Il principio di lealtà nell'amministrazione della prova nella giurisprudenza della Cour de cassation e della CEDU

Ilaria Cendret
19 Maggio 2023

La chambre sociale de la Cour de cassation reconnaît que la production des preuves illicites n'est pas exclue, de manière automatique, par les juges du fond. Il revient au juge d'apprécier la mise en balance entre le droit au respect à la vie personnelle du salarié et le droit à la preuve. Ce dernier peut justifier la production d'éléments portant atteinte à la vie personnelle du salarié à la condition que cette production soit indispensable à l'exercice de ce droit et que l'atteinte soit strictement proportionnée au but poursuivi.

La chambre sociale della Cour de cassation riconosce che la produzione in giudizio di prove illegittime non è più automaticamente esclusa dai giudici di merito. Spetterà al giudice operare un bilanciamento tra la privacy del lavoratore e il diritto alla prova. Tale bilanciamento può giustificare la produzione di elementi di prova che comportino la violazione della privacy del lavoratore a condizione che tale produzione sia indispensabile all'esercizio di un diritto e che la violazione sia strettamente proporzionata all'obiettivo perseguito. 

Massime

“Spetta alla parte che produce prove illegittime dedurre che la loro inammissibilità pregiudicherebbe l'equità del procedimento nel suo complesso. Il giudice deve quindi valutare se la gestione della prova violi l'equità del procedimento nel suo complesso, bilanciando il diritto al rispetto della vita personale del lavoratore e il diritto alla prova; il giudice può giustificare la produzione di prove che pregiudichino la privacy del lavoratore, a condizione che tale produzione sia indispensabile per l'esercizio di un diritto e che la violazione della privacy sia strettamente proporzionata all'obiettivo perseguito.”

“In virtù degli articoli 6 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali l'illegittimità di una prova non implica necessariamente che essa venga considerata inammissibile nel procedimento, dovendo il giudice valutare, quando richiesto dalle parti, se l'uso di tale prova violi il principio di equità del procedimento nel suo complesso, bilanciando il diritto al rispetto della vita personale del lavoratore e il diritto alla prova; tale bilanciamento può giustificare la produzione di elementi di prova che comportino una violazione della privacy del lavoratore a condizione che tale produzione sia indispensabile all'esercizio di un diritto e che la violazione sia strettamente proporzionata all'obiettivo perseguito.”

“Il appartient à la partie qui produit une preuve illicite de soutenir, en substance, que son irrecevabilité porterait atteinte au caractère équitable de la procédure dans son ensemble. Le juge doit alors apprécier si l'utilisation de cette preuve a porté atteinte au caractère équitable de la procédure dans son ensemble, en mettant en balance le droit au respect de la vie personnelle du salarié et le droit à la preuve, lequel peut justifier la production d'éléments portant atteinte à la vie personnelle d'un salarié à la condition que cette production soit indispensable à l'exercice de ce droit et que l'atteinte soit strictement proportionnée au but poursuivi.”

“Il résulte des articles 6 et 8 de la Convention de sauvegarde de droits de l'homme et des libertés fondamentales que l'illicéité d'un moyen de preuve n'entraîne pas nécessairement son rejet des débats, le juge devant, lorsque cela lui est demandé, apprécier si l'utilisation de cette preuve a porté atteinte au caractère équitable de la procédure dans son ensemble, en mettant en balance le droit au respect de la vie personnelle du salarié et le droit à la preuve, lequel peut justifier la production d'éléments portant atteinte à la vie personnelle d'un salarié à la condition que cette production soit indispensable à l'exercice de ce droit et que l'atteinte soit strictement proportionnée au but poursuivi.”

Il caso: la conciliazione del diritto alla prova e del diritto alla privacy del lavoratore

Con due sentenze dell'8 marzo 2023, la chambre sociale della Cour de cassation riconosce il diritto alla prova, di origine dottrinale, ossia la ragionevole possibilità offerta a ciascuna parte di presentare le proprie prove, anche quando altri diritti fondamentali sono implicati, come, tra gli altri, il diritto alla vita privata e personale del lavoratore. Le recenti soluzioni della Corte devono essere analizzate alla luce della giurisprudenza precedente inerente al principio di lealtà nell'amministrazione della prova in quanto la produzione di prove illegittime non è più automaticamente esclusa dai giudici di merito.

Lo sviluppo delle tecnologie di sorveglianza ha portato alla nascita di nuove controversie che mettono in discussione l'equilibrio tra il diritto alla prova del datore di lavoro e il diritto alla privacy del lavoratore, garantito, tra l'altro, all'art. L.1121-1 del Code du travail [1].

A partire dal 2020, la giurisprudenza della chambre sociale si è evoluta in favore di un ampliamento dell'ambito delle prove legittime. Questo riconoscimento del diritto alla prova si pone in contrasto con la storica logica binaria secondo la quale l'illegittimità della prova condiziona la sua ammissibilità.

Più precisamente, la recente giurisprudenza della Corte ha precisato che l'illegittimità di un mezzo di prova non comporta necessariamente la sua inammissibilità nel corso di un procedimento giurisdizionale in quanto spetta al giudice valutare, all'occorrenza, se l'utilizzo della prova in questione possa compromettere l'equità del procedimento. Solamente la ponderazione tra il diritto alla prova e il diritto al rispetto della vita personale del lavoratore può giustificare la produzione di elementi di prova raccolti in violazione della privacy del lavoratore, a condizione, in extremis, che la suddetta violazione sia proporzionata allo scopo perseguito dal datore di lavoro.

Nella prima sentenza commentata [2], il lavoratore, un conducente di autobus, era stato licenziato per colpa grave dopo che il suo datore di lavoro aveva ottenuto un verbale di violazione del codice della strada da parte della polizia in seguito alla registrazione, a opera di un dispositivo di videosorveglianza installato sui veicoli, nel contesto di un'indagine penale condotta per un altro motivo, ossia l'identificazione dell'autore di un furto di un biglietto. La motivazione del licenziamento si fondava, così, sull'utilizzo, a titolo probatorio, di un processo verbale della polizia, utilizzo illecito in quanto comunicato a una persona estranea al procedimento penale, ossia il datore di lavoro, senza autorizzazione da parte del procuratore della Repubblica, e redatto sulla base di registrazioni trasmesse ai servizi di polizia in violazione della charte de la vidéoprotection applicabile nell'azienda.

La chambre sociale ha approvato la conclusione della Corte d'appello di Colmar [3] secondo cui tale prova era inammissibile in quanto illegittima: il datore di lavoro aveva ottenuto il processo verbale in questione in virtù dei rapporti informali intrattenuti con i servizi di polizia a causa della propria attività, e in violazione dell'art. 4 della suddetta charte con la quale si era impegnato a non fare ricorso al sistema di videosorveglianza per provare la colpa del lavoratore, in caso di sanzioni disciplinari interne.

Non poteva, dunque, essere accolto il motivo sollevato dal datore di lavoro che invocava - peraltro solamente davanti cassazione - la violazione dell'equità del procedimento.

Nella seconda sentenza commentata [4], la Corte ha confermato il ragionamento della Corte d'appello di Parigi [5] e l'irricevibilità delle prove prodotte dal datore di lavoro, ossia un sistema di videosorveglianza installato in un “nail bar”. La Corte d'appello aveva ritenuto non proporzionata la violazione delle privacy della lavoratrice, onicotecnica, rispetto allo scopo perseguito, vale a dire quello di verificare i sospetti di furto a opera di quest'ultima, a seguito di un controllo contabile interno. Più precisamente, il datore di lavoro ha sostenuto che le registrazioni avevano permesso di confermare i sospetti di furto e violazione del rapporto fiduciario esistente nei confronti della lavoratrice, che erano sorti dopo una verifica contabile dalla quale risultavano numerose irregolarità in merito all'incasso delle prestazioni fornite. È da notare che il sistema di videosorveglianza installato riprendeva continuamente l'intera area di lavoro, compresa la zona di assistenza dei clienti, e che i lavoratori erano sotto la costante sorveglianza delle telecamere.

Inoltre, le finalità e il fondamento giuridico del sistema di sorveglianza non erano stati portati a conoscenza della lavoratrice e il datore di lavoro non aveva sollecitato l'autorizzazione preventiva prefettoriale in violazione, da un lato, dell'art. 32 della loi du 10 janvier 1978 e, dall'altro, della Loi informatique et libertés [6] e degli artt. L. 223-1 e ss. del Code de la sécurité intérieure [7]. I fatti erano stati rivelati - secondo il datore di lavoro - da un controllo interno, elemento menzionato nella lettera di licenziamento ma non prodotto nel corso del procedimento.

La Corte ha constatato l'assenza del carattere essenziale della videosorveglianza ai fini del diritto alla prova poiché il datore di lavoro disponeva di altri mezzi per dimostrare i fatti in questione.

I giudici della chambre sociale hanno, così, avuto modo di pronunciarsi sulla legittimità dello scopo perseguito dal datore di lavoro nel predisporre la sorveglianza, e sulla produzione di una prova illegittima da parte di quest'ultimo.

La questione: l'illliceità degli elementi di prova e la loro ammissibilità

In considerazione del principio di lealtà della prova – il quale comporta di dichiarare inammissibili le prove ottenute tramite stratagemma o inganno – è possibile un'estensione del diritto alla prova nel caso in cui la produzione di elementi di prova comporti una violazione della vita privata e personale del lavoratore? Dunque, può essere dichiarata ammissibile una prova ottenuta illecitamente?

In tal senso, il diritto alla prova deve essere espressamente invocato dalla parte avente interesse?

La soluzione: l'ammissibilità degli elementi di prova raccolti in violazione del diritto alla privacy del lavoratore

La chambre sociale si pronuncia sull'illegittimità e sull'inammissibilità degli elementi di prova presentati dal datore di lavoro. La Cour de cassation coglie l'occasione per pronunciarsi nuovamente sul superamento della giurisprudenza consolidata, la quale procedeva ad un'applicazione scrupolosa del principio della lealtà della prova [8].

La sorveglianza della persona sul luogo di lavoro permette al datore di lavoro di controllare se il lavoratore non commette errori o se interpreta correttamente gli ordini e le consegne impartite. Tuttavia, il principio di lealtà nell'amministrazione della prova, che governa la ricerca degli elementi di prova, comporta necessariamente l'esclusione di metodi clandestini di sorveglianza che implicano un inganno o una sorpresa del dipendente [9]. Infatti, un dispositivo di sorveglianza può incidere sul diritto al rispetto della vita personale del lavoratore.

La chambre sociale ha cercato di costruire una giurisprudenza coerente in considerazione della conciliazione degli interessi, da un lato, del datore di lavoro, e, dall'altro, del lavoratore. Essa considera, sin dalla sentenza del 20 novembre 1991 [10], che il principio di lealtà nella ricerca degli elementi di prova presuppone l'installazione di sistemi di sorveglianza conosciuti dal lavoratore.

Questa giurisprudenza è stata, poi, avallata sia dal legislatore nazionale, francese, che da quello europeo. A tal proposito, si ricorda che ai sensi dell'art. 5 RGPD [11] sui “Principi applicabili al trattamento di dati personali”, uno dei principi fondamentali di protezione dei dati personali consiste nel determinare - anteriormente rispetto all'esercizio delle modalità di controllo - la ragione specifica per la quale i dati sono raccolti e utilizzati. Se le informazioni sono state raccolte per una finalità diversa da quella per la quale sono state usate, questa modifica è suscettibile di costituire un cambiamento di finalità che è oggetto di sanzione da parte della Commission nationale de l'informatique et des libertés (CNIL) [12] e che integra l'infrazione prevista dall'art. 226-21 del Code pénal [13].

In termini generali, l'art. 9 del Code civil prevede che “chacun a droit au respect de sa vie privée”, e l'orientamento consolidato della Corte di cassazione ritiene illegittima la prova tratta da modalità di controllo che non sono state oggetto di un'informazione del lavoratore. Infatti, i sistemi di controllo derivanti dall'uso delle nuove tecnologie sono ammessi a tre condizioni: i) nel rispetto dell'obbligazione di informazione preventiva rispetto all'utilizzo degli impianti, ii) a seguito dell'informazione e consultazione dell'organismo di rappresentanza del personale nell'azienda, Comité Social et Économique (CSE), e iii) in conformità con il suddetto art. L.1121- 1 Code du travail, che pone un principio di proporzionalità nel caso di restrizioni ai diritti delle persone e libertà individuali e sociali.

Con riferimento all'obbligazione di comunicazione preventiva ai lavoratori, come è il caso nella seconda sentenza commentata, l'art. L.1222-4 del Code du travail [14] dispone la necessaria informazione del lavoratore precedente alla raccolta di informazioni personali. Il lavoratore deve essere informato singolarmente delle misure di controllo messe in opera attraverso una clausola modificativa del contratto di lavoro oppure attraverso una nota di servizio, altrimenti la raccolta dei dati è considerata illecita [15]. Risulta ugualmente necessario che le tecniche di controllo siano pertinenti allo scopo perseguito [16].

Ai sensi della giurisprudenza della Corte, rimane lecito il controllo esercitato da un superiore gerarchico o da un servizio interno all'azienda avente una missione di sorveglianza, in assenza dell'installazione di un sistema di sorveglianza specifico, rientrando tale controllo nei poteri di direzione in capo al datore di lavoro [17].

Se il diritto al rispetto della vita personale è garantito nel sistema giuridico francese, sorge la difficoltà inerente al conflitto tra il diritto alla privacy e il diritto alla prova.

La giurisprudenza della Corte ha affermato, sin dal 2001 [18], il principio di libertà dell'amministrazione della prova dal quale si deduce che la prova può essere apportata con qualsiasi mezzo (come è stato poi codificato all'art. 1358 del Code civil [19]). La libertà nell'amministrazione della prova deve, tuttavia, trovare delle limitazioni nella liceità del mezzo di prova che ricopre, in particolare, il principio di lealtà nell'amministrazione della prova e il diritto al rispetto della vita privata del lavoratore. In tal senso, la sentenza Nikon del 2 ottobre 2001 [20] riconosce l'esistenza del rispetto della vita privata del lavoratore sul luogo di lavoro. Nonostante ciò, è possibile interrogarsi sulla possibilità di produrre un elemento di prova nel caso in cui quest'ultimo violi la vita privata del lavoratore e, dunque, sulla possibile espansione del diritto alla prova.

A questo riguardo, risulta prima necessario analizzare l'evoluzione giurisprudenziale della chambre sociale alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) e della Corte di giustizia dell'Unione europea (CGUE).

La Corte UE si è potuta pronunciare sulla ricevibilità, a titolo di elemento di prova, di registrazioni segrete di conversazioni telefoniche e gli appunti ad esse relativi per dimostrare un'infrazione all'art. 101 TFUE [21]. In tale occasione, la citata giurisdizione ha fatto riferimento alla giurisprudenza della CEDU inerente alle intercettazioni di telecomunicazioni che costituiscono delle ingerenze nell'esercizio del diritto garantito dall'art. 8, paragrafo 1, CEDU [22]. Quest'ultima ha potuto pronunciarsi sulla questione, in un contesto penale, relativa a un elemento di prova ottenuto illecitamente che privi un accusato di un processo equo e causi la violazione dell'art. 6 CEDU: «Sebbene la [CEDU] garantisca, all'articolo 6, il diritto a un processo equo, essa non disciplina l'ammissibilità delle prove in quanto tali, materia che rientra in primo luogo nel diritto interno. La Corte non può quindi escludere l'ammissibilità di una prova acquisita in violazione delle prescrizioni del diritto nazionale (…). La Corte ricorda peraltro che, in passato, essa ha già avuto l'occasione di dichiarare che l'utilizzo di una registrazione illecita, e per di più come unico elemento di prova, non viola di per sé i principi di equità sanciti dall'articolo 6 [paragrafo 1, della CEDU], anche qualora tale elemento sia stato ottenuto in violazione delle prescrizioni della [CEDU], in particolare quelle d[ell'articolo 8 (...)]» [23].

La CEDU non consacra, dunque, il principio di lealtà probatoria come una componente del diritto a un processo equo: l'utilizzo di una registrazione illecita, a titolo di elemento di prova, non viola di per sé i principi di equità sanciti dall'art. 6, paragrafo 1, CEDU, anche nel caso in cui tale elemento sia stato ottenuto in violazione delle prescrizioni dell'art. 8 CEDU.

La questione dell'ammissibilità dei mezzi di prova è una questione di competenza esclusiva degli Stati firmatari e il principio di un processo equo non comporta conseguenze, in particolare per quanto riguarda la lealtà dell'amministrazione dei mezzi di prova. Gli unici imperativi che si impongono, ai sensi della giurisprudenza della CEDU, sono, in primis, che la parte ricorrente non sia stata privata né di un processo equo né dei propri diritti della difesa e, in secundis, che tale elemento non abbia costituito l'unico mezzo di prova utilizzato per motivare la condanna.

Più precisamente, nel contezioso relativo al diritto del lavoro, la CEDU indica il necessario equilibrio tra il rispetto della vita privata del lavoratore e l'interesse del datore di lavoro nell'assicurare la protezione dei propri beni e il buon funzionamento dell'azienda. Questo equilibrio è stato applicato dalla giurisprudenza Bărbulescu c. Romania [24], la quale individua una serie di criteri che permettono la verifica – a opera delle giurisdizioni nazionali – di garanzie adeguate e sufficienti a seguito dell'introduzione da parte di un datore di lavoro di misure di controllo della corrispondenza e di altre comunicazioni [25]. Con riferimento alla corrispondenza dei lavoratori, la sentenza López Ribalda [26] applica i suddetti criteri all'utilizzo di un sistema di videosorveglianza; la CEDU ha ritenuto che la produzione di una registrazione effettuata con telecamere nascoste, nell'ambito di controversia relativa a un licenziamento disciplinare, non violasse le disposizioni dell'art. 6, paragrafo 1, in quanto i giudici spagnoli avevano analizzato attentamente la giustificazione del dispositivo, ossia i sospetti legittimi di gravi irregolarità commesse dal lavoratore e le perdite significative che il datore di lavoro aveva subito.

È quindi necessario verificare, a monte, che vi siano delle ragioni concrete per l'utilizzo di misure di controllo o sorveglianza. Lo scopo deve preesistere all'attuazione delle misure delimitando, così, i casi in cui il datore di lavoro può giustificare a posteriori prove illegali in quanto utilizzate come fondamento di sanzioni disciplinari prese nei confronti del lavoratore.

La Cour de cassation estende, conseguentemente, la produzione di elementi di prova in violazione della privacy del lavoratore a condizione che tale produzione sia indispensabile all'esercizio del diritto alla prova e proporzionata a uno determinato obiettivo.

Codesta logica è stata confermata dalle sentenze Petit Bateau [27] e Manfrini [28] del 2020, con le quali la chambre sociale riconosce il diritto alla prova – che comporta una dissociazione tra l'illegittimità della prova e la sua ammissibilità – andando a circoscrivere l'applicazione del principio di lealtà nell'amministrazione della prova. Infatti, un'applicazione rigorosa di quest'ultimo principio implicherebbe l'inammissibilità di un elemento di prova dal momento che esso era stato qualificato come illegittimo; conseguentemente, in assenza di altri mezzi di prova a disposizione del datore di lavoro, la sanzione comminata risultava ingiustificata nonostante la materialità dei fatti fosse stata constatata.

A tal proposito, l'illegittimità di un elemento di prova può derivare da vari motivi; in primo luogo, le prove sono illegittime quando sono state ottenute in modo ingannevole (come nel caso in cui la sorveglianza è stata effettuata all'insaputa dei lavoratori). In secondo luogo, l'illegittimità deriva dalla violazione delle condizioni di liceità previste dalla legge, in particolare dalla suddetta Loi informatique et libertés, la quale richiedeva una dichiarazione preventiva [29] all'autorità garante della privacy, la CNIL,in merito all'uso dei dati personali. Infine, la violazione dei diritti personali del lavoratore comportano l'illiceità dell'elemento di prova [30].

Più precisamente, nel caso di Petit bateau, la Corte afferma che – in virtù degli articoli 6 e 8 della CEDU, dell'art. 9 del Code civil e dell'art. 9 del Code de procédure civile [31] – il diritto alla prova può giustificare la produzione di elementi raccolti dall'account privato di una lavoratrice su un noto social network in violazione della sua privacy, a condizione che tale produzione sia indispensabile [32] per l'esercizio di tale diritto e che la violazione sia proporzionata allo scopo perseguito. Dunque, nonostante l'elemento di prova sia stato considerato illecito [33], la riproduzione di screeshots dell'account della lavoratrice risultava indispensabile all'esercizio del diritto di prova del datore di lavoro, che non disponeva di altri elementi al fine di provare il pregiudizio causato dalla lavoratrice nella divulgazione di un'informazione confidenziale dell'azienda presso dei professionisti suscettibili di lavorare per alcune aziende concorrenti. La prova è stata, dunque, dichiarata ammissibile.

Con riferimento all'affaire Manfrini, la chambre sociale ha avuto modo di pronunciarsi nuovamente sulla sanzione inflitta agli elementi di prova ottenuti in violazione della Loi informatique et libertés. Infatti, ai sensi degli artt. 2 e 22 di tale legge [34], gli indirizzi IP, che consentono di identificare indirettamente una persona fisica, sono dati personali per cui la loro raccolta costituisce un trattamento di dati personali e deve essere preventivamente dichiarata alla CNIL. Inoltre, ai sensi degli artt. 6 e 8 CEDU, l'illegittimità di un mezzo di prova non comporta necessariamente il suo rigetto nel procedimento, e il giudice deve valutare se l'uso di queste prove abbia compromesso l'equità del procedimento nel suo complesso, bilanciando il diritto al rispetto della vita personale del lavoratore e il diritto alla prova, che può giustificare la produzione di elementi che violano la vita personale di un dipendente, a condizione che tale produzione sia indispensabile per l'esercizio di tale diritto e che la violazione sia strettamente proporzionata allo scopo perseguito.

La prima sentenza commentata precisa che il controllo del giudice, inerente al carattere indispensabile della prova illecita ai fini dell'esercizio del diritto alla prova e proporzionato rispetto all'obiettivo perseguito, può intervenire solo se una delle parti invoca la violazione del principio di lealtà nell'amministrazione della prova. Nel caso in cui il diritto alla prova non è stato invocato davanti ai giudici di merito, questi ultimi non solo non ne terranno più conto ma la parte ricorrente non potrà, poi, invocare codesto motivo davanti alla Corte di cassazione [35].

Con riferimento all'ammissibilità di prove che violano il diritto alla privacy del lavoratore, la chambre sociale evidenzia – nella seconda sentenza qui commentata – che il giudice deve, in primo luogo, interrogarsi sulla legittimità del controllo del datore di lavoro e verificare se vi fossero ragioni concrete che giustificavano il ricorso alla sorveglianza e l'entità della stessa; in secondo luogo, deve valutare se il datore di lavoro non avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato utilizzando altri mezzi più rispettosi della vita personale del lavoratore; in terzo luogo, il giudice deve valutare la proporzionalità dell'interferenza con la vita personale del lavoratore rispetto all'obiettivo perseguito. Tuttavia, codesta ammissibilità deve rimanere eccezionale. Nel caso di specie, la Corte rileva che il datore di lavoro non aveva portato il dispositivo di controllo utilizzato a conoscenza della lavoratrice, e che disponeva, a titolo di elemento di prova, anche di un controllo contabile interno che non è stato prodotto in giudizio: il sistema di videosorveglianza in questione è stato ritenuto non indispensabile all'esercizio del diritto alla prova, e sproporzionato rispetto allo scopo perseguito, ossia la verifica dei sospetti nei confronti della lavoratrice, in considerazione della ripresa perenne dei lavoratori del “nail bar”.

Si ricorda, infine, che la chambre sociale ha recentemente rinviato alla Assemblée plénière due ricorsi [36] inerenti al diritto alla prova nell'ipotesi dell'inosservanza del principio di lealtà nell'amministrazione della prova. Quest'ultima si pronuncerà in materia nel mese di novembre 2023.

Osservazioni: il rispetto della privacy del lavoratore nell'era digitale. La situazione italiana

Durante l'ultimo secolo i processi di automazione e di digitalizzazione hanno guadagnato una progressiva attenzione con riguardo alle dinamiche industriali e produttive, vista l'evoluzione tecnologica e gli effetti sul mondo del lavoro. L'OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) fa riferimento all'espansione delle nuove tecnologie come ad un'era di trasformazione digitale [37]. Tale organizzazione del lavoro è centrata sulla raccolta e il trattamento dei dati personali del lavoratore al fine di migliorare l'efficienza e la produttività dell'impresa.

I controlli a distanza sul lavoro, effettuati tramite impianti audiovisivi (ad esempio telecamere a circuito chiuso) o altri strumenti, inclusi quelli elettronici e informatici, diventano progressivamente determinanti nella fase di produzione di beni e servizi. I dati raccolti da questi strumenti possono concorrere alla valutazione del personale ma non sfociano necessariamente nell'esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro.

La materia dei controlli a distanza è disciplinata nell'ordinamento giuridico italiano dall'art.4, l. n. 300/1970(di seguito, St. Lav.), disposizione novellata dall'art. 23, d.lgs. n. 151/2015. La norma detta dei limiti sia di natura sostanziale che procedurale all'esercizio dei controlli a distanza [38].

Innanzitutto, l'istallazione di impianti e strumenti di controllo è consentita nel rispetto di determinate finalità: “per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale”, dunque – come nella versione della norma precedente la novella del 2015 – è vietata un'esclusiva finalità di controllo dei lavoratori. Ad esempio, rientra nei controlli richiesti dalle “esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza sul lavoro” il sistema di video trasmissione all'esterno delle prove di esame (per il conseguimento della patente di guida) in quanto idoneo (oltre che a rilevare eventuali comportamenti indebiti dei candidati) ad assicurare il controllo sui comportamenti più o meno scorretti degli esaminatori [39].

Inoltre, l'installazione di strumenti di controllo deve essere previamente autorizzata da un accordo collettivo stipulato tra il datore di lavoro e la Rappresentanza Sindacale Unitaria (RSU) o le Rappresentanze Sindacali Aziendali (RSA). In alternativa, in assenza di accordo, gli strumenti di controllo possono essere utilizzati previa autorizzazione amministrativa rilasciata dalla sede territoriale dell'Ispettorato del lavoro. Queste due modalità procedurali di autorizzazione hanno lo scopo di verificare e validare la sussistenza delle esigenze aziendali che giustificano l'installazione di impianti e strumenti di controllo (art. 4, comma 1, St. Lav. come modificato dal d.lgs. n. 185/2016).

Sono da distinguere gli strumenti di cui al comma 2, che si riferisce “agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze”, che possono essere utilizzati anche in assenza di un accordo sindacale o autorizzazione amministrativa: questi strumenti sono messi a disposizione del lavoratore al fine esclusivo dell'espletamento del lavoro (computer, tablet, smartphone). Peraltro, nel caso in cui lo strumento installato abbia finalità ulteriori, vale a dire sia potenzialmente idoneo a controllare i lavoratori, rientrerà nel regime delle autorizzazioni di cui al comma 1. La ragione dell'alleggerimento dei vincoli risiede nel fatto che, nell'attuale era tecnologica, l'installazione e l'utilizzo degli strumenti non possono essere indistintamente condizionati ad una preventiva autorizzazione sindacale o ministeriale in quanto ciò potrebbe tradursi in un ostacolo al normale funzionamento dell'attività produttiva. Tuttavia, il problema consiste nell'individuare gli strumenti necessari per lo svolgimento dell'attività lavorativa, che non siano anche idonei a monitorare l'attività dei dipendenti e che si sottraggano, dunque, alla procedura autorizzativa [40]. In materia, si è pronunciata la Corte di cassazione che ha ritenuto la chat aziendale per le comunicazioni di servizio dei dipendenti uno strumento di lavoro ai sensi dell'art. 4, comma 2, St. Lav., le cui informazioni, ai sensi del successivo comma 3, sono inutilizzabili in mancanza di adeguata informazione preventiva [41].

Peraltro, ai fini dell'utilizzazione delle informazioni raccolte dal datore di lavoro a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro (consentita, ex art. 4, comma 3, St. Lav. come modificato dal d.lgs. n. 185/2016, “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro”), la distinzione tra gli strumenti ricompresi nel comma 1 e quelli del comma 2 non è rilevante, essendo necessario, in entrambi i casi, una adeguata informazione preventiva e il rispetto del Codice della privacy [42]. Secondo la nuova formulazione dell'art. 4, l'utilizzabilità dei dati del lavoratore deve rispettare una duplice condizione: la preventiva e adeguata informazione del lavoratore sulle modalità di utilizzo degli strumenti e sulle modalità di svolgimento dei controlli, e il rispetto delle prescrizioni del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice privacy) [43]. Le informazioni raccolte tramite il controllo sono, dunque, utilizzabili a condizione del rispetto delle prescrizioni privacy (e, quindi, anche del RGPD): la nuova formulazione dell'art. 4 comporta una maggiore attenzione da parte del datore di lavoro ai controlli a distanza e alle politiche di trasparenza in quanto l'inosservanza dell'articolo è punita da sanzione penale ex art. 38 St. Lav. [44]

Bisognerà, quindi, valutare la “adeguatezza” dell'informazione sulle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, con un giudizio che inevitabilmente dovrà essere formulato con riferimento al singolo caso concreto, evitando così il controllo occulto in quanto il lavoratore è reso a conoscenza delle varie forme di sorveglianza cui può essere assoggettato. Non sembra essere sufficiente un'indicazione sommaria delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli, ma è necessaria una illustrazione puntuale ed esaustiva delle stesse: spetta al datore di lavoro fornire un'informazione mirata e non generalizzata, spiegando come l'uso dello strumento si colleghi con il conseguente controllo [45].

Il comma 3 dell'art. 4, sinora esaminato, detta la disciplina della utilizzabilità delle informazioni raccolte, profilo che non era affrontato dall'originale testo dello Statuto dei Lavoratori, e con riguardo al quale la giurisprudenza aveva elaborato il concetto di “controlli difensivi”, ossia diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale, normalmente disposti ex post. I “controlli difensivi” esulavano dall'ambito di applicazione dell'art. 4 (vecchio testo) e consentivano l'utilizzabilità delle informazioni acquisite purché l'iniziativa datoriale avesse la finalità specifica di accertare determinati comportamenti illeciti del lavoratore (prevalentemente di natura penale), gli illeciti da accertare fossero lesivi del patrimonio o dell'immagine aziendale e i controlli fossero stati disposti ex post [46]. La giurisprudenza riteneva, peraltro, che sebbene i “controlli difensivi” fossero sottratti all'area di operatività dell'originaria versione dell'art. 4, comma 2, St. lav., essi non potevano comunque essere esercitati liberamente dal datore di lavoro al di fuori di regole di civiltà e di criteri ragionevoli volti a garantire un adeguato bilanciamento tra le esigenze di salvaguardia della dignità e riservatezza del dipendente e quelle di protezione, da parte del datore di lavoro, dei beni (in senso lato) aziendali. La disciplina dei controlli difensivi era stata, dunque, ricostruita mediante il richiamo ai principi di buona fede e correttezza [47].

La giurisprudenza di merito e la dottrina si sono poste la questione della eventuale sopravvivenza dei c.d. “controlli difensivi” dopo la modifica dell'art. 4 St. lav. ad opera dell'art. 23 del d.lgs. n. 151/2015 e recentemente la Suprema Corte ha ritenuto questi controlli consentiti (e quindi sottratti all'applicazione delle garanzie dettate dai commi 2 e 3 dell'art. 4 novellato) purché finalizzati alla tutela di beni estranei al rapporto di lavoro o ad evitare comportamenti illeciti, in presenza di un fondato sospetto circa la commissione di un illecito, in modo che sia assicurato un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all'insorgere del sospetto [48].

Il comma 3 dell'art. 4 St. Lav. novellato richiama il “Codice in materia di protezione dei dati personali” (Codice privacy), integrato con le modifiche introdotte dal d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101: il Codice dispone, all'art. 1, che il trattamento dei dati personali debba avvenire secondo le disposizioni del RGPD. Si prevede la non utilizzabilità dei dati personali, se trattati in violazione della disciplina in materia [49]; tuttavia, la validità, l'efficacia e l'utilizzabilità di quest'ultimi sono disciplinate dalle disposizioni processuali [50].

È, poi, importante ricordare l'intervento del Garante per la protezione dei dati personali in materia: questa autorità amministrativa indipendente è stata designata dal d.l. n. 101/2018 come autorità di controllo ai fini dell'attuazione del RGPD [51]. Quest'ultima può ingiungere al titolare del trattamento di conformarsi alle disposizioni del Regolamento. Inoltre, l'autorità di controllo può imporre una limitazione provvisoria o definitiva al trattamento dei dati. Si può così ritenere che le prescrizioni del Garante possano definire i limiti del potere datoriale di controllo ai fini dell'utilizzabilità delle informazioni in quanto richiamate dal Codice privacy, ai sensi dell'art. 4, comma 3, St. Lav.

Il Garante della privacy si rivela, infine, essenziale in quanto la questione relativa ai cd. “controlli difensivi” del datore di lavoro si intreccia con l'utilizzo illegittimo dei dati personali dei lavorati nel caso di un cyberattacco avente ad oggetto l'azienda, che detiene tali dati.

Ebbene, l'ordinamento processuale italiano non consente di devolvere al giudice la valutazione dell'ammissibilità di una prova nel caso in cui la stessa sia illegittima: se, dunque, il datore di lavoro raccoglie informazioni non consentite (quindi in violazione dell'art. 4, comma 3 o, in caso di “controlli difensivi”, in assenza dei requisiti elaborati dalla giurisprudenza di legittimità e precedentemente indicati), non potrà chiederne la produzione in giudizio né sollecitare un potere di bilanciamento del giudice tra diritto alla privacy e diritto alla prova, anche se proporzionato all'obiettivo perseguito. È pur vero che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che il principio di ricerca della verità materiale può giustificare l'ampliamento dell'ambito della lite, ma queste statuizioni hanno riguardato esclusivamente il sistema di preclusioni e decadenze che caratterizza il processo del lavoro, consentendo l'articolazione di prove da cui la parte era decaduta (o l'esercizio del potere d'ufficio ex art. 421 c.p.c.) [52] ma pur sempre con riguardo a fatti tempestivamente allegati e, soprattutto, a prove legittime. Il codice di rito, poi, prevede che nel processo del lavoro sono ammesse tutte le prove (ad eccezione del giuramento decisorio) che il giudice ritenga rilevanti, “anche al di fuori dei limiti stabiliti dal codice civile” (art. 421, comma 2), ma tale precisazione è stata intesa nel senso che deve pur sempre trattarsi di prove legittime e tipiche (e, dunque, va riferita, più limitatamente, alla possibilità di superare determinate limitazioni previste per la deduzione della prova testimoniale, e per presunzioni, in ordine alla prova dei contratti, ai patti aggiunti al contenuto di un documento, ai patti posteriori, artt. 2721, 2722, 2723 c.c.) [53].

Note

[1] Article L.1121-1 Code du travail: «Nul ne peut apporter aux droits des personnes et aux libertés individuelles et collectives de restrictions qui ne seraient pas justifiées par la nature de la tâche à accomplir ni proportionnées au but recherché».

[2] Cour de cassation, civile, Chambre sociale, 8 mars 2023, 20-21.848, Publié au bulletin.

[3] Cour d'appel de Colmar, 22 septembre 2020, n. 19/04706.

[4] Cour de cassation, civile, Chambre sociale, 8 mars 2023, 21-17.802, Publié au bulletin.

[5] Cour d'appel de Paris, 8 avril 2021, n. 18/12470.

[6] Loi n. 78-17 du 6 janvier 1978 relative à l'informatique, aux fichiers et aux libertés.

[7] Chapitre III: Mise en œuvre de systèmes de vidéoprotection (Articles L.223-1 à L.223-9).

[8] La Cour de cassation ha consacrato tale principio con la seguente sentenza: Cour de cassation, Assemblée plénière, 7 janvier 2011, 09-14.316 09-14.667, Publié au bulletin. Traduzione libera dal francese: «In virtù degli articoli 9 del Codice di procedura civile, 6 § 1 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali e dal principio di equità nell'amministrazione delle prove, la registrazione di una conversazione telefonica effettuata all'insaputa dell'autore delle affermazioni formulate costituisce un processo iniquo che rende inammissibile la produzione in quanto elemento di prova».

[9] P. WAQUET, L'entreprise et les libertés du salarié, 2d. Liasons, 2003, 163.

[10] Cour de Cassation, Chambre sociale, du 20 novembre 1991, 88-43.120, Publié au bulletin. Traduzione libera dal francese: «Se il datore di lavoro ha il diritto di controllare e monitorare l'attività dei suoi dipendenti durante l'orario di lavoro, qualsiasi registrazione, per qualsiasi motivo, di immagini o parole a loro insaputa, costituisce un metodo di prova illegale».

[11] Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati).

[12] La CNIL è un'autorità amministrativa indipendente creata nel 1978 dalla Loi informatique et libertés, e autorità di controllo francese ai sensi del regolamento generale sulla protezione dei dati.

[13] Article 226-21 Code pénal: «Le fait, par toute personne détentrice de données à caractère personnel à l'occasion de leur enregistrement, de leur classement, de leur transmission ou de toute autre forme de traitement, de détourner ces informations de leur finalité telle que définie par la disposition législative, l'acte réglementaire ou la décision de la Commission nationale de l'informatique et des libertés autorisant le traitement automatisé, ou par les déclarations préalables à la mise en œuvre de ce traitement, est puni de cinq ans d'emprisonnement et de 300 000 euros d'amende». Cfr. P. ADAM-M. LE FRIANT-Y. TARASEWICZ, Intelligence artificielle, gestion algorithmique du personnel et droit du travail, Dalloz, Août 2020.

[14] Article L.1222-4 Code du travail: «Aucune information concernant personnellement un salarié ne peut être collectée par un dispositif qui n'a pas été porté préalablement à sa connaissance».

[15] Cour de cassation, civile, Chambre sociale, 10 janvier 2012, 10-23.482. La Corte di cassazione si pronuncia sull'obbligatorietà dell'informazione al lavoratore del dispositivo di controllo, nel caso di specie un sistema di videosorveglianza al fine di utilizzare le registrazioni come mezzo di prova.

[16] La rilevanza delle finalità per le quali i dati raccolti vengono utilizzati è normalmente analizzata sotto il profilo del rispetto del principio di proporzionalità. A tal proposito, la CNIL ha evidenziato che il datore di lavoro non deve effettuare una sorveglianza sistematica e permanente (délib. CNIL, n. 2009-201, 16 avril 2009), né sottoporre i lavoratori a una sorveglianza costante, generale e permanente con telecamere che li riprendono giorno e notte sul posto di lavoro (délib. CNIL, n. 2010-112, 22 avril 2010).

Article L.1222-3 Code du travail: «Le salarié est expressément informé, préalablement à leur mise en œuvre, des méthodes et techniques d'évaluation professionnelles mises en œuvre à son égard. Les résultats obtenus sont confidentiels. Les méthodes et techniques d'évaluation des salariés doivent être pertinentes au regard de la finalité poursuivie».

[17] Cour de Cassation, Chambre sociale, du 26 avril 2006, 04-43.582, Publié au bulletin.

V. in tal senso B. BOSSU, Surveillance au travail: une protection du salarié en recul, Lexbase, 22 juillet 2021.

[18] Cour de Cassation, civile, Chambre sociale, 27 février 2001, 98-44.666, Publié au bulletin.

[19] Article 1358 du Code civil: «Hors les cas où la loi en dispose autrement, la preuve peut être apportée par tout moyen».

[20] Cour de Cassation, civile, Chambre sociale, 2 octobre 2001, 99-42.942, Publié au bulletin. Traduzione libera dal francese: «Considerato che il lavoratore ha diritto, anche durante l'orario e sul luogo di lavoro, al rispetto della riservatezza della sua vita privata; che ciò implica in particolare il segreto della corrispondenza; che il datore di lavoro non può quindi senza violazione di tale fondamentale libertà leggere i messaggi personali inviati dal lavoratore e da lui ricevuti grazie ad uno strumento informatico messo a disposizione per la sua attività e ciò anche nel caso in cui il datore di lavoro abbia vietato l'uso non professionale del computer».

[21] CGUE, Sez. IX, 8 settembre 2016, T-54/14, EU:T:2016:455.

[22] Corte EDU, 6 settembre 1978, Ricorso n. 5029/71, § 41; Corte EDU, 2 agosto 1984, Ricorso n. 8691/79, § 64; Corte EDU, 24 aprile 1990, serie A n. 176-A, § 26, e Corte EDU, 29 giugno 2006, Ricorso n. 54934/00, § 79.

[23] Corte EDU, 26 aprile 2007, Ricorso n. 16574/08, § 106.

[24] Corte EDU, 5 settembre 2017, Ricorso n. 61496/08, § 121.

[25] La Grande chambre elenca sette criteri per valutare la legalità di un sistema di sorveglianza: i) l'informazione preventiva e chiara al lavoratore sulla natura del sistema; ii) la portata della sorveglianza effettuata e il grado di intrusione nella vita privata; iii) le ragioni legittime che giustificano la sorveglianza; iv) la possibilità di installare un sistema meno intrusivo; v) le conseguenze della sorveglianza per il lavoratore che vi è stato sottoposto; vi) le adeguate garanzie offerte al lavoratore; e vii) l'accesso del lavoratore a un ricorso giudiziario.

[26] Corte EDU, 5 ottobre 2019, Ricorsi n. 1874/13 e 8567/13.

[27] Cour de cassation, civile, Chambre sociale, 30 septembre 2020, 19-12.058, Publié au bulletin.

[28] Cour de cassation, civile, Chambre sociale, 25 novembre 2020, 17-19.523, Publié au bulletin.

[29] Prima dell'entrata in vigore del regolamento europeo sulla protezione dei dati, l'art. 22 della Loi informatique et libertés prevedeva una dichiarazione preventiva all'autorità garante della privacy francese (CNIL). Questa obbligazione è stata soppressa, ed è, ora, richiesto alla persona responsabile del trattamento dei dati di giustificare il rispetto alle regole fissate dal suddetto regolamento europeo.

[30] Cfr. S. MARIETTE, La preuve illicite, colloque «Les arrêts marquants de la chambre sociale de la Cour de cassation», organisé par la Cour de cassation, 20 avril 2023.

[31] Article 9 Code de procédure civile: «Il incombe à chaque partie de prouver conformément à la loi les faits nécessaires au succès de sa prétention».

[32] Sull'evoluzione della giurisprudenza nell'uso, prima, del termine “nécessaire”, e, poi, “indispensable”, vedi: O. LECLERC, Le droit à la preuve à l'assaut de la vie privée des salariés?, in Le Droit Ouvrier, décembre 2020, n. 868, 733 ss.

[33] Nel caso in esame, la prova non è stata ottenuta in modo sleale poiché la pubblicazione contestata era stata comunicata spontaneamente da un altro lavoratore dell'azienda, autorizzato ad accedere all'account social privato della lavoratrice in qualità di “amico”. La questione verteva, dunque, sulla disamina dell'utilizzo della pubblicazione considerata la violazione del diritto alla privacy della lavoratrice.

[34] Loi n. 78-17 du 6 janvier 1978 modifiée par la loi n. 2004-801 du 6 août 2004, dans sa version antérieure à l'entrée en vigueur du règlement général sur la protection des données (RGPD).

[35] Sulla competenza del giudice in materia di diritto alla prova vedi: J.Y. FROUIN, Le droit à la preuve, qu'est-ce que c'est, comment ça fonctionne?, CMS Francis Lefebvre, 20 avril 2023.

[36] Cour de cassation, civile, chambre sociale, 1 février 2023, 20-20.648, formation de section ; Cour de cassation, civile, chambre sociale, 1 février 2023, 21-11.330, formation de chambre.

[37] Science, Technology and Industry Scoreboard, OECD, 2011.

[38] Con riguardo all'art. 4 St. Lav., cfr. ex plurimis, R. DEL PUNTA, La nuova disciplina dei controlli a distanza sul lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2016, I, 77; A. BELLAVISTA, Il nuovo art. 4 dello Statuto dei lavoratori, Commentario breve alla riforma del “Jobs Act”, G. ZILIO GRANDI-M. BIASI (a cura di), 2016, Milano, 722; L. CALIFANO, Tecnologie di controllo del lavoro, diritto alla riservatezza e orientamenti del Garante per la protezione dei dati personali, in P. TULLINI (a cura di), Controlli a distanza e tutela dei dati personali del lavoratore, Torino, 2017, 180 (All. 62); S. ORTIS, Il badge aziendale e i controlli a distanza: le contraddizioni dell'evoluzione giurisprudenziale di fronte al novellato quadro normativo, in Riv. it. dir. lav., 2018, II, 811.

[39] Cass., Sez. Lav., 4 novembre 2021, n. 31778, che ha applicato l'art. 4, comma 2, St. lav. nel testo anteriore alle modifiche di cui all'art. 23, comma 1, d.lgs. n. 151/2015.

[40] Cfr. I ALVINO, I nuovi limiti al controllo a distanza dell'attività dei lavoratori nell'intersezione fra le regole dello Statuto dei lavoratori e quelle del Codice della privacy, in Labour & Law Issues, 2016, vol. 2, n. 1, 7.

[41] Cfr. Cass., Sez. Lav., 22 settembre 2021, n. 25731. La Corte ritiene che le informazioni raccolte dal datore di lavoro con la chat aziendale richiedano, per essere utilizzabili, una adeguata informazione preventiva ai sensi dell'art. 4, comma 3, St. lav.

[42] Cfr. Cass., Sez. Lav., 9 novembre 2021, n. 32683 che ha esaminato un peculiare caso in cui l'autorizzazione amministrativa alla installazione degli impianti audiovisivi, rilasciata prima della modifica dell'art. 4 St. Lav., prevedeva il divieto di utilizzabilità delle informazioni acquisite, ma le immagini utilizzate dal datore di lavoro a fini disciplinari erano successive alla novella del 2015 (che, come detto, prevede invece l'uso “a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro” delle informazioni raccolte). La Suprema Corte ha precisato che – venendo in rilievo una contestazione disciplinare, al lavoratore, di un fatto reato incidente sul patrimonio del datore di lavoro, sulla base di informazioni raccolte da un impianto in precedenza autorizzato – la clausola di inutilizzabilità doveva ritenersi caducata (per effetto dello ius superveniens) purché presentasse profili di scindibilità e di autonomia rispetto al contenuto dell'autorizzazione, autorizzazione che poteva conservare la sua validità – secondo il principio generale di conservazione degli atti giuridici.

Cfr. Cass., Sez. Lav., 9 novembre 2021, n. 32760, che ha ritenuto che il computer con il quale il lavoratore svolgeva la propria attività era strumento idoneo a svolgere un controllo a distanza; in applicazione del vecchio testo dell'art. 4 St. Lav., ha sancito il divieto di utilizzazione dei dati raccolti.

[43] A. INGRAO, I controlli difensivi tra passato e presente: privacy del lavoratore e inutilizzabilità dei dati, in Nuova giur. civ. comm., 2019, n. 4, 652 ss.

[44] Cfr. A. SITZIA, Il controllo (del datore di lavoro) sull'attività dei lavoratori: il nuovo art. 4 st. lav. e il consenso (del lavoratore), in Labour & Law Issues, 2016, vol. 2, n. 1, 1.

[45] Cfr. A. MARESCA, Controlli tecnologici e tutele del lavoratore nel nuovo art. 4 dello Statuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 2016, I, 513.

[46] Cfr. tra le altre, Cass., Sez. Lav., 23 febbraio 2012, n. 2722.

[47] Cfr. Cass., Sez. Lav., 27 maggio 2015, n. 10955, secondo cui doveva restare ferma “la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l'interesse del datore di lavoro al controllo ed alla difesa della organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi, e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale”. Con riguardo al rispetto dei principi di proporzionalità e pertinenza, cfr. Cass., Sez. Lav., 18 luglio 2017, n. 17723 e Cass., Sez. Lav., 10 novembre 2017, n. 26682.

[48] Cass., Sez. lav., 22 settembre 2021, n. 25732 e Cass., Sez. lav., 12 novembre 2021, n. 34092. In particolare, Cass. n. 25732/2021 ha distinto i controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro dai controlli tesi ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti, ed ha ritenuto i primi attratti nell'ambito di applicazione del novellato art. 4, comma 1, St. Lav. e i secondi (c.d. controlli difensivi) al di fuori di tale perimetro; ha, peraltro, ritenuto che i controlli sottratti alla disciplina dell'art. 4 non possono essere liberamente realizzati dal datore di lavoro ma debbono pur sempre assicurare un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali (correlate alla libertà di iniziativa economica) rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, sempre che il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all'insorgere del sospetto di comportamenti illeciti. In senso analogo, Cass., Sez. Lav., 12 novembre 2021, n. 34092.

[49] Art. 2-decies Codice privacy.

[50] Art. 160-bis Codice privacy.

[51] Art. 58, comma 2, RGPD. F. FUSCO, La privacy del lavoratore tra riforma dell'articolo 4 Statuto dei lavoratori e regolamento generale sulla protezione dei dati personali, in Dir. lav. merc., 2019, 305 ss.

[52] Consolidata giurisprudenza ritiene che il deposito tardivo di documenti non è oggetto di preclusione assoluta ed il giudice può ammettere, anche d'ufficio, detti documenti ove li ritenga indispensabili ai fini della decisione, in quanto idonei a superare l'incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, purché allegati nell'atto introduttivo, seppure implicitamente, e sempre che sussistano significative "piste probatorie" emergenti dai mezzi istruttori, intese come complessivo materiale probatorio, anche documentale, correttamente acquisito agli atti del giudizio di primo grado (Cass., Sez. Lav., 15 maggio 2018, n. 11845; Cass., Sez, Lav., 17 dicembre 2019, n. 33393; Cass., Sez. Lav., 23 novembre 2020, n. 26597).

[53] In tal senso vedi, Cass., Sez. Lav., 29 luglio 2009, n. 17614; Cass., Sez. Lav., 26 giugno 2004, n. 11926.