Hate speech: non viola la libertà di espressione la condanna penale di un politico per commenti illeciti postati da terzi sulla bacheca di un social network

La Redazione
31 Luglio 2023

Nella causa in questione il ricorrente, che all'epoca era un rappresentante eletto locale e un candidato alle elezioni parlamentari, ha sostenuto che la sua condanna penale per incitamento all'odio o alla violenza contro un gruppo di persone o una persona a causa di una particolare religione e perché non era riuscito a rimuovere tempestivamente i commenti inviati da terzi sulla bacheca del suo account social, fosse contraria all'art. 10 della Convenzione EDU. Tuttavia, la Grande Chambre della Corte EDU, con pronuncia del 15 maggio 2023 (n. 45581/15), ha statuito la non violazione della libertà di espressione in quanto l'ingerenza può risultare «necessaria in una società democratica». Secondo la Corte di Strasburgo le decisioni dei giudici interni si basavano su motivi pertinenti e sufficienti, sia sotto il profilo della responsabilità del ricorrente, in quanto uomo politico, per i commenti illeciti pubblicati da terzi, essi stessi identificati e perseguiti come complici, che per quanto riguarda la sua condanna penale.

In data 15 maggio 2023, la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo si è pronunciata su un caso, già oggetto, nel 2021, di una decisione resa nel settembre 2021 dalla Quinta Sezione della stessa Corte. La recente decisione della Corte EDU rappresenta una pronuncia particolarmente importante nel contesto sua giurisprudenza in ambito di discorsi d'odio (hate speech).

La causa riguarda la condanna penale del ricorrente, all'epoca esponente politico di un partito francese e in corsa a delle elezioni parlamentari, per incitazione all'odio o alla violenza nei confronti di un gruppo di persone o di una persona a motivo di una religione determinata, per aver pubblicato sulla propria bacheca di un noto social network, accessibile pubblicamente, un post dove derideva il proprio avversario politico. In seguito, sono apparsi numerosi commenti al di sotto del post, contenenti frasi offensive nei riguardi dell'avversario politico del ricorrente.

Il ricorrente lamentava il fatto per cui la propria condanna penale per incitamento all'odio o alla violenza e la circostanza di non esser riuscito a rimuovere tempestivamente i commenti inviati da terzi sulla bacheca del suo account Facebook, fossero contrarie all'art. 10 della Convenzione EDU.

In tale controversia era unicamente in causa la mancanza di vigilanza e di reazione del ricorrente nei confronti dei commenti pubblicati da terzi. Si poneva così la questione della responsabilità condivisa dei diversi attori che intervengono sui social network. Le giurisdizioni penali, in applicazione del regime di «responsabilità a cascata» istituita dalla legge del 29 luglio 1982, avevano condannato gli autori dei messaggi controversi nonché il ricorrente nella sua qualità di «produttore», ossia di titolare del profilo Facebook.

In primo luogo, la Corte EDU, nella pronuncia in esame ritiene che il quadro giuridico interno che istituisce la responsabilità condivisa di tutti gli attori coinvolti fosse definito con sufficiente precisione, ai sensi dell'art. 10 della Convenzione EDU, per consentire al ricorrente, nelle circostanze del caso di specie, di regolare la sua condotta.

In secondo luogo, la Corte riconosce, al pari delle giurisdizioni interne, che i commenti controversi che si inserivano nel quadro specifico di un periodo elettorale, interpretati e valutati nel loro contesto immediato, erano sicuramente dei discorsi d'odio e quindi, illeciti.

In terzo luogo, essa ritiene che l'ingerenza nella libertà di espressione del ricorrente perseguisse non solo lo scopo legittimo di tutelare la reputazione o i diritti altrui, ma anche quello di assicurare la difesa dell'ordine e la prevenzione del crimine. Avendo il ricorrente deciso di rendere pubblico l'accesso alla bacheca del suo account social e di aver così «autorizzato i suoi amici a pubblicare commenti», la Corte rileva poi che egli non poteva ignorare, tenuto conto del contesto locale ed elettorale teso che esisteva all'epoca dei fatti, che tale opzione era manifestamente gravida di conseguenze.

Tenuto conto del margine di valutazione dello Stato convenuto, la Corte conclude che le decisioni dei giudici interni si basavano su motivi pertinenti e sufficienti, sia sotto il profilo della responsabilità del ricorrente, in quanto uomo politico, per i commenti illeciti pubblicati da terzi, essi stessi identificati e perseguiti come complici, che per quanto riguarda la sua condanna penale.

Pertanto, l'ingerenza controversa può risultare «necessaria in una società democratica». Per la Corte, dunque, non vi è stata pertanto violazione dell'art. 10 della Convenzione EDU.