One class show? Fra illusioni di autonomia negoziale e poteri eteronomi del debitore

Danilo Galletti
24 Maggio 2023

Viene sottoposta a vaglio critico la tesi secondo la quale sarebbe consentita l'omologa del concordato in continuità laddove questo sia stato approvato non dalla maggioranza delle classi, bensì da una sola di esse, purché “in the money”. L'Autore suggerisce una soluzione alternativa, che consenta l'adesione al piano di un'aliquota almeno "rappresentativa" del ceto creditorio.

Tiene già banco, e non poteva certo essere diversamente, la questione relativa all'interpretazione dell'art. 112, comma 2, lett. d) CCII, là dove esso consentirebbe, secondo una certa lettura, l'omologa del concordato con continuità approvato non già dalla maggioranza delle classi, bensì da “una” sola classe, che tuttavia sarebbe (nella ricostruzione già divenuta vulgata, posto che la formulazione letterale non è affatto chiara) in the money, almeno parzialmente, nell'alternativa liquidatoria.

Si sono addotti vari argomenti per sostenere tale esegesi: che essa troverebbe conferma letterale nella Direttiva (art. 11), ed anzi si imporrebbe proprio come interpretazione “unionalmente conforme”; che in fondo dolersi della mancata verifica del raggiungimento di una “maggioranza” avrebbe poca pregnanza, in un sistema che non pone soglie minime al valore complessivo dei crediti rappresentati nelle singole classi, e che in fondo tale situazione costituirebbe una sorta di “cartina di tornasole” rispetto alla equità del concordato proposto, poiché esso sarebbe così accettato proprio da una classe teoricamente “svantaggiata”.

Qualcuno (Vattermoli) ha sapidamente parlato di one class show.

L'ultimo argomento addotto mi pare particolarmente mistificatorio: esso vorrebbe individuare, con ingenuità apparente, nella classe c.d. “svantaggiata” una sorta di motivazione “etica” in re ipsa; ma in realtà mi pare evidente che, se dei creditori apparentemente “pregiudicati” dalla proposta concordataria si esprimono a favore della stessa, ci si dovrebbe piuttosto porre il problema del perché razionalmente essi agiscano in tal senso; e la risposta in termini “etici” potrebbe non apparire spesso rassicurante, lasciando forse essa in realtà “occulte” le reali motivazioni, per nulla intessute di eticità (e che non di rado dovrebbero azionare piuttosto il divieto di voto ai sensi del comma 6° dell'art. 109).

Nemmeno pare soddisfacente l'asserto per cui tale lettura sarebbe addirittura doverosa in forza del tenore della Direttiva (si v. invece Trib. Bergamo, 11 aprile 2023, che per incidens in esito rigetta l'omologazione): che il senso e la lettera dell'art. 11 debbano essere intesi nella direzione indicata non pare invero discutibile; ma “obbligata” è semmai, e solo, l'interpretazione che asseconda i veri e propri “precetti” posti dai testi comunitari, laddove il diritto unionale consente qua esplicitamente di “aumentare il numero minimo delle classi di parti interessate”, purché non si addivenga alla pretesa di imporne l'unanimità.

Non “casualmente”, del resto, quasi tutti gli altri paesi europei hanno adottato la regola maggioritaria (delle classi).

Si è però ribattuto, certo non irragionevolmente, che quantomeno il Legislatore italiano, se davvero avesse inteso valersi di tale facoltà, avrebbe dovuto dirlo espressamente.

D'altro canto, è però anche vero che predicare l'esigenza che sia la maggioranza delle classi ad approvare il concordato non assicura in alcun modo che ciò corrisponda all'espressione di un consenso realmente “maggioritario” dei creditori, posto che le classi approvanti, appunto, potrebbero anche essere rappresentative di una percentuale minima del passivo.

Dobbiamo, quindi, ritenere che il voto concordatario sia oramai divenuto solo un meccanismo che dà veste formale alla facoltà del ceto creditorio, laddove esso si esprima negativamente in modo “massiccio” (in sostanza votando contro a grande partecipazione in ogni classe), di esercitare un potere di “veto” rispetto alla soluzione regolatoria concordataria proposta, laddove il concordato preventivo non sarebbe più ormai, a ben vedere, uno strumento “consensuale”? La tesi (di D'Attorre) è come al solito suggestiva, e andrebbe esaminata con attenzione.

A me pare che tale conclusione collocherebbe il “nuovo” concordato in una dimensione ove la sbandierata “autonomia negoziale” (addirittura enfatizzata in norme, come l'art. 92, comma 3, CCII, che aprendo alla “negoziazione del piano” sembrano far presagire scenari prima inusitati) dovrebbe cedere il passo alla “eteronomia” più selvaggia; eteronomia però del debitore, alla quale i creditori si troverebbero soggetti, e non di un potere pubblico.

Una eteronomia del concordato “principale” che collocherebbe allora in terzo o quarto piano anche la eteronomia del concordato “semplificato”; ed ove sarebbe proprio il primo strumento a poter costituire la “clava” che il debitore potrebbe roteare minacciosamente durante i tentativi stragiudiziali di regolazione della crisi (anche collocati nel contesto della composizione negoziata); dunque il figlio degenere (concordato semplificato) finirebbe così per soccombere subito rispetto al padre, che fra l'altro potrebbe godere spesso di un periodo di elaborazione più ampio, sessanta giorni in prima battuta ma addirittura centoventi, ove si avesse la fortuna di non inciampare in una istanza di liquidazione giudiziale.

A ben vedere, questo potrebbe altresì corrispondere ai fini soggettivi, neanche tanto reconditi, di qualche gruppo di pressione.

Se il sistema fosse effettivamente questo, allora potremmo dire che ormai non ha più senso parlare di “approvazione” del concordato, o di ricerca in qualsiasi modo del consenso dei creditori: il fatto dell'approvazione da parte della classe “svantaggiata”, infatti, verrebbe assunto dall'ordinamento a prova della “equità” della soluzione regolatoria, e l'omologazione ne conseguirebbe praticamente de plano.

Ma è davvero così? O meglio, deve essere necessariamente così?

A me pare che il sistema vada ricostruito in termini “complessivi”, piuttosto che sulla base delle propensioni ideologiche di questo o di quell'interprete, più o meno incline ad “isolare” singoli dati testuali. Ed allora l'art. 109, comma 1, CCII potrebbe assumere la funzione di norma generale sull'approvazione del concordato, non di precetto speciale per i concordati “altri” da quelli con continuità.

La riserva “salvo quanto previsto, per il concordato in continuità aziendale, dal comma 5”, non mi pare precludere la possibilità di una interpretazione “combinata” degli artt. 109 e 112 CCII; quando il Legislatore vuol escludere radicalmente l'applicabilità di una norma ad una fattispecie, ne eccettua in modo esplicito il caso; ma qua il senso letterale delle parole è perfettamente armonizzabile con una applicazione concorrente, beninteso nei limiti della compatibilità.

L'art. 109, comma 1, CCII°, pone ai nostri fini due precetti potenzialmente applicabili al concordato con continuità: quello per cui l'approvazione richiede la “maggioranza dei crediti ammessi al voto”, e l'altro per cui la maggioranza deve essere raggiunta “nel maggior numero di classi”.

Il primo precetto non sembra compatibile con la struttura del nuovo concordato con continuità, e stavolta proprio in forza del dettato unionale: esso, infatti, mi sembra abbandonare esplicitamente l'idea della maggioranza “dei crediti”: il disposto dunque non è concretamente applicabile.

Non così, mi pare, per il precetto relativo alla maggioranza delle classi, che invece a mio avviso è applicabile, e dunque impone un'interpretazione restrittiva, ed armonica con la presenza del requisito “generale”, del riferimento nell'art. 112 ai caratteri della classe approvante.

Certo, potrà darsi il caso che le classi “maggioritarie” non rappresentino la più parte del passivo, ma questa è appunto la volontà del Legislatore unionale; e la novità è meno sconvolgente di quanto potrebbe sembrare, perché comunque le classi dovranno raggruppare i creditori fra di loro “simili”, e l'individuazione di caratteri omogenei, dal punto di vista giuridico ed economico, non offre possibilità senza limiti.

Il sistema, così concepito, incentiva certamente la moltiplicazione delle classi, e così la loro “frammentazione”; ma tale tendenza non rimarrà senza sanzioni, ove concepita in termini “abusivi”, cioè ove essa sia esclusivamente strumentale a conseguire la formazione di maggioranze “virtuali”.

Centrale sarà pertanto lo scrutinio rigoroso da parte del Tribunale della correttezza di tale procedimento formativo delle classi, da operarsi già in fase di apertura (come del resto è nel PRO, ove pure la formazione delle classi è obbligatoria, e con le proposte concorrenti), e non solo in limine all'omologazione.

Le classi divengono così strumento necessario per “isolare” i creditori fra di loro portatori di interessi omogenei, al fine di consentire agli stessi di organizzarsi per valutare la proposta, ed anche di “negoziarla” efficientemente (arg. ex art. 92), evitandosi in tal modo la possibilità che siano loro offerti trattamenti “discriminatori”.

Ed il concordato, dunque, resta in tal modo strumento di regolazione della crisi che ricerca il consenso di un'aliquota almeno “rappresentativa” del ceto creditorio.

E così, almeno in questo contesto, niente “clava” (già ve ne sono troppe), niente eteronomia del debitore sui creditori (anche quella non manca certo, fra le pieghe del sistema), quantomeno nell'utilizzo di quegli strumenti “residuali”, ove il controllo pubblico deve restare della massima intensità, proprio al fine di indirizzare su un piano equo e corretto ex ante i tentativi stragiudiziali di composizione della crisi.