La legittimazione ad impugnare del Procuratore Generale al vaglio delle Sezioni Unite
24 Maggio 2023
Quando le impugnazioni si affollano. Ad originare la decisione del Supremo Consesso che oggi vi proponiamo è un innocente giudizio per inottemperanza degli obblighi di assistenza familiare in caso di divorzio tra i due ex coniugi. Il giudice di primo grado aveva dichiarato il non doversi procedere per remissione della querela ma il Procuratore Generale non riteneva corretta la decisione, trattandosi, a suo giudizio, di reati perseguibili d'ufficio. Presentava così ricorso immediato per Cassazione, mettendo in moto – come vedremo – tutto il macchinario che spostava la decisione dalla Sesta Sezione della Cassazione alle Sezioni Unite. E ciò perché, da quel che leggiamo nelle prime pagine della corposa sentenza, sul tema della legittimazione del Procuratore Generale ad appellare (o, più in generale, ad impugnare) le sentenze di primo grado esiste un tormentato contrasto giurisprudenziale che si avvita, come sovente accade specialmente in materie abbastanza astruse come questa, intorno alla dibattuta questione del significato da attribuire alla parola “acquiescenza”. Il riferimento è alla attuale formulazione del Codice di rito, che nel 2018 è stato modificato introducendovi questo requisito – l'acquiescenza del Procuratore della Repubblica – quale condizione legittimante l'intervento in sua vece del magistrato inquirente di secondo grado. Vediamo adesso cosa hanno stabilito i Giudici sul punto. L'obiettivo del nuovo assetto normativo. Prima di entrare nel vivo della questione che ha occupato le Sezioni Unite, esse ci ricordano che lo scopo principale perseguito dalla modifica normativa che ha limitato, per il Procuratore Generale, la facoltà di appellare le decisioni di primo grado nei soli casi in cui vi sia avocazione o acquiescenza del P.M. di primo grado è quello di evitare che avverso la stessa sentenza risultino presentate impugnazioni di diverso tenore da più magistrati d'accusa. Premesso ciò, il tema è stato affrontato in opposta maniera nella giurisprudenza di legittimità, che ha diversamente interpretato i requisiti che legittimano l'intervento del Procuratore Generale. Gli opposti orientamenti. Un primo filone interpretativo riteneva l'acquiescenza come un presupposto la cui esistenza va positivamente provata: in caso affermativo sussisterebbe la legittimazione all'intervento impugnativo del Procuratore Generale. In caso negativo, l'impugnazione sarebbe inammissibile. L'esistenza dell'acquiescenza – secondo questo indirizzo – deve essere verificata quando l'impugnazione è sotto l'esame del giudice che dovrà deciderla e va espressa in forma esplicita. L'acquiescenza, insomma, è una condizione di legittimazione alla proposizione dell'impugnazione. Secondo altro orientamento, invece, l'acquiescenza non possiede queste caratteristiche: essa costituisce un “mero fatto processuale” da verificare allorché si esamini l'impugnazione. Su questo tema, già di per sé abbastanza complicato, se ne innesta uno ancora più complesso. Si discute della legittimazione del Procuratore Generale a proporre ricorso per Cassazione avverso le sentenze di primo grado e del modo in cui detto potere sia coordinato con il principio generale che gli consente di appellare soltanto nel caso di avocazione o di acquiescenza. Anche su questo tema abbiamo una diversità d'opinioni. Secondo un primo indirizzo interpretativo il ricorso del Procuratore Generale non legittimato ad appellare va considerato come ricorso immediato (meglio noto come ricorso per saltum). Secondo l'opposto filone di pensiero, invece, se il P.G. non può appellare (perché per esempio è ancora pendente il termine per l'appello del pubblico ministero di primo grado) allora non potrà nemmeno presentare ricorso immediato. La sua impugnazione, pertanto, sarà valutata come se fosse un ricorso ordinario per cassazione. La soluzione delle Sezioni Unite. La prima questione è quella che desta maggiore interesse, non foss'altro perché è logicamente pregiudiziale rispetto alla seconda. Secondo le Sezioni Unite, alla luce della ratio ispiratrice della novella codicistica, ossia la necessità di scongiurare diverse impugnazioni provenienti dalla parte pubblica, l'obiettivo primario è il coordinamento tra gli uffici del Procuratore della Repubblica e del Procuratore Generale. Questa conclusione – che poi in realtà è una premessa – trova il suo addentellato normativo nelle disposizioni di attuazione del codice di rito. Esse consentono di attribuire un significato concreto alla parola “acquiescenza”, che rimanda fra l'altro a un concetto privo di una definizione codicistica. L'acquiescenza non è la rinuncia all'impugnazione, ricorda la Corte: quest'ultima è infatti una manifestazione di volontà espressa. L'acquiescenza, intesa come volontà di non impugnare un provvedimento, è un elemento costitutivo della legittimazione del P.M. di secondo grado ad impugnare la sentenza, ed è la risultante del coordinamento tra gli uffici del P.M. e del P.G., per come voluto dalle disposizioni attuative del codice di procedura penale: di conseguenza, può essere espressa in qualunque maniera (anche la più informale). La conclusione logica di questo ragionamento non può allora che essere una: se fa difetto l'acquiescenza il Procuratore Generale non è legittimato a presentare appello, ma non potrà nemmeno presentare ricorso immediato né ricorso ordinario avverso una sentenza pronunciata all'esito del primo grado di giudizio.
*Fonte: DirittoeGiustizia |