Nell'obbligo di collazione subentra l'erede del donatario anche in mancanza di rappresentazione
22 Maggio 2023
Massima
In tema di collazione, l'obbligo incombe anche in capo a colui che subentri come erede dell'originario coerede, anche nel caso in cui non ricorrano i presupposti della rappresentazione, poiché gli eredi subentrano a titolo universale nella posizione del loro dante causa e sono pertanto tenuti a far fronte a tutti gli obblighi che egli aveva. Diversamente opinando, si escluderebbe l'operatività dell'istituto della collazione in ragione di un evento del tutto casuale, quale quello della sopravvenuta morte dell'originaria parte condividente, mettendo al riparo le donazioni ricevute dal coerede e trasformando l'obbligo di collazione in una prestazione destinata a estinguersi con la morte del coerede donatario, in palese e irragionevole contrasto con quanto stabilito dall'art. 740 c.c. in tema di rappresentazione. Il caso
Con citazione del 13 maggio 1999, l'attore M.B. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Modica V.F. junior affinché, previa dichiarazione del proprio stato di figlio naturale del defunto V.F. senior (nonno del convenuto) fosse accertata la sua qualità di erede legittimo e venisse disposta anche a suo favore la divisione giudiziale dell'asse ereditario. A livello ricostruttivo è indispensabile chiarire, anche nominativamente, i rapporti soggettivi: V.F. senior era deceduto lasciando un figlio naturale non ancora riconosciuto (M.B.) ed un figlio legittimo (V.T.); quest'ultimo era poi deceduto lasciando quale unico erede il figlio V.F. junior.
Con sentenza del 10 maggio 2007 passata in giudicato, il Tribunale di Modica accertava lo stato di figlio naturale di V.F. senior in capo all'attore M.B. e, quindi, proseguiva il giudizio di divisione, ma nelle more del giudizio divisorio M.B. decedeva di modo che il contenzioso proseguiva con i di lui eredi legittimi. Con sentenza del Tribunale di Modica in data 18 novembre 2011 veniva disposto lo scioglimento della comunione ereditaria statuendosi che - in applicazione del disposto di cui all'art. 574 c.c. vigente al momento dell'apertura della successione avvenuta nel 1944 (e, quindi, prima della riforma del diritto di famiglia di cui alla l. 19 maggio 1975, n. 151) - la quota da attribuirsi agli eredi dell'attore fosse pari alla metà della quota spettante al convenuto.
Avverso detta sentenza gli eredi dell'attore promuovevano appello asserendo quanto segue: che la quota essi complessivamente spettante dovesse essere pari a quella del convenuto stante la sopravvenute modifiche legislative (riforma del diritto di famiglia del 1975 e riforma della filiazione del 2013); che, in particolare, la massa dividenda non fosse stata correttamente ricostruita dal giudice di primo avendo questi omesso di includervi il ricavato di cespiti asseritamente donati dal de cuius al convenuto e poi da questi alienati. La Corte d'Appello di Catania, con sentenza n. 158 in data 27 gennaio 2017, in parziale accoglimento del gravame rideterminava l'ammontare della quota degli appellanti in applicazione dei principi di parificazione tra figli legittimi e naturali introdotti dalla riforma della filiazione di cui al l. 10 dicembre 2012, n. 219 e successivo d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154: in particolare, il giudice di secondo grado reputava decisivo il comma 8 dell'art. 104 del cit. d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 in forza del quale «fermi gli effetti del giudicato formatosi prima dell'entrata in vigore della legge 10 dicembre 2012,n.219, le disposizioni del codice civile relative al riconoscimento dei figli, come modificate dalla medesima legge, si applicano anche ai figli nati o concepiti anteriormente all'entrata in vigore della stessa». Non accoglieva, invece, il motivo d'appello relativo alla rideterminazione della massa ereditaria reputando corretto - dall'esame delle risultanze istruttorie - l'operato del Tribunale.
Avverso detta sentenza ricorreva per Cassazione l'originario convenuto fondando le proprie doglianze su un unico motivo costituito dalla violazione e falsa applicazione, principalmente, dell'art. 104 del d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 asserendo che lo stesso non potesse giustificare un'applicazione retroattiva della riforma della filiazione «in assenza di una norma esplicitamente diretta in tale direzione». La controparte, a sua volta, resisteva con controricorso proponendo ricorso incidentale affidato a cinque motivi: in particolare, con il secondo denunciava l'erronea esclusione (per mancata collazione) dalla massa dividenda del ricavato derivante dalla vendita di immobili - ricevuti per donazione dal de cuius - da parte del di lui figlio V.T. La questione
La vertenza in questione, seppur veramente densa di molteplici questioni, pone due problemi principali.
Il primo tema riguarda gli effetti di diritto transitorio della riforma della filiazione del 2012 che ha eliminato qualsiasi distinzione tra i figli nati in costanza di matrimonio e quelli naturali di modo che, in particolare, il loro trattamento successorio è divenuto privo di differenziazioni. Il quesito, quindi, è il seguente: in caso di successione apertasi prima dell'entrata in vigore della citata riforma, al fine di stabilire la quota ereditaria (o, più in generale, i diritti successori) dei figli, si applica la normativa vigente al momento dell'apertura della successione o quella sopravvenuta? Il secondo tema riguarda la regolamentazione dell'eventuale obbligo di collazione per il caso in cui il condividente non risulti essere stato direttamente beneficiario della donazione, ma sia - invece - subentrato nella qualità di erede al donatario-coerede. Il quesito, quindi, è il seguente: ove il condividente non abbia ricevuto beni in donazione direttamente dal defunto ma abbia poi assunto la qualità di erede del donatario-coerede, è comunque tenuto a conferire mediante collazione le donazioni che aveva ricevuto l'originario donatario-coerede?
Le soluzioni giuridiche
Sul primo argomento, occorre riportare una breve cronologia normativa relativa al trattamento successorio dei figli. L'art. 574 c.c. nella versione originaria del 1942, chiaramente allineato ad un contesto storico-culturale dove il legame affettivo non consacrato dal vincolo matrimoniale era penalizzato, garantiva ai figli legittimi una posizione preferenziale rispetto a quella dei figli naturali, infatti: il comma 1 prevedeva che ai figli naturali spettasse una quota dimezzata rispetto ai legittimi a quali, in ogni caso, doveva essere garantita una quota complessivamente non inferiore al terzo; il comma 2 attribuiva ai figli legittimi la facoltà di pagare in danaro o in beni immobili ereditari la porzione di spettanza di quelli naturali. Con la riforma del diritto di famiglia di cui alla l. 19 maggio 1975, n. 151 le cose sono in parte migliorate, in quanto: da un lato è stata eliminata ogni differenza nella determinazione delle quote ereditarie che, quindi, sono state parificate a prescindere dalla sussistenza o meno del vincolo coniugale tra i genitori; dall'altro, è rimasta - stante l'art. 537, comma 3, c.c. - la facoltà per i figli legittimi di soddisfare in denaro o in beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali che non vi si fossero opposti. Il vero salto di qualità è, però, avvenuto dapprima con la l. 10 dicembre 2012, n. 219 il cui art. 1, comma 1, ha drasticamente stabilito quanto segue «nel codice civile, le parole: “figli legittimi” e “figli naturali”, ovunque ricorrono, sono sostituite dalla seguente: “figli”»; e successivamente, con il d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 che ha operato una minuziosa revisione di molteplici articoli del c.c. al fine di dare concreta e formale attuazione al principio di parificazione tra tutti i figli.
Ciò premesso, la Cassazione - rigettando il ricorso principale - ha sì confermato la sentenza della Corte d'Appello di Catania che aveva ritenuto applicabile al caso in esame la nuova regolamentazione apportata dalla riforma della filiazione del 2012, ma lo fatto sulla base non del comma 8 dell'art. 104 del cit. d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 bensì del suo comma 6 ai sensi del quale, salvi gli effetti del pregresso giudicato, nei giudizi di petizione ereditaria ancora pendenti alla data di entrata in vigore del d.lg. si debbono applicare le novellate disposizioni del c.c., tra le quali rientra l'art. 566 c.c. in forza del quale al padre ed alla madre succedono i figli in parti uguali (senza - dunque - distinzioni di sorta). All'asserita lesione inferta dall'interpretazione degli Ermellini al principio di irretroattività, vengono opposte plurime argomentazioni e così: a) la parificazione del trattamento successorio dei figli, con la conseguente inapplicabilità dell'art. 574 c.c. anche in relazione alle successioni apertesi in epoca anteriore, risponde ai criteri della legge delega dichiaratamente orientata a «eliminare ogni discriminazione tra i figli»; b) la Corte Costituzionale aveva già ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 104 del cit. d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 osservando come al di fuori del campo penale non sia precluso al legislatore disporre in modo retroattivo «purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nella esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti "motivi imperativi di interesse generale" ai sensi della giurisprudenza della Corte C.E.D.U. (Corte Cost., 9 luglio 2015, n. 146; per analogo principio volto alla legittimazione della retroattività, Corte Cost., 4 giugno 2014, n. 156; Corte Cost., 28 novembre 2012, n. 264; Corte Cost.,26 gennaio 2012, n. 15); c) le limitazioni poste dalle norme previgenti si palesano - ormai - in evidente contrasto con le norme sovranazionali alla luce della costante giurisprudenza della C.E.D.U. (puntualmente richiamata nella pronuncia in commento); d) ancorché la tutela dei diritti acquisiti garantisca la certezza dei rapporti giuridici, il generale principio di uguaglianza può essere “compresso” solo se detta limitazione appaia proporzionata con il fine perseguito (cioè la certezza del diritto), proporzionalità non ravvisata nel caso di specie, anche in considerazione del fatto che il ricorrente avrebbe dovuto quantomeno ipotizzare la contestazione del trattamento ingiustamente privilegiato concessogli dal legislatore.
Sul secondo argomento, occorre una breve premessa in ordine alla funzione della collazione in seno al procedime nto divisorio (per l'operatività della collazione esclusivamente in seno alla divisione, Cass., Sez. VI, 14 gennaio 2021, n. 509; Cass., Sez. II, 9 ottobre 2017, n. 23539; Cass., Sez. II, 14 giugno 2013, n. 15026; Cass., 5 marzo 1970, n. 543). La collazione consiste nell'operazione mediante la quale i coeredi debbono conferire nella massa dividenda quanto ricevuto in occasione di pregresse donazioni: essa ha fonte nella legge ed opera ricorrendo i presupposti soggettivi (cioè solo determinati coeredi sono obbligati) e oggettivi (cioè solo alcune donazioni vanno conferite) stabiliti nel capo II del titolo IV del libro II del c.c.. Sul fondamento di detto meccanismo, la giurisprudenza - ivi compresa la sentenza in commento - lo ha spesso rinvenuto nell'esigenza di garantire la parità di trattamento tra i condividenti che - ove non fossero conteggiate anche le donazioni pregresse - sarebbe inevitabilmente alterata (Cass., Sez. II,27 luglio 2022, n. 23403; Cass., Sez. II, 25 settembre 2018, n. 22721; Cass., Sez. II, 5 settembre 2016, n. 17576; Cass., Sez. II, 18 luglio 2005, n. 15131).
In linea generale, la legge prevede due forme di collazione: in natura, che si attua restituendo alla massa dividenda lo stesso bene ricevuto in donazione (cosicché la divisione ha ad oggetto anche i cespiti che al momento dell'apertura della successione non erano più di proprietà del defunto), ovvero per imputazione, che si attua per equivalente economico da parte del donatario (cosicché la divisione ha ad oggetto solo i cespiti che al momento dell'apertura della successione erano di proprietà del defunto, ma con l'obbligo del donatario di imputare al valore della propria porzione ereditaria quanto già donatogli). In particolare, poi, l'art. 740 c.c. stabilisce che allorquando il discendente sia succeduto per rappresentazione al donatario-coerede, debba comunque conferire quanto ricevuto in donazione dal rappresentato e ciò per una duplice ragione: dal punto di vista tecnico, in quanto l'art. 467 c.c. determina il subentro dei rappresentanti «nel luogo e nel grado» del rappresentato, cosicché essi “sostituiscono” in tutto e per tutto il rappresentato; dal punto di vista funzionale, in quanto la finalità di trattamento equalitario tra i coeredi - sottesa, come già detto, alla collazione - sarebbe vanificata ove gli altri coeredi non potessero invocare la collazione per il solo fatto che al posto del rappresentato sia subentrato un soggetto diverso (cioè il rappresentante).
Ciò premesso, la Cassazione è intervenuta su un caso non espressamente regolato dalla legge e cioè del soggetto che subentri nella posizione dell'originario donatario-coerede non per rappresentazione, ma per “normale” vicenda successoria. Sul punto la Suprema Corte non ha avuto dubbi ritenendo che l'obbligo di collazione incomba «anche in capo a colui che subentri come erede all'originario coerede tenuto a collazione, e ciò anche ove non ricorrano i presupposti della rappresentazione ovvero della transmissio delationis». La conclusione poggia su due argomenti: il primo è che il coerede subentra - per definizione - nella posizione del rispettivo dante causa e, dunque, è tenuto a far fronte a tutti gli obblighi che a questi facevano capo, ivi incluso quello relativo alla collazione; il secondo è che «diversamente opinando, si escluderebbe l'operatività dell'istituto della collazione in ragione di un evento del tutto casuale, quale quello della sopravvenuta morte dell'originaria parte condividente, evento che metterebbe al riparo le donazioni ricevute dal coerede, e ciò sebbene sia ancora inattuata la divisione ereditaria, rendendo quindi l'obbligo di collazione una prestazione destinata ad estinguersi con la semplice morte del coerede donatario, e risultando poco giustificabile la diversa previsione di cui all'art. 740 c.c. che invece la impone in ogni caso a carico del discendente che subentra per rappresentazione». Conseguentemente la sentenza della Corte d'Appello di Catania è stata cassata, in quanto - pur avendo preso atto dell'esistenza di una donazione effettuata dal de cuius in favore di uno dei figli - ha omesso di dare seguito a tale affermazione limitandosi a procedere alla divisione solo dei beni relitti.
Osservazioni
La pronuncia in commento si innesta in un contesto fattuale veramente intricato di trasferimenti immobiliari, di relative qualificazioni giuridiche degli stessi e di correlate istanze istruttorie, tali da rendere non agevole l'enucleazione di nitidi principi decisori. Emblematicamente basti pensare: che per alcuni cespiti viene affermato che gli stessi erano stati «dati» dal de cuius al figlio e che per altri ancora la Corte d'Appello aveva affermato che la produzione documentale fosse avvenuta tardivamente nel 2009 quando, invece, risaliva al 16 giugno 2000.
Sulla tutela dei figli, la Corte di Cassazione ha operato una scelta di campo drastica dato che nel “conflitto” tra diritto sopravveniente e posizioni acquisite ha, fondamentalmente, sacrificato le seconde a favore del primo in nome del superiore principio costituzionale di parità di trattamento. A parere di scrive questa impostazione potrebbe aprire scenari destabilizzanti: potrebbe ad esempio un coerede che avesse perfezionato una divisione contrattuale rimetterne oggi in discussione l'esito sulla base di una norma sopravvenuta? La Cassazione non si è spinta fino a tale punto, ma i principi da essa avallati con la pronuncia in commento lasciano spazi ad ampie spinte evolutive.
Sul ruolo della collazione, invece, la Corte di Cassazione altro non ha fatto che applicare i lineari principi successori: vero è che, a differenza di quanto previsto dall'art. 740 c.c. in tema di collazione e rappresentazione, non esiste una norma specifica; ma è, altrettanto, chiaro che la morte di un soggetto determini in capo all'erede la trasmissione di tutte le posizioni giuridiche attive e passive che facevano capo al defunto e, dunque, anche dell'obbligo collatizio. |