La discussa natura giuridica del contratto avente oggetto futuro

27 Luglio 2023

Di seguito un'analisi del contratto avente oggetto futuro, della sua derivazione codicistica e delle più note teorie – dottrinali e giurisprudenziali – in merito alla natura giuridica dello stesso. Si accenna anche al contratto di vendita di cosa futura.

Il contratto avente oggetto futuro

Ai sensi dell' art. 1348 c.c. , è  ammissibile  la conclusione di un contratto avente ad oggetto una “ cosa futura ”. Effettivamente, l'art. 1346 c.c.  stabilisce che l'oggetto del contratto dev'essere:

  • possibile: la prestazione dev'essere suscettibile di essere eseguita materialmente;
  • lecito: la prestazione non dev'essere contraria a norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume;
  • determinato o determinabile: le parti in sede di stipula devono necessariamente aver individuato l'oggetto in maniera univoca o, quantomeno, devono aver stabilito i criteri per la determinazione futura.

Il fatto che l'oggetto possa essere anche solo determinabile ha portato parte della dottrina a considerare la disposizione di cui all'art. 1348 c.c. superflua e pleonastica.

In realtà l'art. 1348 c.c. non fa riferimento all'oggetto del contratto ex art. 1346 c.c. ma si riferisce unicamente alla res materiale oggetto della prestazione pattuita dalle parti. Le previsioni contenute negli artt. 1346 e 1348 c.c. operano, pertanto, su due piani giuridici differenti; la prima si riferisce alla possibilità di determinare l'oggetto stesso del contratto, la seconda ammette la possibilità che la cosa oggetto della prestazione non sia ancora venuta ed esistenza al momento della stipula dell'accordo.

Ciò premesso, per “cose future” si intendono sia i beni, sia i diritti su beni futuri, sia i diritti connessi a fattispecie negoziali e legali non ancora perfezionate al momento della conclusione del contratto; il presupposto fondamentale per la validità del contratto ad oggetto futuro è la possibilità che la cosa futura venga ad esistenza effettivamente.

Qualora nel contratto avente ad oggetto la prestazione di cose future venga ravvisata un'originaria impossibilità di venuta ad esistenza, lo stesso dovrà essere sicuramente ritenuto affetto da nullità.

La macro-distinzione elaborata dalla dottrina tradizionale vede contrapposte le cose soggettivamente e quelle oggettivamente future. Le prime sono quelle che al momento della stipula del contratto sono già venute ad esistenza ma non appartengono ancora alla sfera giuridica di colui che ne dispone mediante il contratto. Le seconde, al contrario, si caratterizzano per la loro inesistenza effettiva al momento della stipula in rerum natura.

Entrambe le tipologie di beni futuri sono accumunate dal fatto che la loro esistenza o, in caso di cose soggettivamente future, il loro ingresso nel patrimonio del disponente risultino quantomeno possibili al momento della conclusione del contratto.

Non solo.

Il contratto ad oggetto futuro dovrà comunque essere compatibile con il requisito della determinatezza (o determinabilità) dell'oggetto ai sensi dell'art. 1346 c.c., in assenza del quale lo stesso dovrà essere ritenuto intrinsecamente nullo.

Il contratto ad oggetto futuro più noto e utilizzato è senza alcun dubbio la vendita di cosa futura ai sensi dell'art. 1472 c.c.

Natura giuridica

La dottrina ha impiegato notevoli sforzi nel corso degli anni per giungere alla qualificazione della natura giuridica del contratto ad oggetto futuro, prospettando diverse soluzioni che tuttavia non hanno soddisfatto pienamente gli esperti; tali sforzi dottrinali sono stati motivati dalla necessità di comprendere gli effetti che derivano in seguito alla stipula del contratto a oggetto futuro e quelli che, al contrario, si manifestano unicamente nel momento in cui il bene viene effettivamente ad esistenza.

Una prima distinzione vede contrapposte le teorie che riconoscono la natura unitaria del contratto a oggetto futuro e quelle che sottolineano la presenza di negozi giuridici differenti.

Appartenente al primo filone dottrinale è la teoria del contratto c.d. incompleto, secondo la quale il contratto a oggetto futuro dev'essere considerato come un unico negozio complesso a formazione progressiva che, tuttavia, risulta completo solo nel caso in cui il bene futuro viene effettivamente ad esistere. L'oggetto, elemento essenziale del contratto, nel particolare caso di specie viene ad esistenza in un momento successivo e perfeziona ex post il contratto già validamente esistente ma incompleto.

La critica che può essere mossa a tale orientamento si fonda sulla già citata necessaria distinzione che intercorre tra oggetto del contratto e oggetto materiale della prestazione; in caso di contratto a oggetto futuro, l'oggetto è già determinato o determinabile pur non essendo ancora soggettivamente o oggettivamente presente e, pertanto, il contratto possiede gli elementi essenziali previsti dalla legge già al momento della stipula.

Tra le altre teorie moniste che si sono susseguite nel corso degli anni è necessario menzionare quella che qualifica tale contratto alla stregua di un negozio condizionato.

Il contratto, una volta stipulato, è completo in ogni sua parte ma è sottoposto a una condizione sospensiva volontaria, identificabile nell'esistenza dell'oggetto futuro. La principale critica che viene sollevata in relazione a tale ricostruzione si fonda su uno degli effetti principali della condizione sospensiva, la sua retroattività; l'acquisto del diritto sul bene futuro, al contrario, avviene ex nunc.

La medesima critica è stata mossa a quel filone dottrinale che ha qualificato il contratto a oggetto futuro quale contratto sottoposto a condizione sospensiva legale impropria, che subordina l'esistenza del negozio alla venuta ad esistenza del bene.

La teoria sostenuta dalla giurisprudenza e dalla dottrina prevalente qualifica tale contratto quale negozio obbligatorio, dotato di efficacia sin dal momento della conclusione e comportante l'insorgere dell'onere a carico delle parti di impegnarsi al fine di ottenere la venuta ad esistenza del bene; tale ricostruzione è indirettamente confermata dall'art. 1476 n. 2 c.c., il quale prevede, tra le obbligazioni principali del venditore, quella di far acquisire la proprietà della cosa o del diritto all'acquirente, nel caso in cui ciò non sia un effetto immediato del contratto.

Tra le teorie che rinvengono nel contratto a oggetto futuro un'unione di negozi giuridici differenti occorre menzionare quella – sostenuta da un orientamento dottrinale minoritario – che identifica il primo negozio giuridico in una promessa di vendita di beni futuri (con effetti del tutto analoghi a quelli che derivano da un contratto preliminare) seguita, una volta realizzatasi la venuta ad esistenza del bene, da una vendita definitiva del bene esistente. La critica principale che ha impedito l'affermazione di tale teoria è la contraddizione in termini con la disposizione legislativa che ammette l'esistenza di un contratto a oggetto futuro.

La vendita di cosa futura

Come si è precedentemente anticipato, l'ambito in cui assume maggior rilievo il contratto a oggetto futuro è quello della vendita di cosa futura (c.d. emptio rei speratae) in occasione della quale, ai sensi dell'art. 1472 c.c., «[…] l'acquisto della proprietà si verifica non appena la cosa viene ad esistenza. Se oggetto della vendita sono gli alberi o i frutti di un fondo, la proprietà si acquista quando gli alberi sono tagliati o i frutti sono separati». 

Mediante la stipula di una compravendita di cosa futura, il Legislatore permette la libera disposizione di un bene che risulta, nei termini anzidetti, oggettivamente o soggettivamente inesistente e il trasferimento effettivo della proprietà avviene nel momento in cui il bene viene ad esistenza.

In caso contrario, il contratto di vendita di cosa futura deve ritenersi nullo per assenza dell'oggetto ai sensi dell'art. 1325 n. 3 c.c.; tuttavia, in termini non codicistici, il contratto di vendita deve ritenersi perfezionato al momento della conclusione dell'accordo, difettando solo l'efficacia della condizione sospensiva alla quale lo stesso è subordinato.

Da ciò deriva che la mancata venuta ad esistenza del bene oggetto di vendita inficia l'efficacia del contratto e non comporta la nullità dell'accordo.

Non manca, tuttavia, un orientamento giurisprudenziale minoritario che ritiene che «Nell'ipotesi di emptio spei speratae, a norma dell'art. 1472 c. 2 c.c., la vendita è soggetta alla condicio iuris della venuta ad esistenza della cosa alienata, la cui mancata realizzazione comporta non già la risoluzione del contratto per inadempimento, bensì la sua nullità per mancanza dell'oggetto» (Cass. 30 giugno 2011 n. 14461).

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