Lecito condannare il titolare dell’account di Facebook per non aver bloccato commenti razzisti
18 Maggio 2023
È quanto deciso dalla Grand Chamber Sanchez c. Francia (ric.45581/15) del 16 maggio. La vicenda Il politico con il post pubblicato sul suo profilo pubblico Facebook, lasciando la possibilità a terzi di inserire propri commenti, aveva permesso ad estranei di veicolare un offensivo sillogismo tra la comunità islamica di Nimes e la delinquenza, lo spaccio di droga, la prostituzione, etc. La compagna dello sfidante, magrebina, si era sentita profondamente offesa da questi commenti razzisti ed era andata da uno degli imputati, suo parrucchiere, a chiedere spiegazioni: l'uomo, ignorando la natura pubblica del profilo e della bacheca dei commenti, l'ha prontamente rimosso ma ciò non gli ha evitato una condanna per hate speach ed incitamento alla violenza assieme ad un altro autore ed al ricorrente. A conferma che i commenti volevano colpire lo sfidante e la partener però il parrucchiere aveva messo un ulteriore post in cui li salutava a corredo della rimozione delle frasi censurate dalla donna. Il ricorrente, malgrado la diffida e la richiesta di attivarsi per evitare questa deriva razzista, non aveva bloccato la possibilità di inserire commenti, invitando con un post «gli intervenienti a "monitorare il contenuto delle [loro] osservazioni", senza interferire con i commenti ivi pubblicati». Responsabilità a cascata per i commenti diffamatori e razzisti L'ordinamento penale francese è stato recentemente riformato punendo penalmente l'editore di giornali online «con un adeguato regime di responsabilità», estendendola anche a chi offre servizi di comunicazione online, e tra questi rientrano i profili pubblici dei social come quello in esame. Il ricorrente svolgeva anche una professione che gli aveva fatto maturare grande esperienza nella gestione dei social e delle comunicazioni online, sì che doveva presagire l'impatto del suo post e dei commenti che avrebbe suscitato, ma l'aveva usato a fini elettorali per screditare l'avversario con una campagna molto aggressiva: la prassi interna era molto chiara nel riconoscere questa responsabilità del titolare dell'account in solido con gli autori dei commenti. Va detto che nel diritto comparato e nelle norme internazionali (§§. 49-82 della sentenza) ci sono norme molto chiare e severe che condannavano sia i providers (azioni inibitorie, onere di rimozione dei commenti etc.) che gli autori di post diffamatori e che incitavano all'intolleranza verso etnie, religioni o persone con diversi orientamenti sessuali, politici, etc., ma a livello locale non vi erano disposizioni che regolavano chiaramente il ruolo dei provider, hosting e titolari dei profili, raramente ritenuti responsabili per tali commenti e contenuti condivisi da terzi sulle loro piattaforme (Delfi AS c. Estonia nel quotidiano del 16/6/15). All'epoca la carta dei servizi di Facebook scoraggiava i discorsi d'odio, ma allo stesso tempo invitava tutti ad accedere ai commenti ed a condividerli anche se non erano iscritti al social. Inoltre, «non esisteva alcuna disposizione di legge che imponesse al titolare di una pagina personale su un social network di predisporre un filtraggio preventivo dei messaggi che possono esservi pubblicati da terzi e non esisteva la possibilità pratica di moderare a priori su Facebook. D'altra parte, questo social network consente ora agli amministratori delle pagine della sua rete di attuare un controllo ex ante o ex post sui contenuti pubblicati da terzi» (neretto, nda). I politici devono essere responsabili per le opinioni proprie ed altrui In questi casi, fermo restando che il principio della certezza del diritto era pienamente rispettato,il ricorrente poteva prevedere l'esito della pubblicazione di un messaggio divisivo e provocatorio in una campagna elettorale combattuta ed in un clima molto teso (Satakunnan Markkinapörssi Oy e Satamedia Oy c. Finlandia [GC] del 2017). È questo requisito che acclara la sua responsabilità e ne legittima la condanna, fermo restante che non può invocare l'ampia platea dei cybernauti per evitarla come nel caso dei providers. Internet aveva amplificato i suoi messaggi in una campagna aggressiva. I politici hanno maggiore responsabilità nel veicolare e condividere le proprie idee, dovendo prestare accurata attenzione alla possibile reazione dei propri followers (Le Pen c. Francia del 2010). È purtroppo prassi comune usare profili fake per diffamare familiari ed amici del proprio avversario (terzi innocenti) e di questo è giusto che ne rispondano in solido chi non fa nulla per prevenire ed evitare commenti diffamatori e razzisti ed i loro autori: la tutela dell'altrui reputazione e privacy prevale su ogni altro interesse confliggente. Non vi è stata alcuna lesione della libertà di espressione del ricorrente ed anzi la condanna era lecita, giustificata e necessaria in una società democratica. (fonte: Diritto e Giustizia) |