Il consenso dell’uomo alla fecondazione assistita non può essere revocato
24 Luglio 2023
La sentenza depositata oggi dalla Corte Costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 3, ultimo periodo, l. n. 40/2004, giudicando non irragionevole il bilanciamento operato dal legislatore. Nel caso oggetto del giudizio a quo una donna aveva richiesto l'impianto dell'embrione crioconservato, nonostante nel frattempo si fosse separata dal coniuge. Questo si è opposto ritirando il consenso precedentemente prestato, ritenendo di non poter essere obbligato a diventare padre. Il giudice ha quindi sollevato la questione di costituzionalità in riferimento alla suddetta norma che stabilisce l'irrevocabilità del consenso. Secondo la disposizione censurata infatti, per effetto della crioconservazione, è possibile la richiesta dell'impianto degli embrioni non solo a distanza di tempo ma anche quando sia venuto meno l'originario progetto di coppia. Pur riconoscendo che la norma «si è venuta a collocare al limite di quelle che sono state definite “scelte tragiche” […], in quanto caratterizzate dall'impossibilità di soddisfare tutti i confliggenti interessi coinvolti nella fattispecie», la sentenza ha evidenziato che «l'irrevocabilità del consenso appare funzionale a salvaguardare innanzitutto preminenti interessi. L'accesso alla PMA comporta infatti per la donna il grave onere di mettere a disposizione la propria corporalità, con un importante investimento fisico ed emotivo in funzione della genitorialità che coinvolge rischi, aspettative e sofferenze, e che ha un punto di svolta nel momento in cui si vengono a formare uno o più embrioni. Corpo e mente della donna sono quindi inscindibilmente interessati in questo processo, che culmina nella concreta speranza di generare un figlio, a seguito dell'impianto dell'embrione nel proprio utero. A questo investimento, fisico ed emotivo, che ha determinato il sorgere di una concreta aspettativa di maternità, la donna si è prestata in virtù dell'affidamento in lei determinato dal consenso dell'uomo al comune progetto genitoriale». Inoltre, «se è pur vero che dopo la fecondazione la disciplina dell'irrevocabilità del consenso si configura come un punto di non ritorno, che può risultare freddamente indifferente al decorso del tempo e alle vicende della coppia, è anche vero che la centralità che lo stesso consenso assume nella PMA, comunque garantita dalla legge, fa sì che l'uomo sia in ogni caso consapevole della possibilità di diventare padre; ciò che rende difficile inferire, nella fattispecie censurata dal giudice a quo, una radicale rottura della corrispondenza tra libertà e responsabilità». La sentenza ha quindi concluso che «[o]ve, dunque, si considerino la tutela della salute fisica e psichica della madre, e anche la dignità dell'embrione risulta non irragionevole la compressione, in ordine alla prospettiva di una paternità, della libertà di autodeterminazione dell'uomo». La sentenza ha infine precisato che la ricerca di un eventuale diverso punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze in gioco non può che spettare al legislatore.
Fonte: dirittoegiustizia.it |