Figli maggiorenni

21 Agosto 2023

Il principio del preminente interesse del figlio minore non viene meno con il raggiungimento della maggiore età. È questo uno degli elementi di continuità nelle relazioni familiari e che si manifesta, specialmente, in materia di assegno di mantenimento e di assegnazione della casa familiare.
Inquadramento

L'immagine tradizionale della famiglia è quella di una realtà che si sviluppa, restando unica e unitaria, attraverso le generazioni, dimodoché il «focolare» domestico costituisce il punto di incontro tra i vecchi e i giovani; e, dove, la «casa» si identifica nel luogo in cui il bambino cresce e diviene adulto e, quindi, dove gli uni, i genitori, passano le consegne agli altri, ormai maturi (cfr. A. Palazzo, Su alcune trasformazioni della struttura familiare in un'area sociale in transizione, in Sociologia, 1961, pp. 354 ss.).

In essa si racchiude, inizialmente, l'ambito degli affetti, perché se per ogni persona non giovane la famiglia si collega «al magico incanto dei ricordi di infanzia», allora per i più giovani è «un proiettarsi nel futuro», in tutto ciò che non c'è ancora e che appare bello, come tutte le cose sognate (C.A. Jemolo, La famiglia e il diritto, in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Catania, III, 1949, p. 22; S. Patti, La famiglia: dall'isola all'arcipelago?, in Riv. dir. civ., 3/2022, pp. 507 ss.).

Altre strutture e forme di comunità di affetti, ignorate dal diritto fino ad un recente passato, circondano e si affiancano, con l'evoluzione della società, alla famiglia di un tempo; ma il vero elemento di novità è attualmente rivestito (art. 315 c.c.) dalla «unicità dello stato di figlio» (C.M. Bianca, La riforma della filiazione: alcune note di lume, in Giust. civ., 9/2013, pp. 439 ss.) e (art. 315-bis c.c.) dallo «statuto dei diritti del figlio» (C.M. Bianca, Diritto civile. La famiglia, Milano, 2017, pp. 363 ss.).

Il principio del preminente interesse del figlio (minore), poi, non viene meno con il raggiungimento della maggiore età. È questo uno degli elementi di continuità nelle relazioni familiari e che si manifesta, specialmente, in materia di assegno di mantenimento e di assegnazione della casa familiare.

Il figlio maggiorenne e l'indipendenza economica

L'apparato normativo (Capo II, Titolo IX, Libro Primo del Codice Civile) prevede una disciplina unitaria per le ipotesi di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio e per i procedimenti relativi ai figli nati fuori dal matrimonio, riconoscendo come ciascun genitore debba provvedere al mantenimento dei figli (minori) in misura proporzionale al proprio reddito (art. 337-ter, comma 4, c.c.) e che «ove necessario» – vale a dire in mancanza di accordo tra le parti e quando uno dei genitori non provveda in via diretta (C.M. Bianca, Diritto civile. La famiglia, cit., p. 233) – venga giudizialmente stabilita la corresponsione di un assegno, volto a «garantire al figlio il soddisfacimento del medesimo tenore di vita goduto prima della crisi familiare» (Cass. civ., sez. I, 26 aprile 2023, n. 10974).

Al riguardo, il generale e tradizionale diritto al mantenimento dei figli (artt. 315-bis e 337-ter c.c.; artt. 30 e 2 Cost.) non cessa né con il raggiungimento della maggiore età né con il venir meno della convivenza con i genitori (R. Fadda, Dinamicità del rapporto di filiazione e mantenimento del figlio Maggiorenne tra gradualità della prova e crisi della Fattispecie, in Resp. civ. prev., 2/2021, pp. 637 ss.); il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne, infatti, permane fino al conseguimento dell'indipendenza economica (art. 337-septies c.c.) ovvero al mancato raggiungimento della stessa imputabile a sua colpa.

L'obbligo de quo si sostanzia nella erogazione di mezzi (economici) necessari a far raggiungere ai figli «un grado di cultura personale e professionale» ed «include anche le spese necessarie per condurre una vita di relazione, secondo lo standard dell'ambiente sociale nel quale la famiglia vive» (S. Mezzanotte, Il mantenimento dei figli con particolare riferimento ai figli maggiorenni, in Giur. Merito, 10/2006, pp. 2291 ss.).

In tale contesto, occorre dunque valutare quali siano le condizioni che legittimano, valutate tutte le circostanze del caso concreto, la corresponsione dell'assegno di mantenimento in favore dei figli maggiorenni.

Ebbene, se in passato (e specialmente nel secondo dopoguerra), a fronte di un ridotto tasso di alfabetizzazione, era senz'altro consueto «che un giovane apprendesse i rudimenti di un'arte o di un mestiere anche prima del raggiungimento della maggiore età, e che, acquisita la necessaria competenza, raggiungesse … l'indipendenza economica», più di recente, il progressivo innalzamento dell'obbligo scolastico e del raggiungimento della maggiore età a diciotto anni (anziché a ventuno: cfr. Legge 8 marzo 1975, n. 39) e le evoluzioni del mercato del lavoro potrebbero determinare «la mancanza di opportunità, strutture e prospettive di lungo periodo» (P.A. De Santis, Sull'obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni non (per sempre) economicamente autosufficienti, in Giur. Merito, 4/2008, pp. 1194 ss.).

Ciononostante, le moderne esigenze di vita portano a sostenere che «il figlio divenuto maggiorenne non ha un diritto perenne al mantenimento da parte del genitore divorziato (o separato)» (Trib. Campobasso, 27 aprile 2023), onde appare necessario tenere in considerazione tanto i dati anagrafici (peraltro destinati «a rilevare in un rapporto di proporzionalità inversa per il quale, all'età progressivamente più elevata dell'avente diritto si accompagna, tendenzialmente e nel concorso degli altri presupposti, il venir meno del diritto al conseguimento del mantenimento»: Cass. civ., sez. I, 26 aprile 2023, n. 10974), quanto – seppure con alcuni inevitabili limiti – le aspirazioni e inclinazioni personali, nonché il perseguimento di progetti educativi e di percorsi di formazione.

Ciò che non potrebbe giustificarsi è, del resto, l'inerzia, lo stile di vita volutamente inconcludente e sregolato, l'abusivo affidamento su un supposto obbligo di contribuzione dei genitori e l'ingiustificato atteggiamento del soggetto, il quale deve piuttosto adoperarsi per trovare una occupazione in base alle opportunità reali offerte dal mercato del lavoro e, conseguentemente, per raggiungere l'autonomia economica; l'esigenza a una vita dignitosa non potrebbe infatti realizzarsi mediante la mera attuazione, per sempre, dell'obbligo di mantenimento del genitore (Cass. civ., sez. I, 07 ottobre 2022, n. 29264).

Lo smodato convincimento nelle proprie capacità, accompagnato da un'eccessiva stima di se stessi, e la tenera speranza di una opportunità lavorativa perfettamente modellata sul percorso di studio o consona alle proprie ambizioni, pertanto, non consentono «parassitarie “rendite di posizione” da parte di figli ormai adulti» (C. Murgo, Il mantenimento del figlio maggiorenne, tra solidarietà familiare e autoresponsabilità, in NGCC, 6/2022).

Il principio di autoresponsabilità e l'onere della prova

L'affermazione per cui l'assegno di mantenimento non è una rendita o un vitalizio sine die trova il proprio fondamento nel principio di autoresponsabilità, che deve guidare il figlio maggiorenne percettore del contributo, e si congiunge inevitabilmente con il tema della ripartizione dell'onere della prova (F. Danovi, Declinazioni e mutazioni dei principi generali del processo per i figli (anche) maggiorenni, in Fam. Dir., 3/2021, pp. 279 ss.).

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (Cass. civ., sez. I, 02 settembre 1996, n. 7990), in particolare, tale onere graverebbe sul genitore che si oppone alla corresponsione del contributo, nel senso della dimostrazione di un effettivo raggiungimento di un livello di competenza professionale e tecnica da parte del figlio maggiorenne ovvero del fatto che il mancato espletamento di attività lavorativa sarebbe riconducibile alla condotta colpevole dello stesso e quindi al suo mancato impegno rivolto al reperimento di una occupazione nel mercato del lavoro (Cass. civ., sez. I, 7 ottobre 2022, n. 29264; Cass. civ., sez. I, 3 dicembre 2021, n. 38366; Cass. civ., sez. III, 16 giugno 2011, n.13184; Cass. civ., sez. I, 21 maggio 2009, n. 11828; Cass. civ., sez. I, 16 febbraio 2001, n. 2289).

E, tuttavia, altra parte della giurisprudenza (Cass. civ., sez. I, 14 agosto 2020, n. 17183; Cass. civ., sez. VI, 29 dicembre 2020, n. 29779; F. Danovi, Obbligo di mantenimento del maggiorenne, autoresponsabilità e vicinanza della prova: si inverte l'onus probandi?, in Fam. Dir. 11/2020), ha ritenuto che raggiunta la maggiore età, si presume l'idoneità al reddito del figlio (B. Toti, Oltre una certa età un figlio è ormai un adulto. Recenti orientamenti sul mantenimento del figlio maggiorenne, in Le nuove leggi civ. comm., 2/2019); seguendo tale indirizzo (G. Musumeci, Il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne da parte dei genitori: nuovi presupposti e inversione dell'onere della prova, in IUS Famiglie, 2021), sarebbe proprio quest'ultimo ad essere onerato della prova degli elementi che integrano il diritto al mantenimento ulteriore e, segnatamente, «di avere curato, con ogni possibile, impegno, la propria preparazione professionale o tecnica e di avere, con pari impegno, operato nella ricerca di un lavoro» (Cass. civ., sez. I, 14 agosto 2020, n.17183; B. Agostinelli, Il mantenimento dei figli maggiorenni e la nuova declinazione dell'autoresponsabilità, in Giur.it., 12/2021; S. Vanini, Il mantenimento del figlio maggiorenne nel più ampio contesto del rapporto genitori e figli. Note a margine di un recente orientamento giurisprudenziale, in Studium Iuris, 7-8/2021; M. D'Auria, Sui limiti al mantenimento del figlio maggiorenne economicamente non indipendente, in Giur.it., 4/2021).

Ciò posto, al fine di comprendere il fondamento delle contrapposte posizioni, giova evidenziare come la soluzione del quesito passi per una più complessa analisi della fattispecie e dei relativi elementi costituitivi. Si è infatti sostenuto (R. Fadda, Dinamicità del rapporto di filiazione e mantenimento del figlio maggiorenne tra gradualità della prova e crisi della Fattispecie, cit., pp. 637 ss.) che «se il diritto del figlio perdura oltre la maggiore età, e la sua estinzione è correlata alla raggiunta indipendenza economica, quest'ultimo elemento si potrebbe qualificare … come un elemento estintivo del diritto» della cui prova sarebbe onerato il genitore che chiede la liberazione dal dovere di mantenimento del figlio; viceversa, laddove si ritenga che il diritto del figlio si estingua con la maggiore età, «la possibilità di dimostrarne la sopravvivenza nel caso di mancanza incolpevole di autosufficienza economica», rappresenterebbe un «elemento costitutivo» la cui prova graverebbe sul figlio richiedente l'assegno.

Vi è poi, come anticipato, l'evoluzione dei tempi che induce ad accentuare i legami tra la pretesa dei diritti e l'adempimento dei doveri, richiedendo «l'utile attivazione del figlio nella ricerca comunque di un lavoro, al fine di assicurarsi il sostentamento autonomo, in attesa dell'auspicato reperimento di un impiego più aderente alle proprie soggettive aspirazioni» (Cass. civ., sez. I, 8 giugno 2023, n. 16327; Cass. civ., sez. I, 14 agosto 2020, n. 17183).

Ecco che, seguendo questa ricostruzione, l'onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento (vale a dire non solo la mancanza di indipendenza economica ma anche di avere curato, con ogni possibile impegno, la propria preparazione professionale o tecnica e di avere, con pari impegno, operato nella ricerca di un lavoro) non potrebbe che essere a carico del richiedente (Cass. civ., sez. I, 08 giugno 2023, n. 16327).

Discorrendo di tali argomenti, resta da considerare il caso in cui il figlio maggiorenne, il quale abbia già iniziato ad espletare un'attività lavorativa, dimostri ciononostante la sopravvenienza di circostanze ulteriori tali da renderlo momentaneamente privo di sostentamento economico.

Ebbene, si ritiene che qualora il soggetto abbia dimostrato il raggiungimento di una adeguata capacità ed autosufficienza anche economica, i presupposti per l'erogazione dell'assegno siano ormai venuti meno, senza che possa “risorgere” – in ragione delle varie esigenze della vita: licenziamento, dimissioni, cessazione o crisi dell'attività lavorativa intrapresa – un obbligo di mantenimento in capo ai genitori, eventualmente tenuti al solo e diverso obbligo alimentare (Cass. civ., sez. VI, 8 febbraio 2023, n. 3769; Cass., civ., sez. I, 27 gennaio 2014, n. 1585; Cass. civ., sez. I, 2 dicembre 2005, n. 26259).

Nella medesima prospettiva, allora, si sottolinea che il figlio, avendo già svolto «anche se con esiti altalenanti o addirittura economicamente disastrosi, un proprio percorso nel mondo del lavoro, è un figlio che, a tutti gli effetti, è entrato nell'età adulta, e dunque, è arrivato ad un punto di “non ritorno”» (A. Arceri, Il mantenimento dei figli maggiorenni oggi, tra diritto di realizzarsi e diritto dell'obbligato all'affrancazione, in Fam. Dir., 3/2021, pp. 343 ss.).

I figli maggiorenni portatori di handicap grave

I figli maggiorenni affetti da grave diversa abilità («portatori di handicap grave»: art. 337-septies, comma 2, c.c.) hanno lo stesso trattamento dei figli minori (con esclusione, però, delle norme sull'affidamento in quanto il soggetto non può considerarsi automaticamente privo della capacità di agire: Cass. civ., sez. I, 29 luglio 2021, n. 21819) e, quindi, il mantenimento sarà dovuto indipendentemente dalla loro capacità di guadagno (C.M. Bianca, Diritto civile. La famiglia, cit., p. 237).

A tal riguardo, peraltro, si rende opportuno rammentare come anche chi è affetto da handicap o disabilità ha, nella società attuale, la possibilità di essere inserito nel mondo del lavoro, nei limiti a lui confacenti e secondo il contributo lavorativo che egli sia in grado di dare.

Infatti, i «figli maggiorenni portatori di handicap grave» previsti dall'articolo 337-septies, comma 2, c.c. sono esclusivamente «coloro i quali siano portatori di handicap ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104» mentre negli altri casi la condizione giuridica del figlio non può essere assimilata a quella dei minori (art. 37-bis disp. att. c.c.).

Pertanto (Cass. civ., sez. I, 8 giugno 2022, n. 18451; Cass. civ., sez. I, 29 luglio 2021, n. 21819), non è sufficiente che il figlio da mantenere sia portatore di handicap ai sensi dell'art. 3, comma 1, della Legge n. 104/1992 (secondo cui «è persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione») occorrendo piuttosto che il medesimo sia portatore di «handicap grave», a norma del comma 3 della medesima disposizione: ne discende che il giudice di merito è tenuto ad accertare in fatto, ai fini di decidere circa la spettanza o meno di tale contributo, se il figlio che richieda la contribuzione sia portatore di un handicap grave, ai sensi della norma succitata, ossia se «la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l'autonomia personale, correlata all'età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione» (art. 3, comma 3, l. n. 104/1992).

Strumenti assistenziali e di sostegno sociale

Il “giovane adulto” deve aspirare ad una vita dignitosa, ma a tale esigenza non può far fronte l'attuazione, per sempre, dell'obbligo di mantenimento da parte dei genitori.

Il soggetto che abbia ampiamente superato la maggiore età, e non abbia reperito – pur spendendo il conseguito titolo professionale sul mercato del lavoro – una occupazione lavorativa stabile o che lo remuneri in misura tale da renderlo economicamente autosufficiente, deve piuttosto far fronte alla sua condizione attraverso i diversi strumenti di ausilio, ormai di dimensione sociale, che sono finalizzati ad assicurare sostegno al reddito (Cass. civ., sez. I, 7 ottobre 2022, n. 29264; Cass. civ., sez. I, 25 luglio 2022, n. 23132; Cass. civ., sez. I, 3 dicembre 2021, n. 38366).

Parte della giurisprudenza, allora, al precipuo fine di valutare complessivamente la situazione economica dei soggetti coinvolti, muove proprio dalla rilevante novità legislativa che ha introdotto il cd. reddito di cittadinanza; la misura di sostegno sociale introdotta dal d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 (ed abrogata, con decorrenza dal 1° gennaio 2024, dall'art. 1, comma 318, Legge 29 dicembre 2022, n. 197), prevede infatti l'erogazione di somme di denaro mensili quale misura di politica attiva del lavoro e di contrasto alla povertà, alla diseguaglianza e all'esclusione sociale, ad integrazione dei redditi familiari (Cass. civ. sez. I, 31 marzo 2022, n. 10450). Tali principi, verosimilmente, coinvolgeranno pure le altre e future misure di sostegno alla povertà e di inclusione attiva che saranno predisposte nel prossimo futuro.

La natura para alimentare dell'assegno di mantenimento e la (ir)ripetibilità delle somme versate

Il mantenimento si differenzia generalmente dalla prestazione alimentare, intesa come mezzo necessario al sostentamento della persona e al soddisfacimento degli interessi primari.

Eppure, le vecchie distinzioni sembrano essere, almeno in parte e al ricorrere di determinate condizioni, definitivamente superate (T. Auletta, Alimenti e solidarietà familiare, Milano, 1984) e quindi appare tramontato il periodo in cui si distingueva attentamente l'un diritto dall'altro.

L'indubbia ed innegabile differenza strutturale e funzionale tra istituti contigui non viene certamente meno, non potendosi negare come il solo diritto agli alimenti sia volto – in caso di totale assenza di mezzi per far fronte ai fondamentali bisogni dell'uomo – a garantire le più elementari o basilari esigenze di vita (vitto, alloggio, trasporto, cure mediche, ma anche istruzione).

E, tuttavia, si è assistito alla presa d'atto di una comune finalità assistenziale delle diverse prestazioni, tanto che il diritto agli alimenti non solo è stato inteso e qualificato come un minus necessariamente ricompreso nella più ampia richiesta di mantenimento (Cass. civ., sez. VI, 21 novembre 2017, n. 27695); ma si è pure detto che risponde alla necessità di sopperire ai bisogni di vita della persona, sia pure in un'accezione più ampia rispetto agli alimenti e tale da non richiedere il necessario stato di indigenza.

Il «ritenuto carattere propriamente alimentare dell'assegno» (o, «di natura sostanzialmente alimentare» ovvero la «funzione normalmente “anche” alimentare»: Cass. civ., sez. un., 8 novembre 2022, n. 32914) porta a distinguere due situazioni (A. Lestini, Assegno di mantenimento dei figli maggiorenni e ripetizione delle somme versate, in IUS Famiglie, 2023).

Per quanto riguarda le ipotesi di riduzione del contributo al mantenimento del figlio a carico del genitore, in virtù di una diversa valutazione per il passato (e non quindi alla luce di fatti sopravvenuti, i cui effetti operano, di regola, dal momento in cui essi si verificano e viene avanzata domanda) dei fatti già posti alla base dei provvedimenti precedentemente adottati, si esclude la ripetibilità della prestazione economica eseguita (Cass. civ., sez. I, 26 aprile 2023, n. 10974); e, inoltre, si specifica come «la normale retroattività della statuizione giudiziale di riduzione al momento della domanda vada contemperata con i principi d'irripetibilità, impignorabilità e non compensabilità di dette prestazioni, con la conseguenza che la parte che abbia già ricevuto, per ogni singolo periodo, le prestazioni previste dalla sentenza di separazione non può essere costretta a restituirle, né può vedersi opporre in compensazione, per qualsivoglia ragione di credito, quanto ricevuto a tale titolo» (Cass. civ., sez. VI, 4 luglio 2016, n. 13609; Cass. civ., sez. I, 10 dicembre 2008, n. 28987).

Di converso, ove con la sentenza venga escluso in radice e ab origine (non per fatti sopravvenuti) il presupposto del diritto al mantenimento, non vi sono ragioni per escludere l'obbligo di restituzione delle somme indebitamente percepite, ai sensi dell'art. 2033 c.c.; in tal caso – essendo accertata la non sussistenza, quanto al figlio maggiorenne, ab origine dei presupposti per il versamento (vale a dire la non autosufficienza economica, in rapporto all'età ed al percorso formativo o professionale sul mercato del lavoro avviato) – il diritto di ritenere quanto è stato pagato non può ritenersi sussistente e conseguentemente deve affermarsi la piena ripetibilità delle somme versate (Cass. civ., sez. I, 26 aprile 2023, n. 10974).

Il diritto dei figli di continuare ad abitare nella casa familiare

Una misura posta a tutela dei figli minori e dei figli maggiorenni non ancora autosufficienti senza loro colpa, e funzionale alla conservazione dell'habitat domestico (inteso come centro degli affetti e degli interessi), concerne l'assegnazione della casa familiare in cui la prole è cresciuta, al fine di garantire il mantenimento delle loro consuetudini di vita e delle relazioni sociali che in tale ambiente si sono radicate.

Secondo l'opinione maggioritaria, presupposto indefettibile ed inderogabile del provvedimento di assegnazione della casa familiare è, quindi, che il coniuge assegnatario sia affidatario (o collocatario, nel caso in cui, come di regola, i genitori siano entrambi affidatari) di figli minori ovvero conviva con figli maggiorenni non indipendenti economicamente: infatti, ai sensi dell'art. 337-sexies c.c., il godimento della casa familiare è attribuito tenendo «prioritariamente» conto dell'interesse dei figli a continuare ad abitare nella propria casa.

L'istituto (C. Irti, L'assegnazione della casa familiare nel processo di riforma del diritto di famiglia, in Riv. trim. dir. proc. civ., 4/2021, pp. 1203 ss.; A. Lestini, Sulla opponibilità del provvedimento di assegnazione della casa familiare, in La Nuova Procedura Civile, 2021), in particolare, assolve la funzione di protezione della prole (Cass. civ., sez. I, 18 settembre 2013, n. 21334) senza poter conseguire altre e diverse finalità; e, così, se è vero che la concessione del beneficio ha anche riflessi economici, nondimeno l'assegnazione non può essere disposta al fine di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, a garanzia delle quali è unicamente destinato l'assegno di mantenimento (Cass. civ., sez. I, 22 luglio 2015, n. 15367).

Al di fuori del perimetro della fattispecie resta, di conseguenza, ogni valutazione relativa alla ponderazione tra interessi di natura solo economica dei coniugi o dei figli, sempreché in tali valutazioni non entrino in gioco le esigenze della prole di rimanere nel quotidiano ambiente domestico (Cass. civ., sez. I, 12 ottobre 2018, n. 25604).

Ne deriva che l'utilizzo dell'avverbio «prioritariamente» (riferito alla natura prevalente dell'interesse dei figli), non introduce altri criteri di cui si debba tenere «secondariamente» conto; ma vuole solo significare che, nel conflitto di valori che si viene a creare tra le parti in causa, l'interesse dei figli deve sempre essere giudicato preminente (R. Gelli, Revoca dell'assegnazione della casa familiare: quando cessa la coabitazione col figlio maggiorenne?, in Fam. Dir., 4/2023, pp. 334).

In senso opposto, una autorevole e sensibile Dottrina ha tuttavia sostenuto la possibilità di una interpretazione maggiormente ampia dell'art. 337-sexies c.c., al punto di ritenere che potrebbe rilevare finanche l'interesse del coniuge (onde si potrebbe ritenere che «eccezionalmente» l'abitazione della casa familiare possa essere assegnata anche al coniuge che ne abbia un preminente e serio bisogno: C.M. Bianca, Diritto civile. La famiglia, cit., p. 208).

La ratio della norma, individuata nell'esigenza di continuità di vita dei figli (minori o maggiorenni non autosufficienti) a permanere nella casa familiare, si riflette sulle situazioni che determinano il venir meno del diritto di abitazione. E, tuttavia, l'art. 337-sexies c.c. nel prevedere che il diritto de quo venga meno nel caso in cui l'assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare ovvero conviva more uxorio o, ancora, contragga nuovo matrimonio, non considera – almeno espressamente – il caso «in cui il figlio, diventato adulto, in esito a un fisiologico processo di emancipazione, si allontani dall'abitazione e/o raggiunga la propria indipendenza» (R. Gelli, Revoca dell'assegnazione della casa familiare: quando cessa la coabitazione col figlio maggiorenne?, cit., pp. 334 ss.).

Sul punto, peraltro, non si è mai dubitato che il diritto di abitazione si estingua quando, per vicende sopravvenute, la casa familiare non sia più idonea a svolgere l'essenziale funzione di tutela degli interessi dei figli, come nelle ipotesi in cui questi non convivano più con il genitore assegnatario o siano divenuti autosufficienti (C.M. Bianca, Diritto civile. La famiglia, cit., p. 213).

Così impostato il discorso, tutto ruota intorno al concetto di convivenza (ma anche di coabitazione), rispetto al quale si sono alternate, nel tempo, diverse interpretazioni.

Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, assume preminente rilievo la «coabitazione» intesa perfino come «presenza solo saltuaria» del figlio in ragione della «necessità di assentarsi con frequenza per motivi di studio o di lavoro anche per non brevi periodi»: in tal modo, si afferma che il «collegamento stabile con l'abitazione» non possa ritenersi interrotto proprio perché il figlio vi ritorna ogniqualvolta gli impegni glielo consentano (Cass. civ., sez. I, 27 maggio 2005, n. 11320).

Tale elaborazione, però, renderebbe oltremodo ampia l'accezione del rapporto di coabitazione, rivelando profili di incompletezza «che finiscono con il dilatare enormemente l'area semantica del termine coabitazione, con il rischio di farne sinonimo di ospitalità» (Cass. civ., sez. I, 22 marzo 2012, n. 4555).

Si affaccia, allora, l'altra prospettiva secondo cui la «convivenza» (e non la «coabitazione»), rilevante ai fini dell'assegnazione della casa familiare, presuppone che i figli abbiano «stabile dimora presso l'abitazione», dalla quale ben potrebbero allontanarsi, seppure «saltuariamente e per brevi periodi», mentre non comprenderebbe il saltuario ritorno a casa per il fine settimana, da qualificarsi come «rapporto di ospitalità» (Cass. civ., sez. I, 22 aprile 2002, n. 5857).

L'indagine, a ben vedere, non può che coinvolgere la «frequenza» con cui il figlio torna effettivamente presso l'abitazione, al fine di «accertare la stabilità del rapporto di convivenza, tenendo anche conto delle condizioni di vita del figlio, delle ragioni dell'allontanamento dalla casa coniugale, della distanza fra il luogo in cui essa è sita e quello in cui il figlio si è trasferito, dei periodi reali di permanenza nell'ambiente familiare originario, che, in effetti, costituisce il fondamento della priorità da valutarsi nell'assegnazione della casa familiare» (Cass. civ., sez. I, 22 marzo 2012, n. 4555).

Negli sviluppi successivi si è poi precisato che «il ritorno, in una data frazione temporale, deve non solo avvenire con cadenza regolare, ma anche essere frequente», con la conseguenza che ove, in una data unità temporale particolarmente estesa, il figlio risulti obiettivamente assente da casa (sia pure per esigenze lavorative o di studio, e sebbene vi ritorni regolarmente non appena possibile) non può ritenersi sussistente l'elemento della convivenza (Cass. civ., sez. VI, 17 giugno 2019, n. 16134; Cass. civ., sez. I, 25 luglio 2013, n. 18075).

L'opinione maggioritaria, in definitiva, tende a richiamare necessariamente il parametro della «prevalenza temporale effettiva della presenza del figlio nell'abitazione» in ragione del fatto che solo la reale e fisica presenza dello stesso nella casa familiare giustificherebbe l'assegnazione al coniuge affidatario o collocatario (Cass. civ., sez. VI, 19 settembre 2022, n. 27374).

Ulteriori profili rilevanti per l'assegnazione della casa familiare riguardano, infine, da un lato il riparto dell'onere della prova e dall'altro la possibile reviviscenza del diritto all'assegnazione della casa familiare. Ebbene, se dal primo punto di vista è colui che agisce per la revoca dell'assegnazione della casa familiare che deve dimostrare in modo inequivoco «il venir meno dell'esigenza abitativa con carattere di stabilità, cioè di irreversibilità», in relazione alla seconda questione si ritiene che ove i figli si siano già definitivamente allontanati dal luogo in cui la loro vita domestica si svolgeva e, dunque, la casa familiare abbia cessato di essere tale, sarebbe in ogni caso preclusa la possibilità di reviviscenza del diritto di abitazione (Cass. civ., sez. I, 31 marzo 2022, n. 10453; C. Diquattro, L'assegnazione della casa familiare tra interesse del minore alla stabilità abitativa e tutela del genitore proprietario, in Fam. Dir., 3/2023, pp. 268 ss.).

Profili processuali: il principio della domanda

Posto che i principi della domanda (art. 2907 c.c. e art. 99 c.p.c.) e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 c.p.c.) rappresentano veri e propri canoni di ordine generale, indispensabili per la corretta individuazione dei confini della lite, occorre verificare come tali regole si atteggiano in ambito familiare (un tempo paragonato ad «un'isola che il mare del diritto può lambire, ma lambire soltanto»: A.C. Jemolo, La famiglia e il diritto, cit., pp. 38 ss.) e segnatamente con riferimento agli istituti dell'assegno di mantenimento e dell'assegnazione della casa familiare.

L'elaborazione in materia spiega, innanzitutto, che il criterio fondamentale cui devono ispirarsi i provvedimenti relativi ai figli (anche nell'ipotesi in cui siano maggiorenni, purché sia accertato il requisito della mancanza di autosufficienza economica) è rappresentato dall'esclusivo interesse morale e materiale degli stessi, «con la conseguenza che il giudice non è vincolato alle richieste avanzate ed agli accordi intercorsi tra le parti e può quindi pronunciarsi anche ultra petitum» (Cass. civ. sez. VI, 14 settembre 2020, n. 19077).

La scelta di questa impostazione illumina la giurisprudenza formatasi intorno all'assegno periodico eventualmente disposto in favore dei figli maggiorenni (art. 337-septies c.c) non autosufficienti.

L'assegno, infatti, è versato, salvo diversa determinazione del giudice e previa specifica domanda (del figlio), direttamente all'avente diritto (L.M. Cosmai, Assegno di mantenimento per i figli, in IUS Famiglie); ma, la possibile attribuzione nelle mani del figlio non si sottrae al principio di cui all'art. 99 c.p.c., cosicché il genitore obbligato non può pretendere, in mancanza di una specifica domanda del figlio, di assolvere la propria prestazione nei confronti di quest'ultimo anziché del genitore istante (Cass. civ., sez. VI, 16 settembre 2022, n. 27308; Cass., 12 novembre 2021, n. 34100; Cass., 11 novembre 2013, n. 25300; A. Lestini, Revocato il mantenimento della figlia maggiorenne, in IUS Famiglie, 2022).

Pertanto, sebbene al figlio maggiorenne non economicamente autosufficiente si riconosca «un diritto concorrente con quello del genitore convivente» (Cass. civ., sez. VI, 16 settembre 2022, n. 27308) che ne legittima la partecipazione al giudizio sia in via principale sia in via di intervento autonomo, ciononostante, qualora lo stesso non chieda che l'assegno disposto per il suo mantenimento gli sia corrisposto direttamente, deve ritenersi che persista da parte del coniuge affidatario la legittimazione a riscuoterlo iure proprio a titolo di rimborso di quanto costantemente anticipato per conto dell'altro coniuge (Cass., 27 maggio 2005, n. 11320; F. Colangeli, Spetta al genitore convivente richiedere il mantenimento del figlio maggiorenne?, in IUS Famiglie, 2021).

La tutela delle speciali esigenze di protezione dei minori ma anche dei maggiorenni (purché non autosufficienti) si manifesta con forza altresì nei provvedimenti relativi all'assegnazione della casa familiare; in effetti, il preminente interesse dei figli porta a riconoscere il potere del giudice di disporre, anche in assenza di una specifica domanda in tal senso, l'assegnazione della casa familiare al genitore con il quale i figli (anche maggiorenni non indipendenti) siano ancora conviventi (F. Danovi, Declinazioni e mutazioni dei principi generali del processo per i figli (anche) maggiorenni, cit., pp. 279 ss.).

Preme rammentare come anche le controversie afferenti il mantenimento del figlio maggiorenne siano oggi assoggettate al rito unico di cui al titolo IV bis del secondo libro del codice di rito, inserito con il d.lgs. 149/2022. Nel contempo, l'art. 35 della l. 206/2021 ha esteso la negoziazione assistita anche alla disciplina del mantenimento dei figli maggiorenni non autosufficienti, nati fuori del matrimonio.

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