Validità del ricorso per cassazione notificato a mezzo PEC privo di sottoscrizione digitale

Redazione scientifica
16 Giugno 2023

La sezione tributaria della Corte ha rimesso alle Sezioni Unite la definizione della questione inerente alla validità dell'atto introduttivo del giudizio (anche d'impugnazione) nativo informatico, ma privo di sottoscrizione digitale.

La vicenda trae origine dall'eccezione sollevata dalla società contribuente, controricorrente in cassazione, di inesistenza del ricorso per cassazione nativo digitale notificato dall'Agenzia delle Entrate, giacché privo di sottoscrizione digitale da parte dell'avvocato dello Stato titolare del fascicolo. Sul punto, la società invocava il precedente di Cass. n. 3379/2019, secondo cui “Il ricorso per cassazione privo della sottoscrizione dell'avvocato deve considerarsi giuridicamente inesistente e, quindi, inammissibile, in applicazione del principio generale sancito dall'art. 161, comma 2, c.p.c., estensibile a tutti gli atti processuali”.

I giudici di legittimità disattendono preliminarmente il richiamo operato dalla controricorrente al precedente citato giacchè inerente a ricorso analogico o cartaceo, mentre, nel caso che qui occupa “il ricorso è nativo digitale, ossia è stato redatto e interamente confezionato in ambiente informatico, e così notificato dall'Agenzia alla società controricorrente, tuttavia privo di firma da parte dell'avvocato dello Stato”.

Osservano quindi i giudici che la specifica questione dell'atto introduttivo del giudizio (anche d'impugnazione) nativo informatico, ma privo di sottoscrizione digitale, nel panorama della giurisprudenza di legittimità è stato affrontato con due sole pronunce. Con la prima (Cass. n. 14338/2017), si è statuito che “L'atto introduttivo del giudizio redatto in formato elettronico e privo di firma digitale è nullo, poiché detta firma è equiparata dal d.lgs. n. 82/2005 alla sottoscrizione autografa, che costituisce, ai sensi dell'art. 125 c.p.c., requisito di validità dell'atto introduttivo (anche del processo di impugnazione) in formato analogico”. Senonché, la successiva Cass., sez. un., n. 22438/2018, ha affermato che “In tema di giudizio per cassazione, in caso di ricorso predisposto in originale in forma di documento informatico e notificato in via telematica, l'atto nativo digitale notificato deve essere ritualmente sottoscritto con firma digitale, potendo la mancata sottoscrizione determinare la nullità dell'atto stesso, fatta salva la possibilità di ascriverne comunque la paternità certa, in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo”.

Stando quindi alla massima sopra riportata, le Sezioni Unite ascrivono esplicitamente il difetto di sottoscrizione digitale dell'atto alla sua mera nullità (così come la stessa Cass. n. 14338/2017, già citata), affermando però che il vizio sia suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo, ove sia possibile attribuirne la paternità certa. Nel ritenere ciò, il Massimo Consesso sembra discostarsi dalla stessa precedente giurisprudenza sul difetto di firma dell'atto processuale analogico o cartaceo, che pressoché univocamente volge verso la categoria dell'inesistenza dell'atto stesso, di per sé non suscettibile di sanatoria.

Al riguardo, è ben vero che non sia tecnicamente configurabile alcun contrasto di giurisprudenza sul punto, per effetto della stessa Cass., sez. un., n. 22438/2018. Tuttavia, occorre, secondo i giudici considerare che: a) anzitutto, il principio in discorso è a ben vedere estrapolato dal contesto della motivazione - di cui costituisce ovviamente uno snodo logico-giuridico, e non un mero obiter dictum -, benché non sia specificamente riepilogato nell'ambito di quelli elencati nel par. 27 della stessa sentenza, come resi ai sensi dell'art. 363 c.p.c., comma 3; b) in secondo luogo, le Sezioni Unite riportano il vizio in parola alla categoria della nullità, per quanto l'art. 365 c.p.c. preveda il requisito della sottoscrizione del ricorso come dettato ai fini dell'ammissibilità dell'atto, tanto che la giurisprudenza – sia precedente, sia successiva al citato arresto del 2018 - riconduce il vizio stesso ad un deficit strutturale dell'atto medesimo, e dunque alla sua inesistenza; c) ancora, per effetto di detta qualificazione di nullità, la sentenza richiama il principio del raggiungimento dello scopo, ipotizzando il ricorso alla sanatoria del vizio, ove sia possibile attribuire la paternità certa dell'atto; d) infine, la pronuncia non si sofferma esplicitamente sulla necessità che una tale opzione debba pur sempre ricollegarsi ad una sottoscrizione comunque apposta sull'atto, anche se ad altri, lasciando aperta - in difetto di approfondimento sul punto, evidentemente in quel caso non necessario - la possibilità di ipotizzare che una simile indagine possa anche condursi in forza di altri elementi, esterni all'atto processuale.

I dubbi che, sul piano dell'ermeneutica dell'art. 365 c.p.c., pone l'eccezione sollevata dalla controricorrente, poi, risultano vieppiù amplificati per effetto delle ulteriori considerazioni. In particolare, diverse disposizioni normative esprimono il c.d. principio di non discriminazione del documento informatico, rispetto a quello analogico o tradizionale (così l'art. 23, comma 2, CAD, l'art. 20 CAD, l'art. 25 parr. 1 e 2, Regolamento UE n. 910/2014. Ora, se è del tutto comprensibile che, nell'ottica della sempre maggiore digitalizzazione del processo (di recente realizzata anche per il giudizio di legittimità), l'ordinamento - con disposizioni come quelle che precedono - si sforzi di condurre e segnare un percorso di piena equiparazione tra il documento digitale e quello che, tradizionalmente, ha costituito il substrato delle relative categorie concettuali espresse anche in ambito processuale, ossia il documento analogico, ciò non può certo implicare una sorta di “discriminazione al contrario”. Si vuole cioè dire che il documento informatico - al di là delle sue intrinseche ed intuitive peculiarità “fisiche” - non può di per sé avere un “peso” superiore rispetto alla corrispondente categoria di riferimento, in ambiente analogico. Il che, rapportato al tema che occupa, significa che un atto processuale, sol perché informatico, non può di per sé supplire al deficit strutturale da cui esso sia eventualmente affetto.

Stante la complessità e l'importanza della questione la Corte trasmette gli atti al Primo Presidente perché valuti se investirne le Sezioni Unite.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.