle garanzie in favore dei creditori. Diverse sono le disposizioni normative della legge fallimentare che fanno riferimento all'aggravamento del dissesto, o anche alla causazione dello stesso, inteso come evento di una determinata condotta.

In particolare, l'art. 217, comma 1, n. 4), l. fall. prevede espressamente che è punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore che, fuori dai casi preveduti dall'art. 216 l. fall., ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa”. In tale caso, come avremo modo di vedere, l'aggravamento del dissesto integra un vero e proprio elemento costitutivo della fattispecie delittuosa.

L'art. 223 l. fall., invece, prevede l'applicabilità agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori, della medesima pena prevista dal comma 1 dell'art. 216, se gli stessi:

“1) hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli artt. 2621,2622,2626,2627,2628,2629,2632,2633,2634, c.c.;

2) hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimentodella società”.

Anche in questo caso, il ruolo dell'aggravamento del dissesto è fondamentale, ma ciò che distingue le fattispecie anzidette sono sia le modalità con cui una determinata condotta è attuata sia, soprattutto, l'elemento soggettivo del reato.

Infine, l'art. 224 l. fall. prevede la punibilità di amministratori, direttori generali, sindaci e liquidatori di società dichiarate fallite, che abbiano commesso uno dei fatti previsti dall'art. 217 l. fall., ovvero che abbiano concorso a cagionare od aggravare il dissesto della società, non osservando gli obblighi ad essi imposti dalla legge.

Brevi cenni sulla natura del reato di bancarotta semplice prevista dall'art. 217, comma 1, n. 4), l. fall.

Preliminarmente giova evidenziare che con il termine dissesto suole riferirsi alla condizione di una società che versi in uno stato di insolvenza tale che le sia impossibile far fronte regolarmente ai propri impegni e che non le consenta di proseguire l'attività di impresa. Spesso si utilizzano indistintamente i termini dissesto e insolvenza fallimentare. Ma non sempre le due situazioni coincidono.

Invero, può propriamente parlarsi di dissesto quando vi sia una situazione di squilibrio economico patrimoniale progressivo, tale da comportare un inarrestabile aggravamento della situazione dell'impresa, fino alla totale insolvenza. Quest'ultima, sostanzialmente, rappresenterebbe il naturale epilogo di una situazione di dissesto.

Il concetto di stato di insolvenza può desumersi dalla lettura dell'art. 5 l. fall., che sancisce espressamente che lo stesso si manifesta con “inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.

Per comprendere a pieno il reale significato del termine occorre distinguere tra due diverse situazioni in cui una determinata realtà sociale può venirsi a trovare: l'inadempimento e la situazione di insolvenza.

Nel primo caso non è imposto alcun obbligo all'imprenditore, che si trova semplicemente nella impossibilità di adempiere a singole obbligazioni o prestazioni. Tale situazione può essere legata ad una temporanea crisi di liquidità, oppure ad altri e diversi motivi che denotano, in ogni caso, una situazione economico - finanziaria tendenzialmente reversibile.

Nel secondo caso, invece, l'imprenditore si trova nella incapacità di far fronte alle proprie obbligazioni con mezzi normali di pagamento e, quindi, in una situazione di oggettiva impotenza economica funzionale e non transitoria (cfr. P. Pajardi, Codice del fallimento, a cura di M. Bocchiola - A. Paluchowski, Milano, 2009, 87-88).

Quest'ultima ipotesi fa riferimento, infatti, ad una globale situazione patrimoniale del soggetto debitore, contraddistinta da una serie di circostanze sintomatiche di un dissesto patrimoniale difficilmente risolvibile. Solo ed esclusivamente in tale ultima ipotesi il debitore si trova nella necessaria condizione di dover chiedere il proprio fallimento.

L'insolvenza, pertanto, richiede manifestazioni esteriori identificabili attraverso l'individuazione di fatti tipici, di natura omissiva, o atipici, sia di natura omissiva che commissiva, significativi dello status dell'imprenditore. In particolare, un esempio di fatto tipico è rappresentato dall'inadempimento che, di regola, deve però essere plurimo.

Stretto è il legame che intercorre, poi, tra l'insolvenza e la crisi. Quest'ultimo è, infatti, ricostruito come un rapporto di specie (insolvenza) ad genus (crisi) in quanto il comma 3 dell'art. 160 l. fall. sancisce che ai fini di cui al comma 1 per stato di crisi si intende anche lo stato di insolvenza”.

Ciò posto, giova, altresì, premettere che l'aggravamento dello stato di dissesto presuppone inevitabilmente la sussistenza di un preesistente stato di dissesto della società, diversamente opinando non si giustificherebbe, infatti, il riferimento ad un “aggravamento”, né sarebbe configurabile la situazione che comporterebbe l'obbligo di chiedere il fallimento in proprio.

L'art. 217, comma 1, n. 4, l. fall. punisce con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore che aggravi il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa.

Per potersi configurare tale delitto è necessario che il protrarsi dell'attività comporti, successivamente al sorgere dell'obbligo di richiedere il fallimento in proprio, un aggravamento della situazione di dissesto preesistente. Sull'imprenditore grava, infatti, l'obbligo di richiedere il proprio fallimento e di non compiere operazioni che provochino un aggravamento evitabile usando l'ordinaria diligenza (cfr. U. Giuliani – Balestrino, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano, 1999, 347).

La disposizione normativa in parola mira, sostanzialmente, ad evitare che il ritardo nella dichiarazione di fallimento possa provocare ulteriori perdite patrimoniali. Infatti, oggetto della sanzione è il mero ritardo nell'instaurare la procedura concorsuale e ciò a prescindere dai comportamenti in concreto tenuti e da un giudizio di rimproverabilità degli stessi (cfr. R. Brichetti – L. Pistorelli, La bancarotta e gli altri reati fallimentari – dottrina e giurisprudenza a confronto, Milano, 2011, 237) purché, in conseguenza di tale ritardo, si addivenga ad un peggioramento della situazione economica dell'azienda. Per la sussistenza della fattispecie delittuosa è, pertanto, sufficiente che l'aggravamento costituisca il naturale esito del prolungarsi dell'attività d'impresa, essendo totalmente indifferente la determinazione colpevole di tale aggravamento.

Occorre tuttavia evidenziare che la prosecuzione dell'attività di impresa, e quindi il ritardo nel formulare la richiesta di fallimento nonostante lo stato di insolvenza/dissesto, non comporta inevitabilmente l'integrazione del reato in questione, in quanto non necessariamente conduce ad un peggioramento della situazione ex ante, ben potendosi verificare, in concreto, anche un miglioramento delle condizioni economiche nonostante la mancata tempestiva richiesta di fallimento.

Può quindi sostenersi che, ai fini della sussistenza del delitto in parola, è necessario che si verifichi un reale peggioramento in conseguenza del comportamento omissivo del debitore e che sussista un nesso causale tra la condotta e l'evento.

Oltre alla condotta concernente l'omissione della richiesta di fallimento, viene considerata rilevante, ai fini della configurabilità della fattispecie delittuosa in parola, anche ogni “altra grave colpa”, nel senso che sono ricondotte alla fattispecie della bancarotta semplice le ipotesi in cui si ravvisi un nesso causale tra determinate azioni od omissioni, qualificate da colpa grave, e l'aggravamento del dissesto (L. Conti, Diritto Penale Commerciale – I Reati Fallimentari, Torino, 1991, 245).

In entrambi i casi previsti dall'art. 217, comma 1, n. 4, l. fall. il termine dissesto equivale allo stato di insolvenza di cui all'art. 5 l. fall., ossia a quella situazione in cui l'impresa appare ormai incapace di far fronte con i propri mezzi alle obbligazioni contratte (F. Antolisei, Manuale di diritto penale – I reati fallimentari, tributari, ambientali e dell'urbanistica, Milano, 1995, 99).

L'elemento psicologico del reato

Giova in primo luogo segnalare che, in relazione alla natura dell'elemento soggettivo del reato di bancarotta semplice, la dottrina non è unanime. Da un lato vi è, infatti, chi ritiene che – per l'integrazione della medesima – sia sufficiente la colpa, dall'altro lato, invece, vi è chi sostiene che solo le fattispecie previste dai n. 2 (operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti) e n. 4, dell'art. 217 l. fall. siano punibili esclusivamente a titolo di colpa, mentre per le altre ipotesi, di cui ai punti n. 1 (spese personali eccessive) e n. 3 (operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento), sia necessario il dolo.

Altri autori, ancora, sostengono che tutte le ipotesi previste dalla norma in questione siano da ritenersi punibili a titolo di dolo, eccezion fatta per la seconda ipotesi di cui al punto n. 4 che, come evidenziato, prevede espressamente la colpa grave.

Diversamente è orientata la giurisprudenza: la Suprema Corte, più volte chiamata a pronunciarsi sul tema, ha ritenuto, infatti, che le condotte di bancarotta semplice patrimoniale e documentale siano punibili indistintamente a titolo di dolo o di colpa.

Ciò posto, opportuna precisazione va fatta in ordine a quanto previsto dalla seconda parte del punto n. 4 dell'art. 217 l. fall., secondo cui l'aggravamento del dissesto deve derivare da un comportamento qualificato da colpa grave.

Deve pertanto ritenersi che il legislatore non ha considerato rilevante ogni fatto colposo, ma esclusivamente i fatti contraddistinti da “colpa grave” e ciò in virtù della opportunità di non sanzionare quelle operazioni che, seppur contraddistinte da colpa, appaiano giustificabili per colui che si trovi in pericolo di fallimento e speri mediante le stesse di evitarlo (L. Conti, Diritto Penale Commerciale – I reati fallimentari, cit., 245).

In virtù di tale disposizione generale, rientra nello schema della bancarotta semplice qualsiasi aggravamento del dissesto dovuto a grave colpa e, quindi, tutti i comportamenti previsti dalla precedente disposizione, purché gli stessi siano contraddistinti da tale grado di colpa di grave. Possono ritenersi altri casi di colpa grave quelli caratterizzati da grave imprudenza, non compresi nelle ipotesi previste specificatamente, oltre a quelli contraddistinti da grave negligenza.

A titolo esemplificativo, sono da ritenersi contraddistinti da colpa grave l'ingiustificato mancato approvvigionamento di materie prime indispensabili, il ricorso al credito usurario, l'assunzione di enormi impegni finanziari, l'abbandono di un'azienda, la mancata effettuazione di riparazioni urgenti o la mancata assicurazione di beni di particolare valore.

In tali casi, però, dovrà comunque necessariamente verificarsi l'aggravamento del dissesto e, anzi, è proprio tale ultimo evento che consente di distinguere la condotta in esame dalle altre richiamate nei numeri precedenti (F. Antolisei, Manuale di diritto penale – I reati fallimentari, tributari, ambientali e dell'urbanistica, cit., 106).

Ciò posto, è quindi necessaria una valutazione circa il grado di intensità della colpa in relazione ad un determinato comportamento al fine di poter contestare il reato in parola, fermo restando che, secondo la giurisprudenza più recente, tale elemento soggettivo deve connotare anche la condotta relativa alla mancata tempestiva richiesta di fallimento in proprio.

L'ipotesi del concordato preventivo

In relazione alla particolare ipotesi prevista dall'art. 217, comma 1, n. 5, l. fall., ai fini della configurabilità del reato di bancarotta semplice per inadempimento degli obblighi assunti in un precedente concordato, ci si riferisce ad una precedente e distinta procedura concorsuale conseguente ad un distinto stato di dissesto rispetto a quello che ha dato luogo al fallimento.

In dottrina è discusso se la richiesta di concordato preventivoex art. 160 l. fall. non escluda il dovere di richiedere il proprio fallimento e, quindi, la responsabilità penale del soggetto nel caso in cui successivamente a tale richiesta, si aggravi la situazione di insolvenza della società. Secondo la prevalente dottrina, infatti, la richiesta di concordato preventivo, seguita da un aggravamento dello stato di insolvenza, non ancora intervenuto al momento della domanda, escluderebbe la responsabilità penale dell'imprenditore (L. Conti, Diritto penale commercialeI Reati fallimentari, cit., 244; F. Antonini, Bancarotta semplice, Napoli, 1962, 178; E. F. Carabba, Reati fallimentari, Firenze, 1957, 110; M. Punzo, Il delitto di bancarotta, Torino, 1953, 213; Contra, P. Nuvolone, Fallimento, in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 187; A. Pagliaro, Il delitto di bancarotta, Palermo, 1957, 128, U. Giuliani - Balestrino, La bancarotta e gli altri reati fallimentari, cit., 337).

Sul punto, infatti, giova segnalare che è la stessa legge a prevedere la possibilità dell'imprenditore di far ricorso al concordato preventivo, come misura idonea a scongiurare il fallimento della società cui può ricorrere un debitore che si trovi in uno stato di crisi o di insolvenza, per tentare il risanamento della propria attività anche attraverso la continuazione della stessa.

Inoltre, stante quanto previsto dall'art. 162 l. fall. nel caso in cui non siano ritenuti sussistenti i presupposti per ammettere la società a tale procedura concorsuale, la presentazione di un'istanza da parte di un creditore o del PM conduce al medesimo risultato: la dichiarazione di fallimento.

L'aggravamento del dissesto e la causazione dello stesso (o del fallimento)

Necessaria distinzione va, poi, effettuata relativamente alle due diverse ipotesi di aggravamento del dissesto e causazione dello stesso.

Come già ampiamente illustrato, l'aggravamento del dissesto, esplicitamente previsto come evento della condotta prevista dall'art. 217, comma 1, n. 4, l. fall. presuppone una condizione economica precedente già critica e che, proprio in ragione del comportamento tenuto dal soggetto agente, subisce un ulteriore peggioramento.

La causazione del dissesto, o del fallimento, di contro, rappresenta elemento costitutivo di altre ipotesi criminose previste dalla Legge Fallimentare, in particolare la bancarotta impropria fallimentare, prevista dall'art. 223 l. fall., e l'ipotesi di bancarotta semplice impropria societaria prevista dall'art. 224, n. 2, l. fall. nella la quale, giova precisare, vengono richiamate entrambe le nozioni.

Va preliminarmente osservato che la prima delle due fattispecie prevede, da un lato, la causazione, anche solo in parte, del dissesto della società (cfr. art. 223, comma 2, n. 1, l. fall.) e, dall'altro, la causazione del fallimento (cfr. art. 223, comma 2, n. 2, l. fall.), mentre la seconda (art. 224, l. fall.) contempla espressamente, accanto alla ipotesi di causazione del dissesto, anche quella di aggravamento. Senza dilungarsi sulle due distinte ipotesi delittuose, su cui si avrà modo di soffermarsi nei successivi paragrafi, ciò che preme in questa sede appurare è cosa debba intendersi per causazione del dissesto e quali siano i confini tra tale concetto e quello di aggravamento.

Volendo attribuire un significato letterale all'espressione “causazione del dissesto”, può senz'altro sostenersi che la stessa contraddistingue una situazione in cui determinate operazioni cagionino, o concorrano a cagionare, il dissesto della società, inteso come condizione patrimoniale della società accertata nella sentenza di fallimento.

Pertanto, se da un lato non può dirsi esistente uno stato di dissesto (fatta salva l'ipotesi generale prevista dall'art. 223, comma 2, n. 1, l. fall.) in mancanza di una pronuncia giudiziale che lo accerti, dall'altro deve ritenersi che il nesso causale penalmente rilevante è quello che intercorre tra la condotta vietata e l'insolvenza accertata. Sicché l'aggravamento di uno stato di crisi economica di un'azienda equivale in definitiva a produrre un “nuovo” stato di dissesto (cfr. P. Silvestri, Aggravamento del dissesto e configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta societaria – in Corte Suprema di Cassazione – Ufficio del Massimario, servizio Penale, 218).

Seguendo tale argomentazione, la Cassazione è ormai unanime nel ritenere che, ai fini della configurabilità della bancarotta da reato societario, rilevano anche le condotte che abbiano esclusivamente aggravato una preesistente situazione di dissesto.

Secondo parte della dottrina sarebbero, al contrario, penalmente rilevanti esclusivamente quelle condotte che, sole o congiunte ad altre, provochino il dissesto, mentre non rileverebbero quelle che comportino solamente l'aggravamento di uno stato di insolvenza già in essere, poiché estranee al dato letterale della norma. Invero, secondo il citato orientamento, l'aver aggravato il dissesto rappresenterebbe un fenomeno diverso dall'aver causato o concorso a causare lo stesso (C. Pedrazzi, Reati Fallimentari, in AA.VV., Manuale di diritto penale dell'impresa, Bologna, 2000,- 215).

Tale orientamento valorizza, inoltre, il fatto che, nei casi in cui il legislatore ha voluto attribuire rilevanza all'aggravamento, lo stesso vi ha fatto espresso riferimento (cfr. artt. 217, comma 1, n. 4 e 224, l. fall.).

Spunti di riflessione sull'argomento sono offerti anche dalla Suprema Corte che, con una recente pronuncia, pur non discostandosi da quanto in precedenza affermato, ha ritenuto sussistenti elementi in favore di tale ultima tesi (cfr. Cass. Pen.- Sez. V, 23 marzo 2015, n. 37555).

In particolare: l'ipotesi di bancarotta impropria ex art. 223, comma 2, n. 1) e 2) l. fall.

La fattispecie prevista dall'art. 223, comma 2, n. 1 e n. 2, l. fall., prevede una doppia incriminazione. Da un lato, infatti, punisce “i direttori generali, i sindaci e i liquidatori di società dichiarate fallite, se hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli artt. 2621,2622,2626,2627,2628,2629,2632,2633,2634, c.c.”, e dall'altro sanziona quelle condotte che abbiano cagionato con dolo o per effetto di “operazioni dolose” il fallimento della società.

La prima delle due ipotesi rappresenta un reato di danno in cui l'aver cagionato il fallimento della società assume natura giuridica di evento del reato e la condotta non risulta delineata nelle concrete modalità di attuazione, trattandosi di reato a forma libera, in cui è sufficiente che la condotta sia idonea a cagionare l'evento previsto dalla norma incriminatrice, a nulla rilevando le modalità con cui sia posta in essere.

Il D.lgs. 11 aprile 2002, n. 61 ha sostanzialmente riscritto la fattispecie della bancarotta da reato societario”. Oggi, infatti, è indiscutibile che la fattispecie di bancarotta in esame rappresenti un vero e proprio reato “autonomo” rispetto ai reati societari richiamati e ciò alla luce anche della previsione di un evento, rappresentato dal dissesto, che non è elemento costitutivo dei reati societari.

La precedente disposizione incriminatrice, invero, non pretendeva, per l'integrazione del reato fallimentare, che il fatto di cui al reato societario cagionasse, o concorresse a cagionare, il dissesto. Oggi, viceversa, la causazione del dissesto, o anche l'aggravamento dello stesso, attraverso la commissione dei fatti integranti gli illeciti societari richiamati dalla norma de quo, è punita solo se la società sia stata dichiarata fallita.

Per quanto concerne, invece, l'ipotesi prevista dal punto n. 2 del comma 2 dell'art. 223 l. fall., che incrimina, di contro, la condotta di chi abbia cagionato “con dolo” o “per effetto di operazioni dolose” il fallimento della società, giova segnalare che, anche in questa fattispecie, il fallimento assume il ruolo fondamentale di evento del reato. Cagionare con dolo il fallimento di una società significa, in altre parole, provocarne il dissesto destinato a sfociare nella sentenza dichiarativa di fallimento. Tale situazione potrebbe verificarsi non solo quando, a seguito determinate condotte o di “operazioni dolose”, si realizzi una situazione di dissesto, ma anche quando la situazione di dissesto, già sussistente al momento della commissione dei fatti anzidetti, sia stata semplicemente aggravata in ragione degli stessi.

In relazione a tale fattispecie criminosa, il legislatore non descrive in modo preciso la condotta materiale del reato, con la conseguenza che occorre far riferimento alla giurisprudenza per circoscrivere, almeno in parte, i comportamenti in concreto punibili.

Per “operazione dolosa” non deve necessariamente intendersi un fatto costituente reato, ma anche qualsiasi altro comportamento del titolare del potere sociale che, concretandosi in un abuso o in una infedeltà delle funzioni o nella violazione di doveri derivanti dalla sua qualità, cagioni lo stato di decozione della società, con pregiudizio della medesima, dei soci, dei creditori e dei terzi interessati” (cfr. Cass. Pen.-Sez. V, 16 giugno 1998, n. 6992).

Pertanto, potrà correttamente parlarsi di operazione dolosa anche nei casi in cui la condotta tenuta non integri un illecito penale, ma provochi, comunque, una indebita diminuzione dell'attivo patrimoniale e, di conseguenza, un depauperamento non giustificabile in termini di interesse per l'impresa (cfr. Cass. Pen.-Sez. V, 18 febbraio 2010, n. 17690).

Alcuni esempi tipici di operazioni dolose sono: il ricorso abusivo al credito, l'utilizzo del leaseback sui beni di magazzino, il sistematico omesso versamento delle ritenute previdenziali o delle imposte comportanti l'aggravamento del dissesto in considerazione degli interessi e delle sanzioni maturati, il rilascio di fideiussioni o di garanzie a favore di altre società facente capo ai medesimi soggetti presenti nella società fallita, l'operazione di estromissione di un bene dal patrimonio dell'impresa senza che segua alcuna attività di recupero.

L'elemento psicologico

Per quanto riguarda la disposizione di cui al punto n. 1, l'elemento soggettivo è rappresentato dal dolo, inteso quale elemento che attiene sia alla commissione del “fatto” societario, sia alla causazione del dissesto e pertanto, in tale ottica, l'evento dissesto/fallimento deve essere espressamente previsto e voluto dall'agente come conseguenza della sua azione o omissione.

In ordine, invece, alle due distinte figure previste dal punto n. 2 della medesima norma, occorre fare una distinzione relativamente all'aspetto soggettivo. Invero, l'aver cagionato con dolo il fallimento della società significa, in buona sostanza, aver previsto e voluto, come conseguenza della propria azione od omissione l'evento dissesto (cd. dolo diretto).

Di contro, in caso di fallimento determinato da operazioni dolose, il dissesto rappresenta l'effetto, dal punto di vista della causalità materiale, di una condotta non già diretta a produrre quel determinato evento. A ben vedere, quindi, in tale ultima ipotesi l'evento può anche non essere voluto dall'agente, ma semplicemente rappresentato come possibile risultato della propria condotta e, nonostante ciò, non scongiurato (cd. dolo generico e cd. dolo eventuale).

La fattispecie prevista dall'art. 224, l. fall.

Ulteriore norma della Legge Fallimentare che fa riferimento all'aggravamento del dissesto è l'art. 224 l. fall.

Tale fattispecie prevede la punibilità degli amministratori, dei direttori generali, dei sindaci e dei liquidatori di società dichiarate fallite, che hanno commesso alcuno dei fatti preveduti dall'art. 217 l. fall. e/o hanno concorso a cagionare od aggravare il dissesto della società con inosservanza degli obblighi ad essi imposti dalla legge.

In sostanza, tale ipotesi delittuosa è volta ad estendere l'applicabilità delle pene previste per la bancarotta semplice anche a soggetti diversi dal fallito, ma ad esso equiparabili in ragione del ruolo ricoperto nell'ambito della realtà sociale di riferimento.

La “bancarotta semplice impropria”, così rubricata nel R.D. 267 del 1942, contempla, tra le condotte incriminate, tutte quelle previste dalla bancarotta semplice ossia: l'aver fatto spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla sua condizione economica; l'aver consumato una notevole parte del patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti; l'aver compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento; l'aver aggravato il dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione di fallimento o con altra grave colpa; il non aver soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare; l'aver tenuto i libri e le scritture contabili in modo irregolare nei tre anni precedenti al fallimento. Infine prevede come ipotesi criminosa l'aver concorso a cagionare ed aggravare il dissesto con inosservanza degli obblighi ad essi imposti dalla legge.

Tale disposizione di chiusura è volta a rendere ugualmente perseguibili quelle condotte che, pur non integrando alcuna delle ipotesi specifiche previste dall'art. 217 l. fall., sono ugualmente rimproverabili poiché hanno comportato, cagionato o aggravato la situazione di dissesto della società.

Riferimenti

Normativi

  • art. 5 l. fall.
  • art. 217, comma 1, n. 4, l. fall.
  • art. 223, comma 2, n. 1 e 2 l. fall.
  • art. 224 l. fall.

Giurisprudenza

  • Cass. Pen.- Sez. V, 9 giugno 2015, n. 35708, sent.
  • Cass. Pen.- Sez. V, 15 luglio 2015 n. 38077, sent.
  • Cass. Pen.- Sez. V, 12 marzo 2014, n. 15712, sent.
  • Cass. Pen.- Sez. V, 5 dicembre 2014, n. 15613, sent.
  • Cass. Pen.- Sez. V, 28 marzo 2003, n. 19806, sent.
  • Cass. Pen.- Sez. V, 16 giugno 2015, n. 33774, sent.
  • Cass. Pen.- Sez. V, 26 maggio 2005, n. 154, sent.

Bibliografia

  • P. Pajardi, Codice del fallimento, a cura di M. Bocchiola - A. Paluchowski, Milano, 2009;
  • U. Giuliani – Balestrino, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano, 1999;
  • R. Brichetti – L. Pistorelli, La bancarotta e gli altri reati fallimentari – dottrina e giurisprudenza a confronto, Milano, 2011;
  • L. Conti, Diritto Penale Commerciale – I Reati Fallimentari, Torino, 1991;
  • F. Antolisei, Manuale di diritto penale – I reati fallimentari, tributari, ambientali e dell'urbanistica, Milano, 1995;
  • C. Pedrazzi, Reati Fallimentari, in AA.VV., Manuale di diritto penale dell'impresa, Bologna, 2000.
Sommario