Separazione giudiziale: addebito

11 Agosto 2023

Il presupposto della pronuncia di addebito della separazione è, ai sensi dell'art. 152, comma 2, c.c., un comportamento, cosciente e volontario, contrario ai doveri che discendono dal matrimonio.

Inquadramento

L'addebito della separazione trova richiamo normativo:

- Nell'. art. 151 comma 2 c.c. il quale dispone che “il giudice, pronunziando la separazione, dichiara, ove ne ricorrano le circostanze e ne sia richiesto, a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”.

- Nell'art. 156 c.c. il quale prevede che il giudice stabilisca un assegno di mantenimento a favore del coniuge a cui non sia addebitabile la separazione.

- Nell'art. 548 c.c. il quale stabilisce che il coniuge a cui sia stata addebita la separazione perda i diritti successori che, invece, spettano al coniuge separato senza addebito. Il coniuge destinatario dell'addebito ha diritto ad un assegno vitalizio a carico dell'eredità qualora, al momento dell'apertura della successione, fosse destinatario degli alimenti da parte del coniuge deceduto (art. 433 c.c.)

Prima della riforma del diritto di famiglia del 1975 la separazione poteva essere richiesta solo in presenza di tassative ipotesi di comportamenti contrari ai doveri matrimoniali. Si parlava addirittura di separazione "per colpa".

Con la riforma del 1975, al contrario, il legislatore proprio al fine di sganciare la separazione dal concetto di colpa ne ha diviso le sorti prevedendo che la separazione possa essere dichiarata anche per cause oggettive non necessariamente dipendenti dalla condotta volontaria di uno o di entrambi i coniugi. Ovvero l'intollerabilità della convivenza o il grave pregiudizio per l'educazione della prole, a dispetto della colpa (art. 150 c.c. e art 151 comma 1 c.c.).

Se però l'intollerabilità della convivenza è determinata dalla violazione dei doveri che derivano dal matrimonio da parte di un coniuge, è possibile chiedere al tribunale di accertare tali comportamenti e ottenere una separazione con addebito (art. 150, comma 2 c.c.).

L'addebito è, quindi, l'accertamento della violazione dei doveri matrimoniali che compie il Giudice durante il giudizio di separazione tra coniugi.

L'addebito, come si può ricavare dalla lettura congiunta delle norme sopra richiamate, ha natura sanzionatoria e punitiva, in quanto il coniuge a cui è addebitata la separazione perde il diritto all'assegno di mantenimento e i diritti successori.

Il legislatore ha ritenuto di mantenere l'istituto dell'addebito nell'intendimento di evitare che attraverso la separazione – e il conseguente eventuale diritto all'assegno - uno dei coniugi possa addirittura lucrare in relazione a propri comportamenti lesivi della solidarietà coniugale.

Il regime primario matrimoniale caratterizzato da doveri di solidarietà e di reciproca assistenza anche materiale impone al sistema di garantire che il coniuge senza adeguati redditi conservi anche dopo la separazione il diritto all'assistenza materiale da parte dell'altro coniuge. Pertanto sarebbe ingiusto che questa conseguenza venisse garantita anche nei confronti di chi si rende responsabile (“colpevole”) della fine della vita matrimoniale (così G. Dosi in I presupposti e le conseguenze dell'addebito nella separazione, Lessico di Diritto di Famiglia ETS).

I presupposti della pronuncia di addebito

I presupposti della pronuncia di addebito della separazione sono:

a) la sussistenza di un comportamento, cosciente e volontario, contrario ai doveri che discendono dal matrimonio disciplinati dall'art. 143 c.c. (i doveri di fedeltà, di assistenza morale e materiale, di collaborazione nell'interesse della famiglia e di coabitazione).

b) il nesso di causalità tra detto comportamento trasgressivo e la frattura del rapporto coniugale.

La pronuncia di addebito non può, infatti, fondarsi sulla sola mera inosservanza dei doveri coniugali, implicando, invece, tale pronuncia anche l'accertamento che la irreversibile crisi coniugale sia ricollegabile esclusivamente al comportamento volontariamente e consapevolmente contrario a tali doveri da parte di uno o di entrambi i coniugi, e cioè che sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell'intollerabilità della convivenza.

Quindi occorre che la violazione dei doveri posti dall'art. 143 del c.c. a carico dei coniugi abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale (da ultimo Cass. 10 agosto 2022, n. 24610; Cass. civ. sez. I, 21 luglio 2021, n. 20866, Cass. civ. sez. VI - 1, 15 ottobre 2020, n. 22266, Cass. civ. sez. VI – 1, 4 settembre 2020, n. 18508, Cass. civ., sez. I, 28 giugno 2019, n. 17590, App. Roma, 26 luglio 2018, Cass. civ. sez. I, 20 agosto 2014, n. 18074; Cass. civ. sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27730; Cass. civ. sez. I, 18 novembre 2013, n. 25843; Cass. civ. sez. I, 12 gennaio 2000, n. 279).

L'onere della prova

La dichiarazione di addebito della separazione implica, come detto, la prova che la irreversibile crisi coniugale sia ricollegabile esclusivamente al comportamento volontariamente e consapevolmente contrario ai doveri nascenti dal matrimonio di uno o di entrambi i coniugi, ovverosia che sussista un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati ed il determinarsi dell'intollerabilità della ulteriore convivenza. Se risulta dimostrato che la crisi coniugale è intervenuta per ragioni ulteriori e diverse, non potrà essere pronunciato l'addebito della separazione. (Cass. civ. 8 novembre 2022, n. 32837)

Il coniuge che richiede l'addebito ha, quindi, l'onere di fornire in giudizio:

a) la prova rigorosa della condotta tenuta dall'altro in violazione di uno o più doveri nascenti dal matrimonio;

b) la prova che la violazione sia stata causa – unica o comunque prevalente e determinante - della intollerabilità della convivenza (Cass. n. 16691/2020; Cass. civ. n. 11162/2019; Cass. n. 7566/1999; Cass. n. 21245/2010; Cass. n. 8862/2012; Cass. n. 8873/2012; Trib. Alessandria, 20 gennaio 2022; Trib. Napoli sent. 22.3.2023 n.1185; Trib. Napoli sent. 8.3.2023 n. 483).

È invece onere di chi eccepisce l'inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda di addebito, provare le circostanze su cui l'eccezione si fonda, vale a dire l'anteriorità della crisi matrimoniale all'accertata violazione (Cfr. Cass. civ. n. 11130/2022).

Ciò vuol dire che, a fronte della violazione di un dovere coniugale, spetta al coniuge che l'ha posta in essere, per evitare l'addebito, dimostrare che la stessa è priva di efficacia causale in quanto assunta, ad esempio, in un contesto familiare già disgregato.

Da ciò deriva, quindi, l'irrilevanza di tutti quei comportamenti contrari ai doveri derivanti dal matrimonio avvenuti in un momento successivo alla crisi coniugale (Cass. civ., 8 novembre 2022, n. 32837; Cass. n.30496/2021; Cass. civ. n. 1715/2019; Cass. n. 11516/2014; Cass. 7 dicembre 2007, n. 25618Cass. n. 5061/2006; Cass. n. 2059/2012; Trib. Milano 16 ottobre 2014, n. 12147 in Redazione Giuffrè; Trib. Vicenza 21 febbraio 2013, n. 281 in Guida al diritto, 2013,24, 63; Trib. Cassino, 8 maggio 2014 in Guida al diritto, 2014, 38, 42).

La formulazione della domanda di addebito

La dichiarazione di addebito presuppone una procedura di separazione di tipo giudiziale.

L'addebito viene, infatti, accertato durante la causa, alla luce delle prove acquisite in giudizio, e viene sancito con la sentenza che definisce il giudizio. Non può, quindi, essere chiesto né dichiarato in un accordo di separazione consensuale, neppure nell'ambito della separazione mediante negoziazione assistita. Questo perché la responsabilità può essere accertata solo da un Giudice ma non stabilita di comune accordo tra marito e moglie separandi.

Nel giudizio di separazione dei coniugi, la richiesta di addebito ha natura di domanda autonoma nonostante possa essere proposta solo nell'ambito di tale specifico giudizio (Cass. civ. n. 6668/2018).

Essa presuppone, quindi, l'iniziativa di parte (poiché il Tribunale non può dichiarare l'addebito se il coniuge non ne abbia fatto espressa richiesta), soggiace alle regole ed alle preclusioni stabilite per le domande, e ha una causa petendi ed un petitum distinti da quelli della domanda di separazione.

Quanto alla causa petendi, se con la richiesta di separazione si chiede di accertare soltanto i fatti che hanno determinato l'intollerabilità della convivenza, ovvero il grave pregiudizio per la prole, con la domanda di addebito si chiede, invece l'accertamento di quel quid pluris rappresentato dal nesso causale sussistente tra la violazione degli obblighi matrimoniali e ragioni giustificatrici della separazione.

Quanto al petitum, se con la richiesta di separazione personale si vuole ottenere una pronuncia destinata ad incidere sui rapporti personali (cambiamento di status) che sui rapporti patrimoniali (diritto all'assegno di mantenimento, conservazione della qualità di erede) con la domanda di addebito si chiede, invece, una pronuncia volta ad incidere, negandoli in capo al coniuge responsabile, sui rapporti patrimoniali predetti.

Rispetto alla domanda di separazione, la richiesta di addebito presenta, oltre al requisito dell'autonomia (presupponendo l'iniziativa di parte) gli ulteriori requisiti dell'eventualità e dell'accessorietà.

È eventuale in quanto se non richiesta dalle parti in giudizio non rientra nel thema decidendum

È accessoria in quanto può essere proposta unicamente con il ricorso per separazione personale dei coniugi, non essendo possibile un mutamento di titolo successivo alla pronuncia di separazione (Cfr. Cass. civ. 17 marzo 1995 n. 3098).

La richiesta di addebito deve essere necessariamente formulata nel ricorso introduttivo - che deve contenere la determinazione dell'oggetto della domanda, la chiara e sintetica esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali la domanda si fonda, con le relative conclusioni nonchè l'indicazione specifica dei mezzi di prova dei quali l'attore intende valersi e dei documenti che offre in comunicazione. (art. 473-bis.12 c.p.c.).

Oppure proposta o in via riconvenzionale dal coniuge convenuto in giudizio (resistente) attraverso il deposito, nel termine assegnato dal Giudice, della comparsa di risposta ex art. 473-bis.16 c.p.c. che deve contenere le informazioni richieste, in conformità agli articoli 167 e 473-bis.12, secondo, terzo e quarto comma c.p.c.

Le regole del rito unico introdotto dal d.lgs. n. 149/2022 (c.d. Riforma Cartabia) e previste dagli artt. 473-bis a 473-bis.71 c.p.c. – regole che si applicano ai procedimenti in materia di persone, minorenni e famiglie e dunque alla separazione personale e al divorzio, sia consensuale che giudiziale- non prevedono più la natura bifasica del giudizio di separazione (la fase presidenziale finalizzata alla conciliazione e la fase contenziosa davanti al giudice istruttore).

I mezzi di prova dell'addebito

L'accertamento della responsabilità di uno o di entrambi i coniugi sul verificarsi della intollerabilità della convivenza non consente di ritenere che sussista un potere-dovere del giudice di disporre d'ufficio mezzi istruttori dovendo trovare applicazione le regole generali ex art. 2697 c.c. in materia di onere della prova.

a) La confessione

Versandosi in materia di diritti indisponibili, eventuali dichiarazioni ammissive di una delle parti non possono assumere il valore probatorio legale della confessione ex art. 2730 c.c., (Cass. n. 7998/2014).

Tuttavia, le dichiarazioni delle parti (o degli avvocati) negli atti di causa o nel corso del processo hanno rilevanza ai fini della decisione. Pur non avendo efficacia di prova legale possano comunque essere utilizzate, insieme ad altri elementi probatori, come presunzioni ed indizi liberamente valutabili, sempre che non esprimano opinioni o stati d'animo personali ma fatti obiettivi, suscettibili di essere valutati giuridicamente come indice della violazione di specifici doveri coniugali (V. Cass., 4 aprile 2014, n. 7998; Trib. Genova, 30 maggio 2019, cit.; App. Palermo, 14 marzo 2011, n. 321, in Guida dir., 2011, fasc. 20, p. 64).

a) La prova testimoniale

La prova testimoniale può senz'altro trovare ampio utilizzo in questo contesto, pur presentando problematiche specifiche.

Occorre considerare infatti la natura “privata” o “intima” di molte delle circostanze potenzialmente rilevanti sul piano istruttorio, tanto che spesso si assiste al ricorso alla c.d. testimonianza de relato: il teste indotto si limita a riferire circostanze di cui è venuto a sapere dalla stessa parte che lo ha convocato a testimoniare. Tali deposizioni, dunque, sono prive di efficacia probatoria.

La capitolazione delle domande, inoltre, è particolarmente impegnativa, poiché si devono evitare domande generiche, non circostanziate in modo specifico o che implichino l'esternazione di opinioni o valutazione del testimone più che di una narrativa fattuale.

Va poi considerato che i testi indotti dalle parti sono molte volte parenti o amici più o meno stretti di queste ultime e ciò ovviamente ha ripercussioni sulla loro attendibilità.

I mezzi di prova idonei ad accertare le condotte dei coniugi contrarie ai doveri di cui all'art. 143 c.c. – ai fini della dichiarazione dell' addebito della separazione personale - risultano del resto spesso dei meri indizi più che delle prove vere e proprie che, singolarmente, non avrebbero alcun valore, ma considerati unitariamente possono indurre il Giudice a ritenere il fatto come provato.

Per questo l'orientamento maggioritario (Cfr. Cass. n. 6697/2009; Cass. civ. n. 19114/2012) è concorde nel riconoscere quali mezzi probatori ai fini della dichiarazione dell'addebito della separazione a carico di un coniuge le cosiddette testimonianze de relato o indirette, ovvero quelle testimonianze aventi ad oggetto fatti non direttamente sottoposti alla percezione fisica del teste o non conosciuti direttamente in prima persona dallo stesso, così come peraltro accade molto spesso in materia di famiglia, stante il carattere del tutto intimo, personale e riservato dei comportamenti dei coniugi (ad esempio in caso di adulterio) per natura non conoscibili e non percettibili direttamente da parte dei testi.

Tali testimonianze rappresentano un valido elemento di prova se sono suffragate da circostanze oggettive e soggettive ad essa intrinseche o da risultanze probatorie acquisite al processo che concorrano a confortarne la credibilità.

Pertanto, il giudice, pur tenendo in debito conto i rapporti di parentela che possono spingere i terzi ad una scarsa obiettività, deve considerare l'intero complesso delle deposizioni e giudicare della scarsa attendibilità di un teste non apoditticamente, in base al solo rapporto che lo lega alla parte che lo ha indotto, ma secondo la verosimiglianza o meno delle circostanze affermate e la conferma che queste possono trovare o meno nelle deposizioni di altri testi(Cfr. Cass. civ. n. 25663/2014;).

b) La relazione investigativa

Si è discusso anche sul valore probatorio delle relazioni redatte da investigatori privati, a seguito di indagini sui comportamenti dell'altro coniuge, spesso connaturate anche da fotografie più o meno eloquenti.

Parte della giurisprudenza in passato aveva confermato la liceità della raccolta prove tramite investigatori privati e la validità in giudizio della relazione investigativa, a cui era stato assegnato valore probatorio anche senza le garanzie del contraddittorio (Cass. civ. 11516/2014).

Più cauta, invece, la dottrina, che ha evidenziato la natura di prova atipica della relazione dell'investigatore, nella quale si individua un contenuto “oggettivo” (ovvero i dati o supporti tecnici in grado di mostrare il contesto spaziale, temporale e personale in cui l'evento è avvenuto) ed uno “narrativo” (fatti attestati come avvenuti dall'investigatore). Il primo contenuto potrebbe essere acquisito al processo come documento, mentre il secondo richiederebbe una conferma attraverso la deposizione testimoniale (Danovi, in Fam. dir., 2014, p. 884 ss.; Guerra, ivi, p. 829).

Dello stesso avviso anche parte della giurisprudenza di merito secondo cui «il rapporto investigativo deve essere oggetto di conferma probatoria mediante escussione testimoniale dei testi di riferimento, in quanto sia stato specificamente contestato dalla controparte (art. 115 c.p.c.), assumendo, altrimenti, un valore pieno di prova documentale» (ex multis: Trib. Milano sent. 1° luglio 2015; Trib. Milano, 13 maggio 2015, est. Servetti; Trib. Milano, 17 luglio 2013, est. Muscio; Trib. Milano, 8 aprile 2013, est. Buffone).

Anche la giurisprudenza di legittimità ha aderito a tale impostazione ritenendo che la relazione investigativa, rientra tra le prove atipiche che possono essere liberamente valutate nel giudizio civile ex art. 116 c.p.c. Il giudice ha il diritto di utilizzarla posto che nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, perciò il giudice può porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche. (Cass. civ. n. 15196/2023; Cass. 16735/2020;).

c) Mail, Social Network, chat, sms.

Anche le mail, le chat e gli sms quali riproduzioni meccaniche possono rappresentare prove valide se non contestate dalla controparte (Cfr. Cass 27 giugno 2018 n. 16980).

La giurisprudenza ha, infatti, chiarito che le rappresentazioni meccaniche di fatti e di cose ex art. 2712 c.c., formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti e alle cose medesime (Cass.n. 19155/2019 conformi anche Cass. 5141/2019; Cass. 11606/2018).

Il disconoscimento, perché possa essere considerato idoneo a far perdere la qualità di prova, dovrà essere chiaro, circostanziato ed esplicito e concretizzarsi nell'allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà riprodotta non essendo sufficiente una generica contestazione della prova prodotta in giudizio (Cass. n. 12794/2021).

Disconoscere un messaggio virtuale non impedisce tuttavia che il Giudice possa -in via del tutto discrezionale- stabilire che sia conforme ai fatti ed alle cose attraverso altri mezzi di prova, come ad esempio attraverso delle c.d. presunzioni.

Anche le fotografie e i post pubblicati sul profilo personale di un social network (Facebook, Instagram etc,..) possono essere utilizzati come prova nel processo (Cfr. Trib. Rovigo, sent. n. 504/2020).

Si ritiene infatti che non sussiste alcuna violazione della privacy, perché, considerata la struttura del social network, le informazioni e le fotografie che vengono pubblicate sul profilo non sono assistite dalla segretezza che al contrario, accompagna il servizio di messaggistica o di chat (Cfr. Trib. Santa Maria Capua Vetere ord. 13 giugno 2013).

Non si tratta di corrispondenza privata perché le foto e post del profilo possono essere qualificate come informazioni conoscibili da terzi, in quanto destinate ad essere conosciute da una moltitudine (seppure di solito predefinita e controllata) di soggetti (i c.d. “amici”). Proprio questa conoscibilità da parte di terzi rende queste informazioni utilizzabili in sede giudiziaria.

d) L'utilizzabilità nel processo delle prove illecitamente acquisite.

Riguardo all'utilizzo in giudizio di messaggi, come email o sms, occorre invece considerare anche il profilo della privacy posto che la posta elettronica e le conversazioni presenti sui programmi di messaggistica rientrano nella nozione di corrispondenza e sono tutelate dal principio costituzionale di segretezza della corrispondenza (art. 15 Cost.).

La lettura da parte di un coniuge della corrispondenza diretta esclusivamente all'altro, senza il suo consenso espresso o tacito, configura il reato di sottrazione di corrispondenza (art. 616 comma 1 c. p.). Lo stesso principio vale per i messaggi di posta elettronica scambiati tramite, e-mail, Messenger, Skype, Facebook. WhatsApp

Questi vengono considerati autentici mezzi di corrispondenza e la violazione della loro riservatezza integra il reato di accesso abusivo a sistema informatico (art. 615-ter c. p.).

Si pone quindi anche il problema di conciliare i diritti di difesa e di tutela della riservatezza.

Al riguardo la giurisprudenza ha chiarito che «in tema di trattamento di dati personali il diritto alla inviolabilità della corrispondenza risulta recessivo rispetto il diritto di difesa in giudizio, in virtù del generale principio di cui all'articolo 51 c.p. (riguardante l'esimente dell'esercizio di un diritto) nonché delle più specifiche norme del codice dei dati personali (art. 24 d.lgs n. 196/2003) e degli artt. 93 e 94 della legge 22 aprile 1941 n. 633 , in tema di diritto d'autore, norme queste ultime secondo cui la corrispondenza, allorché abbia carattere confidenziale o si riferisca alla intimità della vita privata , può essere divulgata senza autorizzazione quando la conoscenza dello scritto sia richiesta ai fini di un giudizio civile o penale». (Cfr. Trib. Roma sent. n. 9887/2017; Cass. civ. n. 21612/2013; Cass. n. 39531/2021).

Tale tematica risulta tuttavia controversa in dottrina e in giurisprudenza a causa del fatto che il nostro ordinamento processuale civile, a differenza di quello penale, non disciplina espressamente l'utilizzabilità della “prova illecita” ovvero non consentita dall'ordinamento.

Ci si interroga spesso se, indipendentemente dall'eventuale procedimento penale, siano producibili e utilizzabili dal Giudice civile, ad esempio, la corrispondenza sottratta illecitamente (come ad esempio le mail o i messaggi scaricati da un coniuge sul cellulare o sul computer dell'altro protetto da password)

Non esiste infatti un orientamento univoco e consolidato.

  • Una prima tesi, tradizionale, afferma che benché il favor veritatis debba consentire al Giudice della separazione di utilizzare ampi spazi di indagine, con conseguente limitazione delle regole di esclusione dei mezzi di prova, esso non può legittimare l'utilizzo di mezzi di prova assunti in violazione della legge. (cfr. Cass 8 novembre 2016, n. 22677; vedi anche G. Sapi, L'utilizzabilità delle prove illecitamente acquisite nel processo di separazione, in IUS Famiglie; vedi anche Cass. 8 novembre 2016, n. 22677 che ha escluso l'utilizzabilità nel processo civile del materiale probatorio sottratto in maniera fraudolenta alla controparte che ne era in possesso).
  • Un secondo orientamento assume invece che, mancando nel codice di procedura civile una norma analoga a quella di cui all'art. 191 c.p.p. che sancisce l'inutilizzabilità, rilevabile anche d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, esse sarebbero liberamente valutabili dal giudice ai sensi dell'art. 116 c.p.c., e ciò in quanto l'eventuale illiceità si sarebbe verificata in una fase preprocessuale senza ripercuotersi sugli atti (Trib. Roma, 20 gennaio 2017, v. Tribunale di Roma) Pertanto, in caso di separazione, il Giudice può acquisire ai fini della decisione prove assunte con modalità illecite (che costituiscono reato) se queste rappresentano l'unico modo per esercitare il diritto di difesa, ovvero di sostenere la domanda di addebito della separazione a carico dell'altro. (Cfr. anche Cass. civ.n. 39531/2021).

Tale ultimo orientamento, a parere di chi scrive, appare condivisibile perché non avvalla la tesi dell'utilizzabilità generalizzata della prova illecita ma presuppone un bilanciamento del diritto alla riservatezza leso, al fine di procurarsi una prova, con quello di difesa e con le garanzie sottese a quest'ultimo.

Quindi la tutela della riservatezza dei dati personali recede di fronte all'esercizio del diritto di difesa di un interesse giuridico se considerato prioritario (Cass. 30 giugno 2009, n. 15327, in Nuova giur. civ., 2010, I, 71). Qualora, invece, l'utilizzo di certi dati, anche sensibilissimi, sia utile per la difesa in giudizio di diritti di rango inferiore rispetto alla tutela della riservatezza, della dignità personale o di altre libertà fondamentali del soggetto titolare dei dati, questi torneranno a prevalere.

Nel diritto di famiglia è importante, del resto, bilanciare gli aspetti della riservatezza e della privacy con quelli relativi alla ricerca della verità. Ciò, però, non esclude il reato in sede penale.

Gli obblighi discendenti dal matrimonio

Dal matrimonio derivano diritti e doveri in capo ai coniugi espressamente previsti dall'art. 143 c.c.

a) L'obbligo di fedeltà.

I coniugi hanno l'obbligo di fedeltà reciproca.

Il dovere di fedeltà consiste infatti nell'impegno, ricadente su ciascun coniuge, di non tradire la fiducia reciproca ovvero di non tradire il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi in costanza di matrimonio.

Non si tratta solo di astenersi da relazioni sessuali extraconiugali, ma anche di rispettare la dignità e la sfera emotiva dell'altro coniuge all'interno di un rapporto di reciproca ed intima dedizione.

La fedeltà di affetti diventa la componente di una fedeltà più ampia, che si traduce nell'obbligo di non ledere la dignità ed il decoro del coniuge nel suo complesso (Cass. civ., sent. n. 15557/2008).

L'inosservanza dell'obbligo di fedeltà coniugale è considerata, per consolidato e costante orientamento della giurisprudenza di legittimità e di merito, una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l'addebito della separazione al coniuge responsabile, sempre che non si constati la mancanza di nesso causale tra infedeltà e crisi coniugale, mediante un accertamento rigoroso ed una valutazione complessiva del comportamento di entrambi i coniugi, tale che ne risulti la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto (Cfr. Cass. 15196/23; Cass.n. 11130/2022; Cass.n. 27955/2022; Trib. Benevento sez. I, 3 maggio 2022, n.1035; Trib. Bari sez. I, 4 aprile 2022, n.1200; Trib. Foggia sez. I, 11 gennaio 2022, n.40; Trib. Savona, sent. 7 luglio 2022; App. Bologna, sent. 1° ottobre 2021).

Come già detto la violazione del dovere di fedeltà determina la pronuncia di addebito solamente se viene dimostrata in giudizio anche la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza. È cioè, necessario valutare se ed in quale misura detta violazione si ponga quale causa efficiente dell'intollerabilità della convivenza o piuttosto si configuri come ulteriore sviluppo e sintesi di una già consolidata crisi coniugale (Cass. 6 aprile 2022 n. 11130).

Se la crisi è preesistente e la convivenza dei coniugi meramente formale, la trasgressione al dovere di fedeltà è irrilevante non sussistendo i presupposti per l'addebito (Cass. n. 2059/2012).

Non è necessario, tuttavia, ai fini dell'addebito, che la violazione del dovere di fedeltà si traduca in un rapporto carnale extraconiugale.

Anche se l'adulterio non viene consumato ma si traduca in semplici effusioni affettuose o sms amorosi rappresentativi dell'esistenza di rapporto intimo esso è comunque incompatibile con il dovere di fedeltà e lealtà derivante dal matrimonio ed è pertanto causa di addebito della separazione (Cass.n. 12190/2023; Cass. n° 55100/2017; Cass. civ. sez. un., n. 8053/2014; Cass. civ. sez. I, n. 19555/2013; Cass. civ. sez. VI-1, 22 luglio 2013, n. 17825; Cass. civ. sez. I, 30 gennaio 1992, n. 961; Trib. Caltanissetta sent. n. 1018/2012).

Sono, quindi, sanzionabili con l'addebito tutti quei comportamenti, sessuali e non, che comportino una lesione del reciproco dovere di devozione dei coniugi e quindi della comunione materiale e spirituale.

Anche il tradimento virtuale, per giurisprudenza uniforme, costituisce violazione dell'obbligo di fedeltà in quanto idoneo a compromettere la fiducia tra i due coniugi e a costituire la causa essenziale della rottura matrimoniale (Cass. civ., sent. n. 9384/2018; Cass. sent. n. 14414/2016; Trib. Perugia, sent. n. 1305/2020; Cass. civ., sent. n. 9384/2018).

Ci si riferisce in particolare:

- alle conversazioni a sfondo sessuale intrattenute via chat con altre persone (cd. sexting):

- all'utilizzo da parte di un coniuge di siti di incontri per andare alla ricerca di occasioni extraconiugali o di prestazioni a pagamento;

- all' uso dei più comuni social network (Facebook e Instagram) per intrattenere scambi di messaggistica istantanea di natura erotica ed a chiaro sfondo sessuale ed intento fedifrago sono state considerate condotte idonee a giustificare la pronuncia di addebito

– all' iscrizione a siti di appuntamenti (Cass. ord. 9384/2018).

La violazione del dovere di fedeltà può avvenire inoltre anche quando il contegno del coniuge si presti a verosimili sospetti d'infedeltà e si traduca in condotte lesive della dignità e dell'onore dell'altro coniuge (c.d. infedeltà apparente) certamente deleterie per la comunione materiale e spirituale della coppia (Trib. Firenze n. 1362/2021; Cass.n. 15557/2008; Cass. civ., sent. n. 29249/2008; Cass. civ., sent. n. 3511/1994).

Ad esempio:

- l'atteggiamento del marito che ha concesso effusioni in pubblico ad un'altra donna (Cass. 9472/1999)

- il far credere a terzi di avere un rapporto fedifrago (Cass. 29249/2008);

– alle email e messaggi che facciano ritenere un coinvolgimento quanto meno emotivo o sentimentale rispetto ad un soggetto terzo alla coppia (Cass.14414/2016 e Cass. 5510/2017).

– il dichiarare, sui Social Media di essere single in costanza di matrimonio (Trib. Palmi 6/2021).

Perfino il cosiddetto “amore platonico” può assumere rilevanza in punto di addebito trattandosi di un rapporto affettuoso che, sia pur non consumato, è caratterizzato comunque dal reciproco coinvolgimento sentimentale.

È ciò può ingenerare turbamento nell'altro coniuge e destabilizzare l'unione coniugale in quanto determina una menomazione della dignità dell'altro coniuge (Cass. n. 8929/2013).

Diversamente il semplice rapporto di amicizia con una persona dell'altro sesso, quando non vi sono elementi per configurare una concreta e riconosciuta ipotesi di adulterio, non è classificabile come infedeltà coniugale e dunque causa di addebito se si traduce in un rapporto genuinamente amicale.

b) Obblighi di assistenza e collaborazione

L'obbligo di assistenza morale viene qualificato come la cura e l'aiuto reciproco, il cui momento dinamico concreta l'obbligo di collaborazione.

Impone ai coniugi di prendersi cura l'uno dell'altra, manifestando quell'affetto che dovrebbe essere alla base di ogni matrimonio.

Dare «assistenza morale», invece, significa comprendere il partner, proteggerlo, sostenerlo, rispettarlo e non sminuirlo nella sua qualità di genitore o di partner e avere con lui o lei rapporti affettivi.

Nel concetto di assistenza materiale rientra, invece, l'obbligo di partecipare alle spese per la famiglia e a quelle necessarie per soddisfare le esigenze di carattere primario.

Il dovere della collaborazione rimanda alla sfera della consultazione e del dialogo continuo tra coniugi e all'eventualità che gli stessi siano pronti a sacrificare interessi meramente individuali per privilegiare le esigenze obiettive della famiglia.

Comportano, quindi, addebitabilità della separazione anche tutti gli atteggiamenti che implicano un'offesa della personalità del coniuge, imposizioni, mancanza di lealtà, mancato rispetto del riserbo sulle vicende coniugali e personali, intolleranza.

Anche il coniuge che trascura la vita familiare (con uscite serali e comportamenti devianti) può vedersi addebitata la separazione (Cfr. Cass.18 novembre 2013,n. 25843; Trib. Ancona n.39/2014).

Secondo la giurisprudenza, in via esemplificativa, costituiscono motivo di addebito: l'impedimento all'esercizio dei rapporti di un coniuge con la propria famiglia di origine (Trib. Catania 31 dicembre 1992); l'atteggiamento fortemente autoritario e impositivo di un coniuge; il rifiuto di assistere il coniuge infermo di mente; l'ingiustificato rifiuto , reiterato nel tempo, di avere rapporti sessuali (Trib. Terni 22 novembre 1994) qualora sia effetto di una repulsione personale nonché fonte di umiliazione e offesa alla dignità dell'altro coniuge (Cass. 6 novembre 2012 n. 19112); la reiterata divulgazione di notizie false, di carattere diffamatorio, sul conto del coniuge (Trib. Monza 28 maggio 2008).

Persino un atteggiamento unilaterale, sordo alle valutazioni ed alle richieste dell'altro coniuge di concordare l'indirizzo della vita familiare e, eccessivamente rigido, può tradursi nella violazione, del dovere di assistenza morale e materiale (Cass. civ. n. 753/2012).

c) l'obbligo di coabitazione

L'articolo 143 c.c., dedicato ai diritti e doveri reciproci dei coniugi, consacra il dovere di coabitazione, inteso come impegno a vivere insieme.

Questo obbligo presuppone che i coniugi scelgano di comune accordo il luogo in cui fissare la residenza familiare tenendo conto delle esigenze personali e della famiglia.

In realtà, però, l'obbligo di coabitazione può essere attenuato dalle esigenze personali dei coniugi, ad esempio per motivi di salute, di lavoro o di studio.

La coabitazione ha infatti da tempo assunto un'accezione più ampia che si apre al generale concetto di unità familiare e di collaborazione a un medesimo progetto di vita.

La coabitazione, in pratica, è divenuta un elemento spesso simbolico e non essenziale. Per motivi contingenti, quindi, è eccezionalmente possibile fissare due separate residenze, se esiste un unico progetto di vita che sia volto alla collaborazione e che esprima l'unità spirituale della famiglia.

In ogni caso, l'obbligo di coabitazione non può essere disatteso totalmente: ad esso deve riconoscersi un contenuto minimo inderogabile. Si può decidere vivere separati, tuttavia tale scelta deve avere carattere contingente e temporaneo e non può comportare, per un tempo indefinito, l'esclusione dalla vita e dalla quotidianità dell'altro.

La giurisprudenza è consolidata nel ritenere che il volontario abbandono del domicilio familiare da parte di uno dei coniugi, costituendo violazione del dovere di convivenza, è di per sé sufficiente a giustificare l'addebito della separazione personale, a meno che non risulti provato che esso è stato determinato dal comportamento dell'altro coniuge o sia intervenuto in un momento in cui la prosecuzione della convivenza era già divenuta intollerabile ed in conseguenza di tale fatto. (Cass., ord. n. 1785/2021, Cass. n. 648/2020; Cass, ord n. 11792/2021; Cass. n. 7469/2017; Cass. civ n. 11929/2017; Trib. Latina sent. 23 luglio 2022 n. 1547; Trib. Novara, sent. 9 gennaio 2023, n. 8).

Non può, quindi, essere pronunciato l'addebito della separazione al coniuge che abbandona il tetto coniugale a causa di una condotta dell'altro che ha reso la convivenza intollerabile (Cass. civ.n. 12241/2020; Cass. civ.30 gennaio 2013, n. 2183).

Anche il previo deposito della domanda giudiziale di separazione, annullamento o divorzio costituisce, exart. 146, comma 1, c.c., giusta causa di allontanamento dalla residenza coniugale.

Diversamente, l'abbandono della casa coniugale prima del deposito delle domande sopra indicate integra violazione dei doveri coniugali ed è di per sé causa sufficiente per l'addebito della separazione, salvo che non sia provato che è stato determinato dalla condotta dell'altro coniuge o che è avvenuto quando la convivenza era già intollerabile. (Cass. civ., n. 11792/2021).

In buona sostanza, «la giusta causa legittimante l'allontanamento di uno dei coniugi dalla casa coniugale, prima della separazione, deve intendersi identificabile non solo nel comportamento illegittimo dell'altro coniuge (….) ma anche nella obiettiva determinatasi situazione di intollerabilità della convivenza coniugale» (Cass.n. 4540/2011).

La Corte di Cassazione ha individuato, inoltre, ipotesi in cui l'allontanamento dalla casa coniugale risulta giustificato: in particolare, laddove manchi una «appagante e serena intesa sessuale» (Cass. n. 8773/2012), ovvero nel caso di frequenti litigi della moglie con la suocera convivente (Cass. n.4540/2011).

d) l'obbligo di contribuzione

Tra i doveri che derivano dal matrimonio vi è anche l'obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia ed al mantenimento, all'istruzione ed all'educazione dei figli.

Tale dovere costituisce esecuzione dell'obbligo di assistenza materiale che sorge dal matrimonio.

Su entrambi i coniugi grava il dovere di soddisfare, in proporzione alle loro disponibilità economiche oppure con l'attività domestica, reciprocamente i bisogni materiali e spirituali della famiglia, con i mezzi derivanti dalle proprie sostanze e dalle proprie capacità.

Detti bisogni della famiglia non si esauriscono in quelli minimi, ma vanno parametrati ai singoli contesti familiari, specie laddove vi siano ampie disponibilità patrimoniali dei coniugi.

La misura, le modalità e le tempistiche della contribuzione variano, quindi, a seconda delle esigenze di ciascun nucleo familiare, dei redditi dei coniugi, dei loro patrimoni e del tenore di vita che è stato concordato dalla coppia.

A titolo esemplificativo si può ritenere che privare la famiglia del necessario per vivere, non lavorare o rifiutare un'occupazione senza giustificato motivo, non rendersi parte attiva per risolvere i bisogni dei familiari, spendere molto denaro per futilità fino a sperperare il patrimonio familiare, sono tutti comportamenti che possono configurare il mancato rispetto del dovere di contribuzione di ciascun coniuge.

La violazione dei doveri nei confronti della prole

Ai sensi dell'art. 147 c.c. il matrimonio impone ad ambedue i coniugi anche l'obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall'articolo 315-bis c.c.

La norma ha copertura costituzionale, essendo anche previsto dall'art. 30 Cost. il dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.

Per quanto concerne il contenuto del diritto in esame, il mantenimento deve essere commisurato ai redditi, alla consistenza del patrimonio ed alla idoneità lavorativa e professionale dei genitori.

Non si esaurisce nelle cure prestate al figlio nel corso della normale convivenza, ma riguarda anche la sfera della vita di relazione e le esigenze di sviluppo della personalità, arrivando a comprendere ogni spesa necessaria per arricchire la personalità del beneficiario.

Il mantenimento deve inoltre coprire tutte le esigenze della prole, non riconducibili al solo obbligo alimentare, ma estese all'aspetto abitativo, scolastico, sportivo, sanitario, sociale, all'assistenza morale e materiale, alla opportuna predisposizione – fino a quando la loro età lo richieda – di una stabile organizzazione domestica, adeguata a rispondere a tutte le necessità di cura e di educazione( Cass. civ., sez VI, sent. 10 ottobre 2018, n. 25134).

Si è posto il problema di capire se la violazione dei doveri ex art. 147 c.c. possa implicare una pronuncia di addebito nei confronti dell'altro coniuge.

La giurisprudenza – pur scarna sul punto - ha dato risposta affermativa.

È stato ritenuto, infatti, che anche un atteggiamento violento e rigido nei confronti della prole, che prescinda dalle scelte educative dell'altro coniuge, possa fondare la pronuncia di addebito rappresentando una violazione del dovere di collaborazione tra i coniugi (Cass. n. 17710/2005) e del dovere di concordare l'indirizzo familiare (Cass. n. 2289/2006).

Altri Tribunali hanno affermato che la violazione dei doveri gravanti sui genitori ex art. 147 c.c., da parte di uno di essi, legittima la pronuncia di addebito richiesta dall'altro coniuge, qualora sia stata causa immediata e diretta della intollerabilità della convivenza. (Cfr. Trib. Vicenza, 21 febbraio 2013, n. 281, in Guida al diritto, 2013, 24, 63; Trib. Bari 28 giugno 2012, n. 2348, cit.).

È importante chiarire che i comportamenti non consoni nei confronti dei figli possono rilevare – ai fini della pronuncia ex art. 151, comma 2, c.c.- solo in quanto a loro volta si traducono in una violazione di un dovere tra i coniugi.

Alla violazione dei doveri “genitoriali” sono, infatti, già stati preposti strumenti tipici (sostanziali, quali i provvedimenti ex artt. 330 e 333 c.c., nonché processuali, quali l' art. 473-bis.39 c.p.c. previsto dalla riforma Cartabia in sostituzione dell'art. 709-ter c.p.c.).

Altre cause di addebitabilità. La violenza domestica

Anche la violenza endofamiliare può giustificare l'addebito della separazione.

La locuzione “illecito endofamiliare” si riferisce a tutte le violazioni che si verificano all'interno del nucleo familiare, perpetrate da un membro nei confronti di uno o più altri facenti parte della medesima compagine.

Gli illeciti endofamiliari possono riferirsi sia al rapporto fra i coniugi che a quello fra genitori e figli e sono rappresentati da ogni forma di violenza fisica, psicologica o sessuale.

Per giurisprudenza consolidata le violenze fisiche e morali inflitte da un coniuge nei confronti dell'altro rappresentano violazioni talmente gravi dei doveri coniugali, da giustificare di per sé la dichiarazione di addebito della separazione coniugale, nonché da esonerare il giudice dal compito di comparare i comportamenti di entrambi i coniugi, in quanto le condotte violente ed aggressive, proprio in ragione della loro estrema gravità, escludono qualsiasi possibilità di comparazione.

Esse fondano, quindi, di per se stesse non solo la pronuncia di separazione personale, in quanto cause determinanti lo sconvolgimento dell' equilibrio relazionale della coppia e quindi l'intollerabilità della convivenza, ma anche la dichiarazione di addebito della separazione al loro autore, costituendo violazione di norme imperative ed inderogabili che tutelano diritti fondamentali della persona, quali l'incolumità e l'integrità fisica, oltrepassando quella soglia minima di solidarietà e di rispetto necessaria e doverosa per la personalità del partner (Cass. civ. ord. n. 31351/2022; Cass. 31901/18; Cass. 12541/2016;Trib. Trieste, sent. n. 28/2023; Trib. Torino 11 febbraio 2022, n.608; Trib. Terni, 27 maggio 2022, n.448; Trib.; Trib. Pisa 28 gennaio 2022, n.120; Trib.Teramo, 26 novembre 2021, n.1052; Trib. Firenze n. 1314/2020; Trib. Ravenna, 24 marzo 2022).

La Corte di Cassazione ha chiarito che la violenza fisica di un coniuge nei confronti dell'altro costituisce una violazione talmente grave dei doveri nascenti dal matrimonio da giustificare la dichiarazione di addebito a carico dell'autore della violenza, anche se concretizzatasi in un solo singolo episodio o gesto lesivo (Cass. n. 27324/2022; Cass. n. 27766/2022). Il comportamento violento di violenza non deve quindi essere necessariamente reiterato.

La valutazione complessiva del comportamento tenuto dalle parti. L'addebito reciproco

Ai fini della dichiarazione di addebito della separazione si deve procedere a una valutazione comparativa dei comportamenti dei coniugi, al fine di accertare la misura nella quale ognuno di loro abbia contribuito a rendere intollerabile la convivenza.

L'obbligo della valutazione comparativa del comportamento dei coniugi consente di stabilire se il comportamento dell'uno possa trovare giustificazione in quello dell'altro, oppure non sia possibile trovare giustificazioni.

Costituisce principio giurisprudenziale pacifico, infatti, quello per cui al fine dell'addebitabilità della separazione personale il Giudice deve procedere non solo al riscontro del comportamento del coniuge consapevolmente contrario ai doveri derivanti dal matrimonio ma altresì alla valutazione comparativa dei comportamenti tenuti dalle parti, in quanto il comportamento dell'uno non può essere valutato senza un raffronto con quello dell'altro (Cass. n. 14162/2001; Cass. n. 23236/2013).

Spesso accade, ad esempio, che la crisi coniugale sia riconducibile alla violazione dell'obbligo di fedeltà imputabile ad entrambi i coniugi i quali, cioè, nel caso della convivenza abbiano intrattenuto relazioni sentimentali separatamente. In tale ipotesi è possibile che la pronuncia di addebito sia pronunciata nei loro confronti a condizione:

  • che la violazione sia connotata dell'elemento della contemporaneità (v. Cass. 25 gennaio 2016 n. 1259 ma anche Cass. 16142/2013);
  • che non sia, in applicazione dei suddetti principi, la conseguenza di una crisi già in atto (Cass. 20 aprile 2011 n. 9974).

Sotto tale profilo la giurisprudenza ha chiarito che la cd. infedeltà reciproca non può condurre ad una pronuncia di addebito ad entrambi i coniugi quando il tradimento di uno di essi interviene successivamente a quello dell'altro, per effetto di una reazione, o come si suol dire, di una “ ripicca”; nel qual caso l'addebito rimarrebbe a carico di chi ha tradito per primo e sempreché la condotta fedifraga non sia la conseguenza di una crisi già in atto (in questo senso v. Cass. 13 ottobre 2014 n. 21596; Cass. 8 febbraio 2017 n. 3318).

I comportamenti che hanno causato la disgregazione del vincolo matrimoniale e aventi un'efficacia causale nel fallimento matrimoniale possono essere esclusivi non solo di uno dei coniugi ma anche compiuti in concorso con i comportamenti dell'altro.

La separazione può, infatti, anche essere addebitata a tutti e due i coniugi se entrambi hanno tenuto un comportamento che oltrepassa la soglia minima della solidarietà e rispetto della personalità dell'altro, violando i doveri che direttamente scaturiscono dal matrimonio. (Cfr. Trib. Milano sent. 2 marzo 2016; Cass. civ., 20 aprile 2011, n. 9074).

Quindi è da ritenersi ammissibile e configurabile l'addebito della separazione sia al marito che alla moglie.

Le conseguenze della pronuncia di addebito

Il coniuge cui viene addebitata la separazione subisce conseguenze unicamente sul piano economico.

Nessuna conseguenza discende, invero, riguardo all'affidamento della prole od alla assegnazione della abitazione coniugale, aspetti, questi ultimi, relativamente ai quali la pronuncia di addebito è del tutto irrilevante.

Per l'affidamento e il collocamento dei figli valgono, infatti, le regole generali che prescindono dalla dichiarazione di addebito. Ciò in quanto un coniuge che ha violato un dovere coniugale può comunque avere capacità genitoriale e il Giudice , se tali capacità non sono messe in discussione, deve applicare il principio di bigenitorialità avendo il figlio diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei genitori (art. 337-ter c.c.).

L'addebito non ha neppure alcuna influenza sulla decisione del Giudice in ordine all'assegnazione della casa coniugale, giacché tale misura è prevista solo nell'interesse della prole (art. 337-sexies c.c.).

La giurisprudenza ha infatti chiarito al riguardo che «la condotta contraria ai doveri matrimoniali da parte di uno dei coniugi, a cui è addebitata la separazione, non contrasta con il collocamento del figlio presso lo stesso, dal momento che la violazione ai doveri nascenti dal matrimonio non si traduce necessariamente anche in un pregiudizio per l'interesse del figlio, non nuocendo al suo sviluppo né compromettendo il rapporto con il genitore medesimo» (Cass. 17089/2013).

La perdita del diritto al contributo per il mantenimento

Il coniuge cui la separazione è stata addebitata perde il diritto il diritto ad ottenere dall'altro coniuge, anche qualora sussistano le condizioni che lo giustificherebbero, un assegno che gli consenta di mantenere lo stesso tenore di vita goduto in costanza di matrimonio (art.156 comma1 c.c.).

Il coniuge cui sia addebitata la separazione conserverà , invece, il diritto agli alimenti, qualora versi in uno stato di bisogno (art.156 comma 3c.c.) qualora sussistano i presupposti ex art. 438 c.c., vale a dire ch'egli versi in stato di bisogno perché incapace di far fronte al proprio sostentamento ovvero di soddisfare i c.d. bisogni primari (vitto, abitazione, cure mediche).

Con il termine alimenti ci si riferisce a tutto ciò che è necessario per soddisfare le esigenze minime di vita come il vitto, l'abitazione, le cure e il vestiario, in relazione allo stile di vita di chi ne ha diritto.

Al fine di stabilire l'incapacità di procurarsi autonomamente i mezzi per la propria sussistenza, si dovrà tenere conto della situazione soggettiva dell'interessato come l'età, la salute e la capacità lavorativa.

È bene bene quindi ribadire che l'assegno di mantenimento e gli alimenti assolvono due finalità diverse.

L'assegno di separazione ha la funzione di garantire al coniuge debole, che non fruisce di redditi adeguati, il mantenimento di un tenore di vita sostanzialmente analogo a quello goduto nel corso della convivenza pregressa con l'altro coniuge (Cass. n. 20228/2022; Cass. 21505/2021; Cass. 9294/2018).

Gli alimenti assolvono invece alla funzione di garantire assistenza al coniuge che non riesce a soddisfare le minime esigenze di sostentamento. La prestazione patrimoniale legata all'obbligazione alimentare è dovuta solo quando l'alimentando dimostri non solo di versare in uno stato di bisogno, ma anche di essere impossibilitato allo svolgimento dell'attività lavorativa necessaria per provvedere al proprio sostentamento per invalidità al lavoro a causa di incapacità fisica o per impossibilità originata da cause a lui non imputabili (Cass.n.33789/2022).

La perdita dei diritti successori

Con la separazione, a differenza del divorzio, si ha solamente un affievolimento del vincolo coniugale e lo status di coniuge permane.

Il coniuge separato, in linea generale, mantiene quindi i diritti successori nei confronti dell'altro sia in caso di separazione giudiziale che consensuale.

Al contrario il coniuge separato a cui è stata addebitata la separazione è escluso dalla successione ereditaria mantiene solamente il diritto ad un assegno vitalizio se al momento dell'apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto. Ciò vale anche nel caso in cui la separazione sia stata addebitata ad entrambi i coniugi.

Detto assegno vitalizio non può essere superiore alla prestazione alimentare (art. 548 comma2 c.c.).

Il diritto alla pensione di reversibilità è riconosciuta al coniuge separato a prescindere dal fatto che la separazione sia avvenuta con o senza addebito e quand'anche il coniuge defunto non fosse tenuto a versare l'assegno alimentare.

La giurisprudenza ha chiarito che non può ritenersi vigente nel nostro ordinamento alcuna differenza di trattamento per il coniuge superstite separato in ragione del titolo della separazione.

La ratio della tutela previdenziale prevista dalla l. n. 903/1965 è rappresentata dall'intento di porre il coniuge superstite al riparo dall'eventualità dello stato di bisogno, senza che tale stato di bisogno divenga (anche per il coniuge separato per colpa o con addebito) concreto presupposto e condizione della tutela medesima (Cass. n. 2606/2018; Cass. n. 7464/2019; Cass. n. 9649/2015; Cfr. anche Circolare Inps n. 19/2022).

Addebito e risarcimento del danno endofamiliare ex art. 2043 c.c.

In caso di separazione dei coniugi, la normativa di famiglia consente come unica misura risarcitoria, in favore del coniuge “incolpevole”, la separazione con l'addebito della stessa all'altro coniuge. Questione discussa è se l'accertata addebitabilità della separazione ad uno dei coniugi possa fondare o meno la domanda di risarcimento dei danni patiti dall'altro.

A tale questione la giurisprudenza ha dato risposta positiva posto che i doveri derivanti ai coniugi dal matrimonio hanno natura giuridica e la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, ben può integrare gli estremi dell'illecito civile e dare luogo ad un'autonoma azione volta al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell'art. 2059 c.c. (cfr. Cass. 23 febbraio 2018, n. 4470; Cass.sent, 15 settembre 2011, n. 18853) senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia a questa preclusiva (Cass. civ. sez. III, 7 marzo 2019, n. 6598).

Non sussiste, quindi, alcun rapporto di pregiudizialità tra la domanda di addebito e quella di risarcimento dei danni.

Trattasi del c.d. danno endofamiliare, rientrante nel danno non patrimoniale (ex art. 2059, c.c.), configurabile quando la lesione abbia alterato l'assetto dato dalle relazioni familiari ed abbia inciso sulla persona, ovvero quando la lesione di un diritto fondamentale della personalità (es. relazione genitore-figlio) avviene da parte di altro componente della famiglia, non potendo ritenersi che i diritti inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i titolari si pongano o meno all'interno di un contesto familiare (Cfr., sul punto, Trib. Reggio Emilia, sez. II, 24 giugno 2020, n. 558; Trib. Livorno, 15 aprile 2020, n. 331; Trib. Bolzano, sez. II, 13 marzo 2020, n. 286; Trib. Reggio Calabria, sez. I, 14 dicembre 2020, n. 1212; Cass. civ. sez. I, 15 settembre 2011, n. 18853).

Occorre però considerare che l'addebito della separazione non è di per sé automaticamente fonte di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c.

Per il risarcimento del danno endofamiliare, in altri termini, è necessario che la condotta illecita:

a) produca un danno ingiusto, inquadrabile nel danno non patrimoniale di natura esistenziale, da valutarsi in base agli atti acquisiti al processo e parametrato, tenuto conto della gravità e della durata delle violazioni e delle ricadute negative sulla vita e sulla salute di coniuge e figli (Cfr. Trib. Savona, 13 gennaio 2020, n. 50)

b) violi un diritto fondamentale di rango costituzionale, quale la dignità della persona, e sia di particolare gravità, essendo posta in essere con modalità insultante, ingiuriosa ed offensiva (Cfr. Tribunale Reggio Emilia, 24 giugno 2020, n. 558.), o con reiterati comportamenti violenti e gravemente intimidatori, essendo fatti delittuosi sussumibili all'interno delle fattispecie di cui agli artt. 612, 594 e 581, c. p. (Cfr. Trib. Ragusa, 15 novembre 2017, n. 1278)

Spetterà al giudice il compito di valutare, caso per caso, se sussistano gli estremi del comportamento doloso o colposo, del danno ingiusto e della sussistenza del nesso causale.

Significativa sul punto una recente pronuncia della Corte di Cassazione in materia di violazione dell'obbligo di fedeltà secondo cui detta violazione può dar luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ex art 2059 c.c., senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia a ciò preclusiva, "sempre che (tuttavia) la condizione di afflizione indotta nel coniuge superi la soglia della tollerabilità e si traduca, per le sue modalità o per la gravità dello sconvolgimento che provoca, nella violazione di un diritto costituzionalmente protetto, quale, in ipotesi, quello alla salute o all'onore o alla dignità personale" (Cfr. Cass. n. 6598/2019; Cass.n. 18853/2011).

La domanda di risarcimento dovrà tuttavia essere formulata in altra sede, in quanto «le domande di risarcimento dei danni e di separazione personale con addebito sono soggette a riti diversi e non sono cumulabili nel medesimo giudizio, atteso che, trattandosi di cause tra le stesse parti e connesse solo parzialmente, sono riconducibili alla previsione di cui all'art. 33 c.p.c., laddove il successivo art. 40 c.p.c., nel testo novellato dalla legge 26novembre 1990,n. 353, consente il cumulo nell'unico processo di domande soggette a riti diversi esclusivamente in presenza di ipotesi qualificate di connessione “per subordinazione” o “forte”» (Cass. civ. sent. 8 settembre 2014 n° 18870; Trib. Cuneo, 17 luglio 2020; Trib. Milano, sez. IX civ., sent., 6 marzo 2013; Trib. Milano, sez. IX, sent., 3 luglio 2013; Cass. civ., sez. I, 21 maggio 2009, n. 11828, Cass. civ., sez. I, 22 ottobre 2004 n. 20638).

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