Commette un reato il genitore che picchia il figlio che non studia
06 Luglio 2023
Massima
Le condotte, seppur connotate da spirito educativo, ma caratterizzate da modalità aggressive sono incompatibili con l'esercizio lecito del potere correttivo e pedagogico, che mai deve abbattersi sull'armonico sviluppo della personalità del minore. Il caso
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Ravenna propone ricorso per cassazione contro la sentenza emessa da tale Tribunale con la quale Tizio è stato condannato alla pena di 20 giorni di reclusione per il reato di abuso di mezzi di correzione o di disciplina, ai sensi dell'art. 571 c.p., così riqualificata l'originaria imputazione di cui all'art. 572 c.p. (maltrattamenti in famiglia), deducendo il vizio di violazione dell'art. 571 c.p.. Il Tribunale aveva, infatti, erroneamente qualificato come “abuso di mezzi di correzione” le condotte violente poste in esse da Tizio nei confronti del figlio minore ed escluso l'abitualità delle condotte sulla base del solo dato relativo al numero dei comportamenti, omettendo di considerare la sistematicità delle condotte di sopraffazione fisica e morale descritta dal minore il cui racconto è stato considerato attendibile dal Tribunale. La Suprema Corte accoglierà il ricorso e rinvierà la decisione ad altra sezione della Corte d'appello di Bologna, non ritenendo il configurarsi del reato di abuso di mezzi di correzione bensì di quello di maltrattamenti in famiglia. La questione
Le condotte connotate da modalità aggressive e dall'impiego di violenza fisica o psichica sono compatibili con l'esercizio lecito del potere correttivo ed educativo ovvero incidono sullo sviluppo armonico della personalità del minore, esulando esse dal perimetro applicativo dell'articolo sull'abuso dei mezzi di correzione? Le soluzioni giuridiche
Nel caso di specie, il Tribunale ha riqualificato la condotta muovendo innanzitutto dall'analisi del capo di imputazione in cui sono state contestate all'imputato condotte di maltrattamento del figlio minore, consistite nel colpirlo con calci, nel metterlo al corrente dei suoi dubbi sulla paternità, nel chiuderlo fuori sul terrazzo e nel colpirlo con una cinta alla schiena. Il Tribunale ha ritenuto di riqualificare le condotte nel reato di abuso di mezzi di correzione o di disciplina, considerando il loro carattere episodico e la loro correlazione al rendimento scolastico del minore. La Suprema Corte, tuttavia, reputa che la sentenza impugnata sia oggetto di violazione di legge, qualificando erroneamente le condotte accertate in dibattimento ai sensi dell'art. 571 c.p. e afferma che “l'abuso presuppone l'eccesso nell'uso di mezzi di correzione o di disciplina in sé giuridicamente leciti. Tali non possono tuttavia considerarsi gli atti che, pur ispirati da un animus corrigendi, sono connotati dall'impiego di violenza fisica o psichica”. Invero, come già affermato dalla Corte di Cassazione “alla luce della linea evolutiva tracciata dalla Convenzione dell'ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, approvata dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, le condotte connotate da modalità aggressive sono incompatibili con l'esercizio lecito del potere correttivo ed educativo, che mai deve deprimere l'armonico sviluppo della personalità del minore” (cfr. Cass. pen. 3 marzo 20222, n. 13145). I giudici confermano che “l'uso di qualunque forma di violenza fisica o psicologica a scopi educativi esula dal perimento applicativo dell'art. 571 c.p.; ciò sia per il primato che l'ordinamento attribuisce alla dignità della persona, anche del minore, ormai soggetto titolare di diritti e nonpiù, come in passato, semplice oggetto di protezione– se non addirittura di disposizione – da parte degli adulti; sia perché non può perseguirsi, quale meta educativa, un risultato di armonico sviluppo di personalità, sensibile ai valori di pace, di tolleranza, di connivenza utilizzando un mezzo violento che tali fini contraddice”. Attualmente, si ritiene ammessa tra i mezzi di correzione esclusivamente una vis modicissima, per cui “non possono ritenersi preclusi quegli atti di minima violenza fisica o morale, che risultano necessari per rafforzare la proibizione, non arbitraria né ingiusta, di comportamenti oggettivamente pericolosi o dannosi rispecchianti l'inconsapevolezza o la sottovalutazione del pericolo, la disobbedienza gratuita, oppositiva e insolente”, integrando invece “la fattispecie dell'art. 571 c.p., non trasmodando in quello più grave dell'art. 572 c.p., l'uso in funzione educativa del mezzo astrattamente lecito, sia esso di natura fisica, psicologica o morale, che sconfina nell'abuso, sia in ragione dell'arbitrarietà o intempestività della sua applicazione, sia in ragione dell'eccesso della misura, senza tuttavia attingere a forme di violenza”. Sulla stessa linea la sentenza della Suprema Corte che ha ritenuto l'uso occasionale di un “opportuno “ceffone” consentito e legittimo nella misura in cui non trasmodi in apprezzabile eccesso, trasformandosi, in tal caso, nell'illecito dell'abuso” (Cass. pen., sez. VI, 9 gennaio 2004, n. 4934). Si ricordi, a tal proposito, la notizia del 27 giugno 2007 di un'insegnante assolto per aver fatto scrivere cento volte sul quaderno la frase “sono un deficiente” come punizione per un comportamento malvagio del ragazzo nei confronti di un suo compagno di classe. Osservazioni
Partiamo dalla definizione che il codice penale, all'art. 571 c.p., dà dell'abuso dei mezzi di correzione o disciplina: “commette il delitto di abuso dei mezzi di correzione o disciplina chiunque abusa dei mezzi di correzione o disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l'esercizio di una professione o di un'arte”. Questa previsione normativa è collocata nel secondo libro del codice penale, sotto il titolo dedicato ai delitti contro la famiglia e, in particolare, nel capo quarto, intitolato “dei delitti contro l'assistenza familiare”. Per il suo ambito di applicazione e il suo contenuto, la norma è una delle più dibattute del nostro ordinamento e ha dato origine a diversi contrasti interpretativi. L'articolo in esame, in particolare, ha la finalità di reprimere la condotta di tutti coloro che, in forza della loro autorità, abusano dei mezzi di correzione e di disciplina nei confronti della persona loro sottoposta o loro affidata per varie ragioni. Il bene giuridico tutelato è l'interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia e di tutte le altreistituzioni interessate nei rapporti di disciplina. Nonostante la disposizione normativa utilizzi l'espressione “chiunque”, è necessario che il soggetto attivo del reato sia titolare di un potere legittimo di correzione o di disciplina. Di conseguenza, si è in presenza di un reato proprio, considerato che i soggetti attivi e, quindi, legittimati a usare mezzi di correzione o di disciplina possono essere soltanto quegli individui legati al soggetto passivo da un vincolo di cui sono titolari. La condotta sanzionata si realizza quando l'azione posta in essere dal soggetto attivo, trascendendo i limiti dell'uso del potere correttivo e disciplinare a lui spettante nei confronti della persona offesa, sconfina nell'abuso, qualora lo ius corrigendi venga posto in essere con modalità non appropriate o per cercare di raggiungere un interesse diverso da quello per il quale è conferito dall'ordinamento. Questo delitto, così come è stato delineato dalla norma, è sottoposto ad una condizione obiettiva di punibilità, in quanto l'abuso del mezzo correttivo o disciplinare integra il reato solamente se da esso derivi una malattia nel corpo e nella mente del soggetto passivo. Ai fini della sussistenza della condotta tipica rileva la nozione di malattia nella mente, implicante la rilevanza penale della condotta. Essa è più ampia di quelle relative all'imputabilità ovvero ai fatti di lesione personale, estendendosi fino a comprendere ogni conseguenza rilevante sulla salute psichica del soggetto passivo, dallo stato d'ansia all'insonnia, dalla depressione ai disturbi del carattere e del comportamento(Cass. pen., sez. VI, sent. 16 febbraio 2010, n. 18289). Sull'elemento soggettivo, perché si integri la fattispecie prevista dall'art. 571 c.p.c, è sufficiente il dolo generico, non richiedendo la norma il dolo specifico, cioè un fine particolare e ulteriore rispetto alla consapevole volontà di realizzare il fatto costituivo del reato. La dottrina, tuttavia, ha evidenziato come il delitto di abuso dei mezzi di correzione e di disciplina, proprio perché a dolo generico, presuppone l'uso lecito di tali mezzi, a prescindere dall'animus corrigendi e si realizza quando invece l'uso viene effettuato con modalità non adeguate o per perseguire un interesse diverso da quello per il quale è conferito dall'ordinamento. Una delle interessanti questioni che ha più interessato la dottrina e la giurisprudenza sull'argomento è la distinzione tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e disciplina e quello di maltrattamenti in famiglia. Infatti, i due delitti hanno avuto un iter parallelo nella codificazione italiana: i loro confini sono spesso sfumati, in considerazione della sovrapponibilità tra soggetti attivi e soggetti passivi e delle condotte tipiche similari. Dopo l'emanazione del Codice Rocco, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti individuarono la linea di demarcazione trai due reati nel c.d. animus corrigendi, ossia nella volontà da parte dell'agente di correggere la persona sottoposta alla sua autorità. Se era presente l'intento correttivo, si ricadeva nell'ipotesi di cui all'art. 571 c.p., altrimenti sussisteva la fattispecie di cui all'art. 572 c.p.. Tale interpretazione è frutto del pensiero dell'epoca in cui fu elaborata, quando si riteneva pienamente legittimo l'utilizzo della vis modica come mezzo di correzione. Si tenga a mente che nel contesto storico sociale in cui fu emanato il codice Rocco dominava un'ideologia improntata all'autoritarismo e al principio gerarchico che prevedeva la sottomissione all'autorità statuale, familiare, scolastica tra i valori primari dello Stato, comportando così che, in tale contesto ideologico, venisse tollerato l'uso della violenza come mezzo correttivo, purchè posto in essere attraverso mezzi leciti ed entro determinati limiti. A tale stregua venivano considerati intollerabili e, di conseguenza, perseguibili, esclusivamente gli eccessi disciplinari dell'educatore o quei comportamenti che, pur avendo finalità educative, esulavano dal concetto di mezzi di correzione, sfociando nei maltrattamenti. Questa distinzione, basata su un'ideologia superata, ha accompagnato la storia di tali reati fino a tempi recenti, in cui si è continuato a far leva, quale elemento distintivo, sull'animus corrigendi. Solo in tempi relativamente moderni la giurisprudenza ha recepito l'esortazione proveniente da diverse fonti, quali parti della dottrina, dall'evoluzione storico sociale e dai diversi mutamenti legislativi che ne sono scaturiti, respingendo una volta per tutte l'utilizzo della violenza come mezzo di correzione e, quindi, come strumento educativo. La Costituzione italiana prima (1947), la legge di riforma del diritto di famiglia poi (1975) e successivamente la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino (1989) hanno gradualmente determinato l'opportunità di interpretare gli artt. 571 e 572 c.p. alla luce di nuovi principi e valori, portando come risultato che è culturalmente fuori tempo e giuridicamente inammissibile un'interpretazione delle predette norme che erano fondate sui paradigmi autoritaristici caratterizzanti l'ordinamento nel 1930. Da ciò ne è derivato un restringimento dell'ambito di applicazione dell'art. 571 c.p. e una lettura invertita dei rapporti tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti, portando la giurisprudenza a qualificare come maltrattamento, anziché come abuso di mezzo correttivo, l'esercizio di una funzione educativa caratterizzata da modalità afflittive della personalità. Al riguardo, è opportuno soffermare l'attenzione su una sentenza della Suprema Corte, la cui motivazione è particolarmente chiara ed efficace, con riferimento agli elementi distintivi tra i due reati (cass. pen., sez. VI, sent. 18 marzo 1996, n. 4904). Si legge nella motivazione di tale sentenza che, nel momento in cui il giudice si trova di fronte alla necessità di valutare quando un comportamento costituisca abuso di mezzi di correzione e quale significato debba essere attribuito alla locazione “maltrattamento del minore” deve operare tale valutazione alla luce dei valori attuali della nostra civiltà, valori che escludono che la violenza possa costituire strumento educativo e che sono suggellati dalla Costituzione e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino. Inoltre, le norme di tale Convenzione, che abbiano un contenuto preciso e determinato, sono immediatamente applicabili, soprattutto quelle che stabiliscono diritti dei minori e corrispondenti obblighi dei genitori, di altri privati e della pubblica amministrazione. Avendo, peraltro, lo Stato Italiano assunto l'obbligo di garantire e rispettare i diritti imposti dalla Convenzione, al fine di rendere effettiva la loro applicazione, è imposto al giudice di applicare direttamente tutte quelle disposizioni della Convenzione che non richiedono un intervento legislativo e, altresì, di interpretare le norme preesistenti alla luce di quei valori. Dopo aver fatto tale premessa la Suprema Corte prende in considerazione gli artt. 571 e 572 c.p. e li interpreta alla luce dei valori appena enunciati. Al riguardo, i giudici di legittimità ritengono che il termine correzione debba essere considerato sinonimo di educazione. Ciò comporta che l'abuso dei mezzi di correzione non può essere sussunto nell'art. 571 c.p. poiché si può ipotizzare un abuso solo nel caso in cui sia lecito l'uso, implicando che, se vengono utilizzati mezzi illeciti di per se stessi, non si può configurare il reato de quo. In buona sostanza, la Suprema Corte ritiene integrato il reato di abuso di mezzi di correzione o educazione solo nel caso in cui vi sia eccesso di metodi educativi leciti. La successiva giurisprudenza ha chiarito ulteriormente tale distinzione. Sull'argomento, è stato ritenuto che “il delitto di abuso di mezzi di correzione e disciplina presuppone un uso consentito e legittimo dei mezzi educativi che, senza attingere a forme di violenza, trasmodi in abuso a causa dell'eccesso, arbitrarietà o intempestività della misura. Ove, invece, la persona offesa sia vittima di continui episodi di prevaricazione e violenza, tali da rendere intollerabili le condizioni di vita, ricorre il più grave reato di maltrattamenti in famiglia” (Cass. pen., sez VI, sent. 12 settembre 2007, n. 34460). Riferimenti
Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, Giuffrè, 2022, p. 510; Pisapia, Abuso dei mezzi di correzione e disciplina, in Dig. Dir. pen., Milano, 1987, p. 34; Colombo, L'art. 571 c.p. ed il discusso problema dei limiti dello Jus corrigenda, in Riv. pen., 2009, p. 647 ss.; Manzini, Trattato di diritto penale, vol. VII, Milano, p. 900 ss.; Sez. I, 2 marzo 1960, Modica, in Giust. Pen., 1960, II, c. 840; in Riv. pen., 1960, II, p. 248; Ferraro, Distinzione tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e disciplina e il reato di maltramenti in famiglia: l'evoluzione giurisprudenziale, in Riv. pen., 2008, p. 668 ss; Silvani, Sui rapport tra delitto e abuso dei mezzi di correzione nelle scuole elementari, Cass. pen. 2003, 6, 18444. |