Messa alla prova e Riforma Cartabia: questioni risolte e ancora aperte
17 Maggio 2023
La messa alla prova nella c.d. riforma Cartabia
Sin dalla sua introduzione nel nostro ordinamento, ad opera della l. 28 aprile 2014, n. 67, Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, pubblicata sulla G.U. n. 100 del 2 maggio 2014, la sospensione del procedimento con messa alla prova per adulti ha dato adito a numerosi dubbi interpretativi, ricollegati, in parte, alla sua natura composita di causa di estinzione del reato e di procedimento speciale, in parte, al mancato raccordo con il contesto processualpenalistico in cui è stata inserita. Prima le buone prassi, con il fiorire di linee guida e protocolli, poi, la giurisprudenza, dai giudici di merito alla Corte costituzionale, hanno via, via riempito le lacune normative emerse dall'applicazione concreta dell'istituto, che ha comunque conosciuto un significativo successo. La legge delega 27 settembre 2021, n. 134, e il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che costituiscono la c.d. “Riforma Cartabia” del processo penale, rappresentano il primo intervento legislativo ad ambizione sistematica che abbia interessato la messa alla prova. La riforma ne ha ampliato l'ambito d'applicazione arricchendo significativamente il catalogo dei reati contenuto nell'art. 550, comma 2, c.p.p., cui rinvia, appunto, l'art. 168-bis c.p. per individuare le fattispecie che possono essere definite con richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova (com'è noto, gli altri due criteri d'individuazione sono la previsione della sola pena edittale pecuniaria e la previsione della pena edittale detentiva “non superiore nel massimo ad anni quattro, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria”). Questo ampliamento ha consentito di superare la questione di costituzionalità dell'art. 5, comma 8-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) nella parte in cui prevede il medesimo trattamento sanzionatorio sia per il delitto di utilizzo di documenti contraffatti o alterati, sia per quelli di contraffazione o alterazione di documenti descritti nella stessa norma, e non invece trattamenti sanzionatori differenziati, non prevedendo in particolare che la pena edittale per il delitto di utilizzo di documenti contraffatti o alterati sia determinata riducendo di un terzo la pena prevista per le condotte di contraffazione o alterazione dei documenti medesimi, analogamente a quanto disposto dall'art. 489 c.p. Come evidenziato dalla Corte costituzionale [Corte cost., ord., 22 marzo 2023, n. 72], l'inserimento del delitto di cui all'art. 5, comma 8-bis, t.u. immigrazione nel novero di quelli per i quali si procede a citazione diretta comporta che la richiesta dell'imputato di sospensione del procedimento con messa alla prova non è più preclusa dalla previsione del massimo edittale di sei anni di reclusione stabilito dall'art. 5, comma 8-bis, t.u. immigrazione, risultando consentita dal generale richiamo compiuto dall'art. 168-bis c.p. all'art. 550, comma 2, c.p.p., come modificato dal d.lgs. n. 150 del 2022. Per incentivare il ricorso alla messa alla prova per adulti, è stata, altresì, inserita la possibilità che sia proposta direttamente dal pubblico ministero con l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, non più fornendo all'indagato il semplice avviso di potervi ricorrere (come era già previsto dall'art. 141-bis disp.att. c.p.p., oggi arricchito dal comma 1-bis), ma formulando una bozza di programma di trattamento, di concerto, ove necessario con l'Ufficio per l'esecuzione penale esterna (art. 464-ter.1 c.p.p.). Infine, il Legislatore ha, finalmente, inserito, nell'ambito dei contenuti del programma di trattamento, la menzione espressa ai “programmi di giustizia riparativa” - accanto alla già prevista “mediazione con la persona offesa”, che, com'è noto, ne costituisce una specificazione – così fornendo un espresso rinvio alla disciplina organica della giustizia riparativa di cui al Titolo IV del d.lgs. n. 150/2022. Il presente lavoro non si soffermerà sulle modifiche appena riepilogate, per le quali si rinvia alle Relazioni fornite dall'Ufficio Massimario della Cassazione, nonché ai già numerosi commenti specialistici, bensì sulle nuove norme intervenute sui rapporti tra la messa alla prova e il rito ordinario e gli altri riti speciali contestualizzandole nel quadro giurisprudenziale più aggiornato. La citazione diretta a giudizio e la messa alla prova
Il decreto di citazione diretta a giudizio, a seguito della Riforma Cartabia, deve contenere, oltre all'avviso della facoltà di accedere al giudizio abbreviato e all'applicazione della pena su richiesta, anche quello relativo alla messa alla prova (art. 552, comma 1, lett. f), c.p.p.). E' nuovo anche il termine per presentare le richieste di riti alternativi, perché è oggi calibrato sulla neo-introdotta “udienza di comparizione predibattimentale a seguito di citazione diretta” di cui all'art. 554-bis c.p.p.: ai sensi dell'art. 554-ter c.p.p., l'istanza di giudizio abbreviato, di applicazione pena, di sospensione del processo con messa alla prova e di oblazione devono essere proposte, a pena di decadenza, “prima della pronuncia della sentenza di cui al comma 1”, ossia della sentenza di non luogo a procedere che il Giudice di questa udienza-filtro pronuncia per le ipotesi di proscioglimento. In giurisprudenza, la mancanza di specifico avviso nel decreto di citazione diretta a giudizio era stata già esaminata sia per i profili di eventuale incostituzionalità, sia per i profili di nullità del decreto. Quanto al piano della legittimità costituzionale, occorre rammentare la decisione 201 del 21 luglio 2016 con cui la Consulta ha dichiarato l'incostituzionalità del decreto penale di condanna manchevole dell'avviso della facoltà di richiedere con l'opposizione la sospensione del procedimento con messa alla prova, oltre agli altri riti premiali (art. 460, comma 1, lett. e), c.p.p.). La Corte costituzionale sottolinea che, nel procedimento per decreto penale di condanna, il termine entro il quale chiedere la messa alla prova, al pari degli altri riti speciali, è anticipato rispetto al giudizio, corrispondendo a quello per proporre opposizione, quindi, la mancata previsione, tra i requisiti del decreto, dell'avviso della facoltà dell'imputato di chiedere la messa alla prova comporta una lesione del diritto di difesa e la violazione dell'art. 24, secondo comma, Cost. perché tale omissione può determinare un pregiudizio irreparabile, laddove l'imputato, nel fare opposizione al decreto, non essendo stato avvisato, formuli la richiesta in questione solo nel corso dell'udienza dibattimentale, e quindi tardivamente [Corte cost., 21 luglio 2016, n. 201]. Si noti che per l'integrazione della lett. e) dell'art. 460 c.p.p. si deve continuare a far riferimento alla sentenza additiva, avendo il Legislatore della riforma omesso di intervenire sul punto. Il Tribunale di Spoleto e il Tribunale di Pistoia avevano sollevato la medesima questione di costituzionalità con riferimento all'art. 552 c.p.p., nella formulazione precedente alla riforma, ma la Corte costituzionale si era pronunciata in rito, senza esaminare la compatibilità della norma con il diritto di difesa [Corte cost., 18 gennaio 2018, n. 7]. Stessa sorte aveva avuto la questione di legittimità costituzionale successivamente sollevata negli stessi termini dal Tribunale di Bari respinta dalla Consulta con decisione in rito perché «l'insufficiente descrizione della fattispecie processuale, e in particolare dello stato in cui si trovava il giudizio, impedisce il necessario controllo in punto di rilevanza e rende le questioni manifestamente inammissibili» [Corte cost., 20 febbraio 2019, n. 71, che ha, anche, dichiarato manifestamente inammissibile la questione di costituzionalità dell'art. 456 c.p.p. sollevata dal Tribunale di Bergamo, per mancanza dell'avviso di messa alla prova nel decreto di giudizio immediato, senza però descrivere la fattispecie processuale esaustivamente e comunque riguardando il caso concreto anche un reato per cui non sarebbe stata applicabile la sospensione del procedimento ai sensi dell'art. 168-bis c.p.]. Più di recente, il dubbio di costituzionalità era stato ritenuto infondato dalla Corte di cassazione: ricostruendo sul piano storico e sistematico l'origine degli avvisi contenuti nell'art. 552 c.p.p., originariamente introdotti a tutela del diritto di difesa perché l'imputato poteva richiedere i riti alternativi nel termine di quindici giorni dalla notifica del decreto di citazione diretta a giudizio, la Corte aveva evidenziato che, dopo la modifica che ha consentito di formulare le richieste di abbreviato e patteggiamento fino all'udienza, la previsione degli avvisi ha conservato carattere meramente informativo. Questa sostanziale differenza, quindi, rispetto al decreto penale di condanna (dove ancora è previsto, come ricordato, un termine di decadenza anticipato rispetto all'udienza) non consentiva di estendere la ratio di incostituzionalità rilevata per quest'ultimo al decreto di citazione diretta a giudizio [Cass. pen., sez. III, 23 ottobre 2020, n.35995]. Per la stessa ragione, la Suprema Corte escludeva, altresì, la configurabilità di una nullità del decreto di citazione manchevole dell'avviso sulla messa alla prova: visto che il legislatore, con l'introduzione della messa alla prova nell'ordinamento processuale, non aveva inserito il relativo avviso nell'art. 552 c.p.p., «l'imputato non potrà dolersene e, soprattutto, non potrà invocare la causa di nullità del decreto di cui all'art. 552 c.p.p., comma 2, non suscettibile, quest'ultima, d'interpretazione analogica essendo eccezionali le previsioni di nullità processuale (cfr. art. 177 c.p.p.). Né potrà richiamarsi la previsione di nullità generale di cui all'art. 178 c.p.p., lett. c), poiché la mancata informazione sulla possibilità di richiedere la sospensione del processo con messa alla prova non incide sull'intervento o sull'assistenza dell'imputato» [Cass. pen., sez. III, 23 ottobre 2020, n. 35995; conformi Cass. pen., sez. III, 26 giugno 2018, n. 43635; Cass. pen., Sez. II, 23 dicembre 2016, n. 3864, con nota di De Francesco, D&G 27 gennaio 2017]. Oggi, poiché l'avviso sulla messa alla prova è esplicitamente previsto nella lett. f) dell'art. 552 c.p.p., tali questioni possono considerarsi superate perché opera anche per questo avviso la nullità prevista dal secondo comma dello stesso articolo per la mancanza o insufficienza dell'indicazione di uno dei requisiti del decreto previsti dalle lettere c), d) e) e, appunto, f) del comma precedente. Il raccordo con le nuove contestazioni in dibattimento
L'ambito delle nuove contestazioni in dibattimento e dell'accesso ai riti alternativi ha registrato numerosi interventi della Corte costituzionale, sin dai primi anni di vigenza del nuovo codice di rito, che hanno tracciato un percorso interpretativo in costante evoluzione. Dalle prime decisioni, che ribadivano la preclusione per l'imputato ai procedimenti speciali a seguito di tali sopravvenienze dibattimentali (sentenza n. 593 del 1990, sentenza n. 316 del 1992 e ordinanza n. 107 del 1993, in materia di giudizio abbreviato; sentenza n. 129 del 1993 e ordinanza n. 213 del 1992, in materia di patteggiamento), i Giudici delle leggi hanno, dapprima, ammesso la facoltà di avanzare la richiesta di accesso ai riti alternativi nelle ipotesi di contestazioni "tardive" o "patologiche", ossia quelle relative a fatti o circostanze che già emergevano dagli atti di indagine, e, successivamente, anche nelle ipotesi di contestazioni “fisiologiche”, ossia riguardanti fatti o circostanze emerse per la prima volta in dibattimento. Dovendosi qui limitare alla sospensione del procedimento con messa alla prova, si devono ricordare tre decisioni: la prima è la sentenza n. 141 del 5 luglio 2018, con cui la Consulta ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 517 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva la facoltà di accedere alla messa alla prova in caso di nuova contestazione in dibattimento di una circostanza aggravante; la sentenza della Corte costituzionale n. 14 dell'11 febbraio 2020 ha introdotto la possibilità di accedere alla messa alla prova in caso di modifica dell'originaria imputazione ai sensi dell'art. 516 c.p.p.; infine, con la sentenza costituzionale n. 146 del 14 giugno 2022, è stato nuovamente dichiarato incostituzionale l'art. 517 c.p.p. con riferimento alla contestazione in dibattimento di reati connessi ex art. 12, comma 1, lett. b), c.p.p., introducendo anche in questa ipotesi la possibilità di richiedere la messa alla prova. La riforma Cartabia ha inteso riordinare questo quadro modificando gli artt. 519 e 520 c.p.p. L'art. 519 c.p.p., dedicato ai “Diritti delle parti”, prevede oggi che, in caso di nuove contestazioni, l'imputato possa richiedere, oltre ai già previsti termine a difesa e nuove prove, anche l'accesso al giudizio abbreviato, al patteggiamento e alla sospensione del procedimento con messa alla prova. Si noti che tale apertura si realizza non soltanto per la contestazione di un fatto diverso (art. 516 c.p.p.) o di un reato concorrente o di una circostanza aggravante diversa dalla recidiva (art. 517 c.p.p.), che erano, come riepilogato, già stati interpolati in via pretoria, ma anche nel caso di contestazione di un fatto nuovo che l'imputato abbia acconsentito di trattare nel medesimo processo ai sensi dell'art. 518, comma 2, c.p.p. La richiesta di riti alternativi può essere formulata, a pena di decadenza, fino all'udienza successiva alla concessione del termine a difesa. Le modifiche al successivo art. 520 c.p.p. servono a raccordare la possibilità di accesso ai riti alternativi con la disciplina del processo in assenza come riformulata dalla stessa riforma Cartabia: in breve, le nuove contestazioni ai sensi degli artt. 516 e 517 c.p.p. devono essere inserite nel verbale del dibattimento da notificarsi per estratto all'imputato non presente in aula, nemmeno mediante collegamento a distanza, con l'avviso che entro l'udienza successiva può richiedere il giudizio abbreviato, il patteggiamento, la messa alla prova o l'ammissione di nuove prove. Così tutti i procedimenti speciali sono accomunati oggi nel coordinamento a tutte le ipotesi di nuove contestazioni in dibattimento. Deve segnalarsi, però, che con l'ultima sentenza della Corte costituzionale sulla possibilità di chiedere la messa alla prova nel caso di contestazione di un reato in continuazione, la Consulta aveva ritenuto di precisare che questo rito speciale è caratterizzato da contenuti diversi rispetto al giudizio abbreviato. Per cui, mentre per quest'ultimo, il recupero della possibilità di accesso nel corso del dibattimento deve intendersi come limitato al nuovo reato emerso, a cui soltanto andrà applicato lo sconto di pena [v. Corte cost. n. 237 del 2012], la sospensione del procedimento con messa alla prova «disegna un percorso rieducativo e riparativo, alternativo al processo e alla pena, ma con innegabili connotazioni sanzionatorie (sentenza n. 68 del 2019), che conduce, in caso di esito positivo, all'estinzione del reato» e, proprio in ragione di tale «accentuata vocazione risocializzante», non può ammettersi la «possibilità di una messa alla prova 'parziale', ossia relativa ad alcuni soltanto dei reati contestati (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 12 aprile 2021, n. 24707; Corte di cassazione, sentenza n. 14112 del 2015)», per cui «l'imputato dovrà essere rimesso in condizione di optare per la messa alla prova anche con riferimento alle imputazioni originarie, intraprendendo così quel percorso al quale avrebbe potuto orientarsi sin dall'inizio, ove si fosse confrontato con la totalità dei fatti via via contestatigli dal pubblico ministero» [Corte cost., 27 aprile 2022, n. 146]. Su questo aspetto, la riforma non ha dato indicazioni espresse, ma non sembra che possa considerarsi superata la distinzione indicata dal Giudice delle Leggi. Un significativo intervento di coordinamento tra i riti speciali è quello che ha interessato la disciplina del giudizio immediato. E' stato, infatti, profondamente innovato l'art. 458 c.p.p. sulla richiesta di giudizio abbreviato a seguito di notifica del decreto di giudizio immediato, prevedendosi, innanzitutto, che il giudice fissi “in ogni caso” l'udienza in camera di consiglio “per la valutazione della richiesta” di abbreviato e regolamentando, nel nuovo comma 2-bis, le ipotesi in cui la richiesta di giudizio abbreviato “condizionato” sia rigettata: è ora espressamente previsto che, in questo caso, l'imputato possa richiedere il giudizio abbreviato “semplice”, il patteggiamento o la messa alla prova, con esplicito favor per la definizione del procedimento con un rito speciale. Solo quando nessuna di queste richieste sia stata avanzata, il giudice dovrà rimettere le parti davanti al giudice del dibattimento (comma 2-ter). E' stato, inoltre, introdotto il nuovo art. 458-bis c.p.p. che detta una disciplina non dissimile per il caso della richiesta di applicazione della pena da concordare col P.M. Anche in questa ipotesi è ora esplicita la previsione che il giudice fissi “in ogni caso” l'udienza in camera di consiglio per la decisione e, nel secondo comma, si ammette espressamente che, in caso di dissenso da parte del P.M. oppure di rigetto della richiesta da parte del giudice, l'imputato possa richiedere nella stessa udienza di accedere alla messa alla prova o al giudizio abbreviato (rinviando, per quest'ultimo, al sub-procedimento tracciato dall'art. 458, commi 2 e 2-ter, c.p.p., da cui deve ricavarsi che, anche caso, ove il giudice rigettasse la richiesta di rito abbreviato “condizionato”, sarebbe ancora salva la possibilità di accedere almeno alla messa alla prova). In questo, pur apprezzabile, sforzo ordinatorio, manca un'espressa disciplina di raccordo tra riti speciali nell'ipotesi in cui, alla notifica del decreto di giudizio immediato, faccia seguito la richiesta di messa alla prova. L'ipotesi è, invero, già considerata dall'art. 464-bis c.p.p. il cui comma 2, ultimo periodo, nel caso di notifica del decreto immediato, impone che la richiesta di messa alla prova sia formulata «entro il termine e con le forme stabiliti dall'art. 458, comma 1». Però, il rinvio al solo comma 1 dell'art. 458 c.p.p. si riduce, in realtà, all'indicazione del termine di quindici giorni e del deposito presso la cancelleria del GIP. Si può considerare applicabile anche l'art. 464-quater, comma 1, c.p.p., secondo cui il giudice decide con ordinanza in apposita udienza in camera di consiglio. Nel caso di rigetto della richiesta di messa alla prova, si può, inoltre, ritenere applicabile l'art. 464-quater, c. 9, c.p.p., che ne consente la riproposizione nel giudizio, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, ma nulla si dice sulla possibilità di avanzare, invece, richiesta di giudizio abbreviato o patteggiamento. Tale lacuna, già presente sin dall'introduzione della messa alla prova per adulti nel 2014, non è stata colmata dal Legislatore della riforma nonostante, non solo abbia, invece, disciplinato puntualmente i diversi casi del giudizio abbreviato e della richiesta di pena patteggiata, sopra ricordati, ma abbia, altresì, introdotto un'ulteriore innovazione prevedendo l'espresso riferimento, con l'art. 558-bis c.p.p., all'applicabilità del giudizio immediato nei procedimenti celebrati dinnanzi al Tribunale in composizione monocratica e, quindi, ai reati a citazione diretta a giudizio. In sede di primo commento [Natalini, Udienza-filtro predibattimentale: l'arma per evitare processi inutili, GD n. 43/2022, 58 ss.], si è evidenziato che con tale norma il Legislatore della riforma abbia voluto definitivamente superare la preclusione di origine giurisprudenziale all'utilizzo del giudizio immediato per i reati a citazione diretta. Si riteneva, infatti, che fosse affetto da nullità il decreto di giudizio immediato emesso per reati sottoposti a citazione diretta a giudizio in ragione del vulnus alla difesa costituito dall'omessa notifica dell'avviso di conclusione delle indagini ex art. 415-bis c.p.p. [v. Cass. pen., sez. I, 6 luglio 2016, n. 41930; cfr., da ultimo, Cass. pen., sez. V, 24 aprile 2019, n. 40002]. Ciò potrà creare, quindi, maggiori occasioni di sovrapposizione tra il giudizio immediato e la messa alla prova, applicabile a tutti i reati elencati dall'art. 550, comma 2, c.p.p. Ratificando quanto già sancito dalla Corte costituzionale [Corte cost. 14 febbraio 2020, n. 14], la riforma ha aggiunto al comma 2 dell'art. 456 c.p.p. la menzione della messa alla prova tra gli avvisi che il decreto di giudizio immediato deve fornire all'imputato circa la facoltà di accedere ai riti alternativi. Come accennato al paragrafo precedente, la riforma Cartabia non è intervenuta in ordine ai rapporti tra la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova e l'eventuale possibilità di accedere, in subordine, al rito abbreviato o all'applicazione della pena concordata. Eppure, si tratta di un tema spesso affrontato dagli operatori del diritto e dalla giurisprudenza. Rispetto al patteggiamento, la questione ha trovato univoca soluzione: la Corte di legittimità accorda all'imputato la facoltà di avanzare come subordinata la richiesta di pena concordata, ritenendo, però, che tale opzione difensiva precluda di coltivare come motivo d'impugnazione il rigetto della messa alla prova, da considerare definitivamente rinunciata, visto che «la sentenza di applicazione di pena, per espressa previsione di legge, non è appellabile, ma solo ricorribile per cassazione esclusivamente per i motivi enunciati dall'art. 448 c.p.p., comma 2-bis, e, cioè, per i motivi attinenti all'espressione della volontà dell'imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all'erronea qualificazione giuridica del fatto e all'illegalità della pena o della misura di sicurezza» e costituisce un «un negozio giuridico processuale recettizio» che «postula la rinuncia a far valere qualunque eccezione di nullità, anche assoluta, diversa da quelle attinenti alla richiesta di patteggiamento ed al consenso ad essa prestato, tra cui devono essere annoverate anche le questioni connesse al rigetto dell'istanza di sospensione del processo con richiesta di messa alla prova (Cass. pen. sez. V, n. 2525/2016, Moretti, Rv. 269072 – 01)» [da ultimo ed ex multis, Cass. pen., sez. IV, 17 febbraio 2022, n. 8531]. Sul fronte del rapporto con il giudizio abbreviato, il quadro giurisprudenziale è, invece, più variegato. Un primo orientamento più risalente [Cass. pen., sez. III, 11 aprile 2018, n. 26231; Cass. pen., sez. IV, 12 luglio 2018, n. 40953, e Cass. pen., sez. IV, 3 luglio 2018, n. 42469; Cass. pen, sez. V, 21 dicembre 2017, n. 9398; Cass. pen., sez. II, 5 luglio 2017, n. 36672; Cass. pen., sez. VI, 28 marzo 2017, n. 22545; Cass. pen., sez. III, 19 ottobre 2016, n. 4184] esclude che, una volta celebrato il giudizio di primo grado nelle forme del rito abbreviato, si possa dedurre, in sede di appello, l'ingiustificato diniego della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova originariamente avanzata. Secondo l'opposto orientamento [Cass. pen., sez. IV, 20 febbraio 2019, n. 30983; Cass. pen., sez. VI, 31 ottobre 2019, n. 47109; Cass. pen., sez. IV, 18 settembre 2018, n. 44888; Cass. pen., sez. III, 15 febbraio 2018, n. 29622], invece, la celebrazione del giudizio abbreviato non è preclusiva alla coltivazione in appello dell'illegittimità del rigetto della messa alla prova. Questa seconda soluzione ha ricevuto l'avallo della Corte costituzionale, con la sentenza n. 131 del 3 aprile 2019, laddove è stata considerata “plausibile” la conclusione secondo la quale «la domanda di giudizio abbreviato conseguente al rigetto della richiesta, formulata in via principale, di ammissione alla sospensione del processo con messa alla prova previa riqualificazione del fatto contestato deve necessariamente intendersi come presentata con riserva; e più in particolare con riserva di gravame, in sede di appello, contro il provvedimento di diniego del beneficio già richiesto in via principale, che non può pertanto intendersi come implicitamente rinunciato all'atto della richiesta del rito abbreviato». Le sentenze di legittimità successive [Cass. pen., sez. V, 6 dicembre 2021, n. 4259; Cass. pen., sez. VI, 13 ottobre 2020, n. 30774] hanno, quindi, ribadito l'impugnabilità dell'ordinanza per l'ingiustificato rigetto della messa alla prova emesso dal giudice ai sensi dell'art. 464-bis c.p.p. anche quando si sia proceduto nelle forme del rito abbreviato. La Corte cost. n. 131/2019, da ultimo richiamata, ha, in realtà, esaminato in via principale l'ipotesi correlata, ma diversa, in cui l'imputato abbia richiesto la messa alla prova nei termini di legge proponendo una diversa qualificazione giuridica del fatto contestatogli dal P.M., il giudice abbia rigettato la richiesta, dando seguito alla richiesta subordinata di giudizio abbreviato e infine, all'esito dell'abbreviato, sia emersa la correttezza della riqualificazione proposta dalla difesa. Secondo la Consulta è ben possibile che il giudice ammetta, in esito al giudizio di primo grado, benché celebrato in abbreviato, l'imputato alla messa alla prova allorché «riscontri che il proprio precedente diniego era ingiustificato, sulla base della riqualificazione giuridica del fatto contestato cui lo abilita l'art. 521, comma 1, c.p.p., quando l'imputato abbia dal canto suo richiesto il beneficio entro i termini indicati dall'art. 464-bis, comma 2, c.p.p. Una tale soluzione risponde a ovvie ragioni di economia processuale, e segnatamente al fine di evitare la celebrazione di un giudizio in grado di appello finalizzato esclusivamente a consentire all'imputato di conseguire un risultato che ben potrebbe essergli assicurato dal giudice di primo grado, previa semplice revoca della precedente ordinanza di rigetto della richiesta di sospensione del processo con messa alla prova». Di quest'avviso, già la Corte di cassazione [Cass. pen., sez. IV, 8 maggio 2018, n. 36752] che ha ribadito più di recente tale soluzione [Cass. pen., sez. III, 21 febbraio 2023, n. 14970; Cass. pen., sez. II, 4 febbraio 2022, n. 5837], con la precisazione che, però, il riconoscimento della diversa qualificazione giuridica del fatto in dibattimento non legittima l'imputato a proporre tardivamente la richiesta di messa alla prova, che deve quindi chiederla nei termini sollevando contestualmente la questione relativa alla riqualificazione [Cass. pen., sez. III, 16 febbraio 2023, n.15240; cfr. Cass. pen., sez. VI, 8 aprile 2021, n. 19673; Cass. pen., sez. II, 15 settembre 2020, n. 780]. Un ragionamento diverso deve essere compiuto, invece, laddove non si discuta di rigetto della richiesta di messa alla prova, ma di sua revoca. La differenza sta nel fatto che l'ordinanza di rigetto della richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova non è immediatamente impugnabile, ma solo appellabile con la sentenza di primo grado, ai sensi dell'art. 586 c.p.p., come chiarito dalle Sezioni Unite penali [Cass. pen., sez. un., 31 marzo 2016, n. 33216], mentre, in caso di revoca, è prevista l'impugnazione ad hoc di cui all'art. 464-octies, comma 3, c.p.p., che comporta la sospensione del procedimento principale fino alla sua definizione ai sensi dell'art. 464-octies comma 4c.p.p.. Ebbene, in caso di revoca, con la richiesta di voler procedere con rito abbreviato, l'imputato manifesta espressamente il proprio disinteresse ad impugnare il provvedimento di revoca di sospensione del procedimento ai sensi dell'art. 464-octies comma 3c.p.p., optando per la definizione nel merito del giudizio e abbandonando l'intento di proseguire il procedimento di messa alla prova [Cass. pen., sez. VI, 10 febbraio 2021, n. 13747; cfr. Cass. pen., sez. V, 13 dicembre 2022, n. 10959]. Altre questioni applicative affrontate dalla recente giurisprudenza
Il ruolo di supplenza da parte della giurisprudenza è emerso, di recente, in tutta la sua difficoltosa utilità in riferimento a tre questioni applicative. La prima questione è quella riguardante l'applicabilità della sospensione con messa alla prova al procedimento per fatti connessi ai sensi dell'art. 12, comma 1, lett. b), c.p.p., ossia in concorso formale o in continuazione, con quelli già giudicati in precedenza e già definiti con lo stesso procedimento speciale. L'evenienza che fatti riconducibili al medesimo reato continuato siano trattati in procedimenti penali distinti e separati è fin troppo nota nella prassi per non cogliere immediatamente l'importanza di trovare una soluzione chiara e netta. La Corte costituzionale ha fornito la risposta dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 168-bis comma 4 c.p. nella parte in cui, disponendo che la messa alla prova non debba essere concessa "più di una volta", non consente all'imputato che ne abbia già beneficiato di richiederla per gli ulteriori fatti connessi ai sensi dell'art. 12, comma 1, lett. b), c.p.p., ossia in concorso formale o in continuazione [Corte cost., 23 giugno 2022, n. 174]. Con apprezzabile pragmatismo, la Consulta ha arricchito la sentenza additiva d'incostituzionalità con un'indicazione applicativa finale che valga da guida per il giudicante invitandolo, nella fissazione della durata aggiuntiva di messa alla prova, a valorizzare «opportunamente il percorso già compiuto, alla luce dell'esigenza – sottesa al sistema – di apprestare una risposta sanzionatoria sostanzialmente unitaria rispetto a tutti i reati». La chiosa, che è parsa alla più attenta dottrina "stonata" laddove invoca «parametri sanzionatori che espongono l'istituto a inutili tensioni con l'art. 27, comma 2 Cost.» [Bonini, Ammissibile la messa alla prova per reati in continuazione con altri per i quali sia già stato disposto il probation in procedimento connesso, in Processopenaleegiustizia, 1/2023, 183], segnala quanto sia difficoltoso lo sforzo di apprestare soluzioni pratiche per colmare i silenzi normativi. Il pronunciamento è stato recepito dalla Corte di legittimità sia con riferimento al reato continuato [Cass. pen., sez. III, 21 ottobre 2022, n. 2856], sia con riferimento ai reati a consumazione prolungata ritenendo che le rationes che la Corte costituzionale ha affermato «per una pluralità di reati avvinti per continuazione» debbano "a maggior ragione" trovare applicazione «qualora il reato commesso sia uno soltanto, benché a consumazione prolungata, come nel caso della reiterata violazione degli obblighi di assistenza familiare» [Cass. pen., sez. VI, 18 gennaio 2023, n. 9064]. La seconda questione riguarda la possibilità per il Procuratore generale presso la Corte d'appello di impugnare l'ordinanza ammissiva della messa alla prova con il rimedio previsto dal comma 7 dell'art. 464-quater c.p.p. Sul punto si è registrata la contrapposizione tra le sezioni semplici della Cassazione che può essere riepilogata in tre passaggi fondamentali. Nella prima decisione [Cass. pen., sez. I, 15 aprile 2019, n. 41629, Lorini], il potere di impugnazione del P.G. è stato argomentato a partire dal dato letterale per cui la dizione “pubblico ministero” adottata dall'art. 464-quater, comma 7, c.p.p. sia da riferirsi in via concorrente al pubblico ministero del circondario e anche al procuratore generale presso la Corte d'appello in applicazione della clausola di cui art. 570 c.p.p., la cui applicazione generalizzata è stata già chiarita dalle Sezioni Unite [Cass. pen., sez. un., 31 maggio 2005, n. 22531, Campagna, e Cass. pen., sez. un., 28 maggio 2009, n. 31011, Colangelo]. La limitazione al potere di impugnazione del Procuratore generale di cui all'art. 593-bis c.p.p., con relativa modifica anche dell'art. 570, comma 1, ultimo periodo, c.p.p., rispettivamente introdotto e interpolato dal d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, è, infatti, da riferirsi esclusivamente all'appello. La Prima sezione radica il potere di surroga del P.G. nel complesso normativo costituito dagli artt. 548, comma 3, 585, comma 2, lett. d), e 608, comma 4, c.p.p., ove sono precisate le modalità di esercizio di tale potere disciplinando gli adempimenti necessari a portare a conoscenza dell'ufficio i provvedimenti delle altre circoscrizioni del distretto. I casi in cui è esclusa la legittimazione ad impugnare del P.G. riguardano procedimenti incidentali di natura autonoma, tra i quali non può essere ricondotta la sospensione del procedimento con messa alla prova perché è idonea solo in via eventuale a dare vita ad uno sviluppo procedimentale alternativo rispetto a quello principale di cognizione, essendo sempre possibile che venga revocata, con la ripresa dell'ordinario corso del procedimento. Seguono le successive due sentenze che ribadiscono la legittimazione del P.G. rinviando in toto alle argomentazioni della precedente [Cass. pen., sez. V, 6 novembre 2020, n. 7231, Hoelzl; Cass. pen., sez. II, 8 gennaio 2021, n. 7477, Sperindeo]. Il secondo passaggio è costituito dalla decisione della Sesta sezione che, in contrasto con quelle appena richiamate, nega la legittimazione attiva del P.G. [Cass. pen., sez. VI, 9 aprile 2021, n. 18317, Stompanato]. Dalla ricostruzione del sistema dei rimedi avverso l'ordinanza che decide sull'istanza di messa alla prova e avverso la successiva sentenza di estinzione, come delineato anche grazie alla sentenza a sezioni unite “Rigacci” cit., si ricava, innanzitutto, la finalità di ridurre il più possibile i casi di regressione del procedimento e di garantire il massimo favore alla sospensione con messa alla prova, che si configura come un vero e proprio procedimento incidentale autonomo. Secondo la Sesta sezione, l'ordinamento «non concede al procuratore generale un ampio e indeterminato potere che gli consenta di proporre impugnazione in ogni e qualsiasi ipotesi poiché anche nei suoi riguardi deve trovare applicazione la norma cardine dell'intero sistema costituita dall'art. 568 c.p.p., che sancisce il principio fondamentale di tassatività delle impugnazioni, nel quadro di quello tradizionale della competenza del pubblico ministero 'derivata' da quello del giudice presso il quale è costituito ovvero presso il giudice di merito a livello superiore e che assume un valore tendenziale in assenza di specifiche diverse disposizioni». Anche la clausola “casi stabiliti dalla legge” contenuta nell'art. 570 c.p.p. sarebbe indicativa della possibilità di una deroga al regime di impugnazione regolare con esclusione della legittimazione del P.G. Come avviene per i provvedimenti del tribunale della libertà o del giudice dell'esecuzione. L'ipotesi dell'ordinanza ammissiva della sospensione con messa alla prova è sottoposta a un regime disgiunto rispetto all'impugnazione delle ordinanze ai sensi dell'art. 586 c.p.p. nell'ottima di limitare il più possibile regressioni del procedimento. Per cui, «esclusa la natura 'derivata' da quella del giudice del potere di impugnazione del procuratore generale della Corte di appello, sono la natura autonoma del procedimento incidentale e il descritto sistema di impugnazione che escludono, altresì, il fondamento del potere di impugnazione del procuratore generale della corte di appello quale organo costituito presso il giudice di merito di livello superiore». Infine, il terzo passaggio è costituito dal pronunciamento della Prima sezione [Cass. pen., sez. I, 27 ottobre 2021, n. 43293, Ongaro] che, riprendendo i passaggi motivazionali del proprio precedente del 2019, replica alla sentenza “Stompanato” con due obiezioni principali. Innanzitutto il principio di tassatività delle impugnazioni non è leso riconoscendo la legittimazione attiva del P.G. presso la corte d'appello. Infatti «il pubblico ministero, nella sua articolazione in procuratore della Repubblica e procuratore generale, può impugnare solo quando la legge prevede che possa farlo, individuando l'atto passibile di controllo, il mezzo di impugnazione e, eventualmente, il soggetto che, nell'ambito categoriale ampio ma non ambiguo di pubblico ministero, può esercitare il potere di impugnazione». Ne consegue che «se la legge non distingue e non seleziona per il profilo soggettivo uno specifico ufficio del pubblico ministero, il riferimento al pubblico ministero come titolare del potere di impugnazione non può che significare la legittimazione anche del procuratore generale». Richiamando la decisione a Sezioni unite "Campagna" cit., viene poi precisato che, con tale arresto, deve considerarsi definitivamente superato il principio della competenza "derivata" dal giudice che ha emesso il provvedimento; inoltre, la rilevata incidentalità del procedimento di sospensione con messa alla prova non giustifica una limitazione al potere di impugnazione del Procuratore generale perché, per quanto autonomo dal principale, è comunque procedimento ad esso collegato dovendo i suoi esiti refluirvi sia che l'esito della prova sia stato positivo, sia che sia stato negativo. Per di più, anche nel procedimento cautelare, sicuramente incidentale, il legislatore, per escludere il potere di impugnazione del Procuratore generale, ha fatto ricorso a una clausola espressa (che non sarebbe stata necessaria se la natura autonoma costituisse già elemento di limitazione dei soggetti legittimati all'impugnativa). Su tale contrasto, sono intervenute le Sezioni Unite con la decisione del 27 ottobre 2022 (dep. 6 aprile 2023), n. 14840, e, accogliendo l'orientamento maggioritario, hanno affermato la possibilità per il Procuratore generale di impugnare la sentenza di estinzione del reato, pronunciata ai sensi dell'art. 464-septies c.p.p. e, nel caso di mancata comunicazione dell'ordinanza di ammissione alla prova, di impugnare tale ordinanza, in uno alla sentenza di estinzione del reato. La decisione del massimo consesso risolve il conflitto giurisprudenziale con argomentazioni condivisibili. Non si può, però, non rilevare che questo intervento di supplenza pretoria lascia aperti alcuni dubbi applicativi che spetterebbe al legislatore di risolvere. Consentire, infatti, al P.G. presso la Corte di appello di ricorrere per cassazione avverso l'ordinanza ammissiva della messa alla prova anche quando gli sia comunicata tardivamente, insieme alla sentenza di estinzione del reato per esito positivo del probation, comporta che tale annullamento intervenga dopo che l'imputato ha già integralmente eseguito il programma di trattamento. Vero è che, come già emerso in giurisprudenza, «l'esperimento trattamentale in cui si risolve la messa alla prova di un imputato ben può iniziare ed eventualmente interrompersi mentre il soggetto stia adempiendo alle prescrizioni, o addirittura abbia completato il percorso di probation, anche quando l'ordinanza ex art. 464-quater c.p.p. venga annullata per effetto di un ricorso immediatamente proposto, vuoi da parte del Procuratore della Repubblica vuoi su iniziativa del Procuratore generale (cui la decisione sia stata formalmente comunicata). Ciò in quanto, per espressa previsione normativa, l''impugnazione non sospende il procedimento': locuzione che il comma 7 del citato art. 464-quater utilizza per riferirsi - ovviamente, dato che il procedimento penale deve intendersi già sospeso in caso di ammissione del rito speciale - al sub-procedimento incardinatosi con l'istanza di messa alla prova. Ergo, l'evenienza che l'interessato si attivi in esecuzione del programma predisposto, compiendo pure attività riparatorie, ma poi veda ritornare il giudizio nei binari dello svolgimento ordinario, è già immanente alle peculiarità dell'istituto» [Cass. pen., sez. V, 6 novembre 2020, n. 7231, Hoelzl]. Ma l'imputato che si attiva nell'esecuzione del programma nonostante la pendenza del ricorso per cassazione avverso l'ammissione alla messa alla prova, proposto tempestivamente dal P.G., è in grado di compiere in tale senso una scelta consapevole, rispettosa dell'ineludibile crisma di volontarietà che connota l'istituto. Diversamente, nell'ipotesi di impugnazione tardiva contestuale alla sentenza di estinzione del reato, l'interessato potrebbe aver dato inizio al trattamento facendo incolpevole affidamento sulla legittimità dell'ammissione a suo tempo non impugnata. La stessa giurisprudenza ha, per altro verso, sottolineato come non sia ostativa la già intervenuta dichiarazione di estinzione del reato visto che «casistica giudiziaria suggerisce svariati casi in cui una pronuncia dichiarativa dell'estinzione di un reato può essere senza dubbio annullata per difetto dei presupposti che l'avevano occasionata (si pensi ad una remissione di querela invalida, o formalizzata in relazione ad una fattispecie criminosa da ritenere, al contrario, procedibile ex officio)» [Cass. pen., sez. V, 6 novembre 2020, n. 7231, Hoelzl]. Anche in questo caso, però, si tratta di fattispecie tutt'affatto diversa che non risolve la questione di come considerare il comportamento fattivo dell'imputato da cui l'estinzione del reato è derivata. Non si può non considerare, infatti, che il Legislatore che ha introdotto nel 2014 la messa alla prova ha inteso valorizzare l'esecuzione del programma di trattamento anche nei casi di revoca o di esito negativo indicando, all'art. 657-bis c.p.p., un espresso criterio di ragguaglio tra la pena da scontare, in ipotesi di condanna, e la prova eseguita. Non è scontato che tale norma, testualmente riferibile alla revoca e all'esito negativo, possa applicarsi anche nel caso di annullamento (fisiologico) o tardivo dell'ordinanza ammissiva perché in tale situazione, evidentemente, la messa alla prova sarebbe da considerarsi ab origine illegittima. L'unico accorgimento, squisitamente pratico, ipotizzabile de jure condito, è che la difesa abbia cura di verificare, a seguito dell'accoglimento dell'istanza di messa alla prova, che la relativa ordinanza venga correttamente comunicata anche al P.G. e, quindi, decorra il termine per l'impugnazione anche da parte di questo soggetto processuale. Nella stessa occasione, le Sezioni Unite penali sono state, altresì, investite di altra questione – la terza che si intende richiamare nella presente trattazione – riguardante la possibilità per le persone giuridiche, sottoposte a procedimento per illecito dipendente da reato, ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, di far ricorso alla sospensione del procedimento con messa alla prova. Il dubbio origina, anche in questa ipotesi, dal fatto che il d.lgs. n. 231/2001, sulla responsabilità da reato degli enti, non conosceva ancora la messa alla prova per imputati adulti e, ovviamente, non vi fa cenno alcuno e, per parte sua, la l. 28 aprile 2014 n. 67, che ha, successivamente, introdotto tale strumento, non si è occupata di fornire un qualche raccordo tra le due discipline. Le risposte della giurisprudenza di merito (la questione non era mai giunta prima in sede di legittimità) sono state variegate: sia l'orientamento contrario [Trib. Milano, 27 marzo 2017; GIP Bologna 10 dicembre 2020; Trib. Spoleto 21 aprile 2021] che quello favorevole all'estensione della messa alla prova agli enti [GIP Modena 21 settembre 2020, preceduta dall'ordinanza ammissiva GIP Modena 11 dicembre 2019, entrambe consultabili in CP 2021, 2540, con nota di Bartoli; Trib. Bari, 22 giugno 2022, in GI 2022, 2506, con nota di Piccoli] hanno speso argomentazioni tra loro variegate, pur quando orientate alla stessa soluzione finale, a dimostrazione che l'importanza pratica della questione è valsa da stimolo al massimo sforzo ermeneutico. Per la compiuta disamina di tali decisioni, sia consentito rinviare al commento già pubblicato su questa Rivista a corredo della sentenza delle Sezioni Unite [Santoriello, Niente messa alla prova per le società, IUS Penale (ius.giuffrefl.it), 14 aprile 2023], limitandosi qui a ricordare che la soluzione da queste adottata esclude che l'istituto della messa alla prova possa essere applicato agli enti in relazione alla responsabilità da reato. Il primo argomento speso dalla Cassazione a sezioni riunite è sostanziale. Richiama, da una parte, la natura della responsabilità amministrativa degli enti come tertium genus, ove si coniugano i tratti dell'ordinamento penale e di quello amministrativo, secondo l'interpretazione fatta propria dal precedente a Sezioni Unite [Cass. pen., sez. un., 24 aprile 2011, n. 38343], e, dall'altra, sottolinea come, dall'excursus delle sentenze di legittimità e costituzionali sulla messa alla prova, si tragga la conferma della sua “portata sanzionatoria” [Cass. pen., sez. un., 31 marzo 2016, n. 36272; Corte cost. n. 240/2015; Corte cost. n. 91/2018; Corte cost., n. 68/2019; Corte cost., n. 146/2022; Corte cost., n. 174/2022]. «Se, dunque, la responsabilità amministrativa da reato riguardante gli enti rientra in un genus diverso da quello penale (tertium genus) e la messa alla prova deve ricondursi a un 'trattamento sanzionatorio' penale, sulla base degli indici elencati, deve ritenersi, in conformità alle conclusioni rassegnate dal procuratore generale in sede, che l'istituto della messa alla prova non può essere applicato agli enti, a ciò ostando, innanzitutto, il principio della riserva di legge di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione» [Cass. pen., sez. un., 24 aprile 2011, n. 38343]. Si accoglie, quindi, la conclusione secondo cui la sanzione da applicare a una fattispecie non può essere rinvenuta attraverso l'interpretazione analogica come corollario del principio di legalità e tale divieto opera, a maggior ragione, in un sistema che non è assimilabile a quello penale e che riguarda gli enti, ossia soggetti che non possono essere destinatari di precetti penali. «Dunque, non è consentito ricorrere all'analogia in bonam partem – che, anche ove ritenuta consentita, in certi ambiti, in materia penale – non potrebbe comunque riguardare il caso in esame tenuto conto del fatto che non vengono in questione sistemi omogenei» [Cass. pen., sez. un., 24 aprile 2011, n. 38343]. Ad abundantiam, le Sezioni Unite fanno propria anche la considerazione per cui non è possibile estendere la disciplina della messa alla prova agli enti perché «modulata specificamente sull'imputato persona fisica e sui reati allo stesso astrattamente riferibili». Ciò si ricaverebbe, innanzitutto, dal riferimento all'affidamento dell'imputato al servizio sociale, da quello al lavoro di pubblica utilità, dalle condizioni per l'accesso, implicanti il coinvolgimento dell'imputato nel processo di reinserimento sociale, prescrizioni comportamentali e altri impegni specifici, dal parametro per la valutazione giudiziale ancorato agli indici dell'art. 133 c.p., non traslabili su un soggetto privo di sostrato psicofisico. In questo senso, l'esecuzione di questi impegni da parte dell'ente, per tramite dei suoi rappresentanti, investiti per il rapporto di immedesimazione organica, farebbe ricadere su questi ultimi le colpe della persona giuridica, in contrasto con le finalità del “sistema 231”. Le ultime notazioni sono di tipo sistematico laddove richiamano, da un lato, la norma dell'art. 168-ter c.p. che fa salva l'applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, in caso di esito positivo della messa alla prova, e, dall'altro, l'art. 67 d.lgs. n. 231/2001, ove manca la previsione di una causa estintiva dell'illecito che possa applicarsi all'esito del probation che dovrebbe essere creata ex novo. Invero, sulla conciliabilità tra d.lgs. n. 231/2001 e messa alla prova, la dottrina specialistica sottolinea che «la probation valorizzerebbe, quindi, l'adozione di un adeguato modello post factum, tranquillizzerebbe l'ente sugli effetti della riorganizzazione e più in generale della riparazione, e consentirebbe in conclusione di correggere il d.lgs. n. 231 del 2001 nell'ottica di promuovere ancora di più e meglio quella cultura della legalità d'impresa per la quale la normativa fu introdotta» [Ruggiero, Il futuro della responsabilità degli enti e la valorizzazione del modello post factum mediante un nuovo rito speciale, in CP 2019, 3391]. Per altro verso, la necessità di un “sostrato psicofisico” per l'esecuzione del programma di trattamento è respinta da chi ha rilevato che «nulla esclude, tuttavia, che la prestazione di un'azienda possa essere concepita anche dal lavoro svolto dalle sue maestranze che si adoperino per eseguire lavorazioni o produrre beni destinati a enti benefici o a enti pubblici (appunto un progetto), seppure le ore di lavoro vengano retribuite dall'ente collettivo di appartenenza, come quella prestazione che garantisca alla prescrizione negoziata quel carattere di afflittività richiesto dalla legge. Costo che si evidenzia nel bilancio che distribuirà meno utili proprio al ceto societario che non ha elaborato in maniera esauriente e adeguata il modello organizzativo interno» [Troncone, La messa alla prova dell'ente collettivo e delle società. Gli effetti non previsti di un diritto sanzionatorio criptico, Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2021, 836 ss.]. Più convincente, invece, l'argomentazione che fa leva sull'assenza di un raccordo sistematico tra l'esito estintivo della reato, prodotto dalla messa alla prova, e una corrispettiva ipotesi estintiva per l'illecito amministrativo dell'ente, allo stato non prevista: «proprio perché la messa alla prova è suscettibile di determinare l'estinzione del reato, così derogando in via eccezionale alla regola generale in virtù della quale alla commissione di un reato consegue sempre la sanzione, effetti analoghi non possono prodursi sull'illecito punitivo dell'ente in assenza di una espressa previsione normativa» [Mazzacuva, Interpretazione pionieristica o creativa? Brevi note a margine della recente ordinanza del Tribunale di Bari in materia di estensione della messa alla prova all'ente incolpato, in CP 2022, 3639]. Anche per quanto attiene alla questione in esame, sembra emergere in maniera netta il disagio della giurisprudenza di approntare soluzioni alle esigenze applicative quotidiane senza travalicare i limiti della consentita ermeneutica con congegni creativi che spetterebbero al Legislatore, troppo a lungo inerte. In conclusione
In definitiva, rispetto alla sospensione del procedimento con messa alla prova per gli imputati adulti, la novella del 2022 sembra aver apportato modifiche utili. Tuttavia, rimane, su tanti aspetti cruciali, l'impressione di un'occasione mancata. Il confronto tra gli interventi compiuti e le questioni lasciate aperte rende ancora più evidente la logica spiccatamente deflattiva che ha guidato il Legislatore, per come emerge, ad esempio, dalla ricordata disciplina di coordinamento tra il giudizio immediato e gli altri riti alternativi. Le esaminate soluzioni giurisprudenziali, fornite per colmare i vuoti normativi, rimangono parziali perché, pur costituendo punti di riferimento di apprezzabile portata uniformatrice, non possono spingersi fino a disciplinare quegli snodi in cui l'apposizione di una regola implica un disegno più ampio di politica criminale. Riferimenti
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