Utilizzabilità nel procedimento disciplinare di chat sequestrate in sede penale. Limiti imposti dalle Corti europee e dalla Corte costituzionale n. 170/2023

Franco Fiandanese
30 Agosto 2023

Partendo dalla nota “vicenda Palamara”, le Sezioni Unite civili della Corte di cassazione, con sentenza del 28 aprile 2023, n. 11305, si sono espresse sul tema dei limiti di utilizzazione nel procedimento disciplinare di chat sequestrate in sede penale, ribadendo i principi più volte formulati dalle stesse sulla configurabilità quali documenti delle chat sequestrate ai sensi dell'art. 234 c.p.p. e sulla non applicabilità delle disciplina delle intercettazioni telefoniche e di quella relativa all'acquisizione di corrispondenza. Risulta tuttavia necessaria una disamina del tema alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea e della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
La “vicenda Palamara” e il sequestro delle chat del telefono cellulare

La nota “vicenda Palamara” ha dato origine a molteplici procedimenti disciplinari, nei quali la prova dell'illecito disciplinare è costituita esclusivamente dal contenuto delle chat del telefono cellulare sequestrato al magistrato nell'ambito di un procedimento penale, che lo vedeva imputato per vicende corruttive. Tutte le decisioni disciplinari, infatti, danno atto che la notizia dei fatti è stata acquisita in seguito alla trasmissione dell'hard disk del telefono cellulare da questi utilizzato da parte della procura della Repubblica di Perugia e respingono le numerose eccezioni di inutilizzabilità sollevate dalle difese degli incolpati con richiamo alla normativa sulle intercettazioni telefoniche e a quelle sul sequestro della “corrispondenza”, con l'affermazione del principio, in verità pacifico nella giurisprudenza penale della Corte di cassazione, secondo il quale i messaggi WhatsApp e gli SMS conservati nella memoria di un telefono cellulare sono utilizzabili quale prova documentale ex art. 234 c.p.p. e, dunque, possono essere legittimamente acquisiti nel procedimento disciplinare, non trovando applicazione né la disciplina delle intercettazioni, né quella relativa all'acquisizione di corrispondenza di cui all'art. 254 c.p.p., non versandosi nel caso della captazione di un flusso di comunicazioni in corso, bensì nella mera documentazione ex post di detti flussi (da ultimo: Cass., Sez. VI, 16 marzo 2022, n. 22417; principio richiamato in materia disciplinare, tra le altre, da Cass. civ., Sez. Un. 27 aprile 2023, n. 11197).

Questi principi possono anche condividersi, ma non risolvono la specifica problematica (che deve essere affrontata dal punto di vista esclusivamente giuridico, prescindendo da prese di posizione politico-giudiziarie) della utilizzabilità delle chat intrattenute da un imputato con terze persone estranee al procedimento penale pendente a suo carico.

Infatti, i problemi che devono essere affrontati e correttamente risolti attengono, da un lato, ai requisiti, ai limiti e alla finalità del sequestro probatorio e, dall'altro lato, alla specificità del sequestro di un dispositivo informatico quale il telefono cellulare.

Il tema dei requisiti e dei limiti del sequestro probatorio assume rilevanza dirimente per i soggetti terzi rispetto al processo penale ed è stata affrontato e chiarito dalla giurisprudenza penale della Corte di cassazione in maniera assolutamente pacifica.

A norma dell'art. 253 c.p.p. possono essere assoggettati a sequestro probatorio, il corpo del reato e le cose pertinenti al reato necessarie per l'accertamento dei fatti. Nel definire il perimetro delle cose pertinenti al reato aggredibili con il provvedimento di sequestro probatorio, quindi, il codice di procedura penale prescrive espressamente che siano necessarie per l'accertamento dei fatti, cioè che siano connotate da una specifica idoneità dimostrativa che ne giustifichi l'apprensione in un'ottica di salvaguardia della prova ai fini del giudizio sulla penale responsabilità [1]. Nel caso di specie sono stati sottoposti a sequestro non solo l'hard disk del telefono cellulare, ma anche tutti i dati informatici in esso contenuti, con la creazione di una copia c.d. forense, versata agli atti del procedimento penale, che non può rilevare in sé come cosa pertinente al reato, in quanto essa contiene un insieme di dati indistinti, che, in quanto documenti digitali, si distinguono dal supporto dove sono incorporati, rispetto ai quali nessuna funzione selettiva è stata compiuta dalla Procura al fine di verificare il nesso di strumentalità tra res, reato ed esigenza probatoria.

Lo sviluppo giurisprudenziale e legislativo in materia di prove digitali (in particolare successivamente alla l. 18 marzo 2008, n. 48, “Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla criminalità informatica, fatta a Budapest il 23 novembre 2001, e norme di adeguamento dell'ordinamento interno”, che riconosce al "dato informatico", in quanto tale, la caratteristica di oggetto del sequestro) è stato caratterizzato dall'assunzione della consapevolezza che è possibile individuare anche corpi del reato o cose pertinenti al reato “dematerializzati”, nel senso che esistono indifferentemente dal supporto fisico sul quale sono incorporati, superando l'equivoco di fondo, che in passato aveva portato ad identificare gli elementi di prova digitali con il supporto nel quale essi erano memorizzati, e considerando i dati, le informazioni, i programmi di per sé «corpo del reato» o «cosa pertinente al reato, in modo che, ai fini del sequestro, è spesso sufficiente disporre dei dati e non anche del .computer o del sistema informatico che li contiene [2]. In tal senso la giurisprudenza ha chiarito che, una volta creata la c.d. copia originale, essa non rileva in sé come cosa pertinente al reato, in quanto essa contiene un insieme di dati indistinti e magmatici rispetto ai quali nessuna funzione selettiva è stata compiuta al fine di verificare il nesso di strumentalità tra res, reato ed esigenza probatoria. La c.d. copia integrale, cioè, contiene l'insieme dei dati contenuti nel contenitore (pc, tablet, telefono), ma non soddisfa affatto l'esigenza indifferibile di porre sotto sequestro solo il materiale digitale che sia pertinente rispetto al reato per cui si procede e che svolga una necessaria funzione probatoria. Pertanto, il sequestro probatorio di dispositivi informatici o telematici non legittima il trattenimento della totalità delle informazioni apprese oltre il tempo necessario a selezionare quelle pertinenti al reato per cui si procede; il pubblico ministero è tenuto a predisporre un'adeguata organizzazione per compiere tale selezione nel tempo più breve possibile e provvedere, all'esito, alla restituzione della copia-integrale agli aventi diritto [3]. Importante è ciò che si legge nella motivazione della sentenza n. 34265 del 2020: «il principio di proporzione, certamente ancorato alla disciplina delle cautele personali nel procedimento penale ed alla tutela dei diritti inviolabili, ha nel sistema una portata più ampia; esso travalica il perimetro della libertà individuale per divenire termine necessario di raffronto tra la compressione dei diritti quesiti e la giustificazione della loro limitazione. In ambito sovranazionale, il principio in esame è ormai affermato tanto dalle fonti dell'Unione (cfr. par. 3 e 4 dell'art. 5 TUE, art. 49 par. 3 e art. 52 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali; sul punto, cfr., Cass., Sez. III, 29 settembre 2009, n. 42178, Spini, Rv. 245172), che dal sistema della CEDU. La stessa Corte costituzionale ha chiarito in più occasioni, ed anche di recente, come il generale controllo di ragionevolezza, a sua volta effettuato attraverso il bilanciamento tra gli interessi in conflitto, comprenda il canone modale della proporzionalità […] (Corte cost. n. 85/2013, ma anche n. 20/2017), […] il principio di proporzionalità trova un formidabile ambito applicativo con riferimento ai mezzi di ricerca della prova, idonei ad incidere su bene giuridici costituzionalmente tutelati: esso segna il limite entro il quale la compressione di un'istanza fondamentale per fini processuali risulta legittima. Il tema attiene al rapporto tra sicurezza e riservatezza, intesa come diritto alla non intromissione da parte del potere pubblico e di soggetti privati nella sfera individuale della persona […] reato per cui si procede e finalità probatoria, richiede ed impone strumenti "compensativi" di garanzia […]. Strumenti di garanzia […] che attengono, […] alla esigenza insopprimibile di selezionare le cose davvero necessarie ai fini della prova. In tal senso, il tempo necessario alla selezione di ciò che è necessario ai fini probatori da ciò che deve essere restituito non può essere un fattore neutro destinato a pregiudicare chi, da terzo estraneo al reato, ha già subito la limitazione del diritto di sindacare sin da subito, con rigore, la esistenza del nesso di strumentalità tra res e reato».

La conseguenza che si trae da detti principi è che deve considerarsi illegittimo, per violazione del principio di proporzionalità ed adeguatezza, il sequestro a fini probatori di un dispositivo elettronico che conduca, in difetto di specifiche ragioni, alla indiscriminata apprensione di una massa di dati informatici, senza alcuna previa selezione di essi e comunque senza l'indicazione degli eventuali criteri di selezione [4] e senza provvedere alla immediata restituzione delle cose sottoposte a vincolo non appena sia decorso il tempo ragionevolmente necessario per gli accertamenti de quibus [5].

Nel caso di specie è stato disposto il sequestro del dispositivo fisico (lo smartphone) in cui le conversazioni erano state memorizzate dal mittente/destinatario e di tale dispositivo è stata effettuata la copia forense. Ebbene, tutti i messaggi contenuti nel telefono cellulare non aventi rilevanza penale risultano essere stati sequestrati, distribuiti e pubblicati con modalità del tutto illegittime di propalazione dei dati, mentre non avrebbero dovuto essere sequestrati o almeno avrebbero dovuto essere restituiti all'avente diritto, reintegrandolo nel possesso esclusivo dei dati [6].

Nella stessa direzione della giurisprudenza sopra richiamata, si pone la nota d'indirizzo organizzativo diramata ai Procuratori della Repubblica del distretto dal Procuratore generale della Repubblica di Trento, indirizzata, in data 22 ottobre 2021, anche al Procuratore generale presso la Corte di cassazione, per segnalare l'opportunità di iniziative dirette a promuovere linee di orientamento e indirizzo uniformi sull'intero territorio nazionale [7]. In tale nota, in particolare, si legge: «Il principio di proporzionalità impone, poi, che il sequestro sia rigorosamente mantenuto sui soli dati della copia forense rilevanti ai fini delle indagini, in quanto il sequestro probatorio è consentito solo per le cose pertinenti al reato necessarie per l'accertamento dei fatti (art. 253, comma 1, c.p.p.), con conseguente obbligo di estrazione dei soli dati d'interesse e restituzione della copia integrale, perché quando non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova, le cose sequestrate sono restituite (devono essere restituite) a chi ne abbia diritto (art. 262, comma 1, c.p.p.). Un riversamento agli atti del procedimento della copia forense nella sua interezza, comprendente anche chat o messaggi con contenuto irrilevante per il processo, implica, invece, un'inammissibile ed illecita diffusione di dati che attengono alla sfera personale, intima ed inviolabile di ogni individuo e non è assolutamente consentito, perché comporta, inevitabilmente, fra l'altro, la possibilità di divulgazione di fatti lesivi dell'onorabilità e della reputazione della persona, di dati penalmente irrilevanti che possono, però, risultare devastanti per la vita dei soggetti coinvolti (anche se estranei al procedimento)».

La stessa nota è indirizzata anche al P.G. presso la Corte di cassazione proprio perché «in ragione dell'eccezionale rilevanza e delicatezza della tematica» «valuti l'opportunità di linee di indirizzo e orientamento uniformi sul piano nazionale coerenti con la costante giurisprudenza di legittimità sopra richiamata».

Appare evidente che la nota in oggetto lungi dal prefiggersi di colmare una lacuna normativa in materia, è – invece – dimostrativa del fatto che dall'attuale assetto normativo sono chiaramente desumibili le modalità e i criteri di selezione del materiale oggetto di sequestro, e, in particolare, è desumibile che le conversazioni penalmente irrilevanti devono essere eliminate senza possibilità di alternativa.

Le Sezioni Unite civili del 28 aprile 2023, n. 11305

Gli argomenti giuridici sopra sviluppati sono stati presi in esame e disattesi nella recente sentenza delle Sezioni Unite civili del 28 aprile 2023, n. 11305, con la quale si richiamano e si ribadiscono i principi più volte formulati dalla Suprema Corte sulla configurabilità quali documenti delle chat sequestrate ai sensi dell'art. 234 c.p.p. e sulla non applicabilità delle disciplina delle intercettazioni telefoniche e di quella relativa all'acquisizione di corrispondenza; richiamo, peraltro, che da un lato, è del tutto inconferente rispetto ai temi giuridici proposti nei motivi del ricorso, che affrontavano il ben diverso tema dei requisiti e dei limiti del sequestro probatorio di dispositivi informatici nel senso sopra chiarito; dall'altro lato, trascura del tutto di considerare che le chat intrattenute da un imputato con terze persone estranee al procedimento penale pendente a suo carico sono documenti aventi un contenuto comunicativo, sia pure non in atto, e che tale contenuto è certamente privato in quanto attiene ad un rapporto interpersonale. Sicché, come si dirà più avanti, è pertinente il richiamo all'art. 8 CEDU, che tutela il “diritto al rispetto della propria vita privata”; ma può considerarsi pertinente anche il richiamo all'art. 15 Cost., che dichiara inviolabili la libertà e la segretezza della “corrispondenza” (art. 254 c.p.p.) e anche di “ogni altra forma di comunicazione”, e tale, alla luce degli sviluppi tecnologici, deve considerarsi l'utilizzo della messagistica dei telefoni cellulari, poiché i messaggi non perdono la loro caratteristica “comunicativa” anche se incorporati in un documento [8]. Queste considerazioni trovano ore autorevole riscontro nella recentissima decisione della Corte costituzionale n. 170 del 27 luglio 2023, la quale, nel risolvere un conflitto di attribuzione sollevato dal Senato della Repubblica nei confronti della Procura della Repubblica di Firenze, con riferimento al terzo comma dell'art. 68 Cost., che richiede l'autorizzazione della Camera di appartenenza per sottoporre un membro del Parlamento a “sequestro di corrispondenza”, ha affermato che la tutela accordata dall'art. 15 Cost. si estende «ad ogni strumento che l'evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale» e, quindi, «posta elettronica e messaggi inviati tramite l'applicazione WhatsApp (appartenente ai sistemi di cosiddetta messaggistica istantanea) rientrano, dunque, a pieno titolo nella sfera di protezione dell'art. 15 Cost., apparendo del tutto assimilabili a lettere o biglietti chiusi»; ancora di più la stessa sentenza osserva che «tra i due concetti – «corrispondenza» e «comunicazione» – intercorre, per corrente affermazione, un rapporto di species ad genus. La nozione di «corrispondenza» – utilizzata anche nell'art. 68, terzo comma, Cost. senza ulteriore specificazione – appare, tuttavia, sufficientemente ampia da ricomprendere le forme di scambio di pensiero a distanza che qui vengono in rilievo, costituenti altrettante “versioni contemporanee” della corrispondenza epistolare e telegrafica» [9]. Ma ciò che soprattutto interessa qui mettere in rilievo è il punto della sentenza della Corte costituzionale che – prendendo in esame la giurisprudenza della Corte di cassazione, la quale afferma che i messaggi di posta elettronica, SMS e WhatsApp, già ricevuti e memorizzati nel computer o nel telefono cellulare del mittente o del destinatario, hanno natura di «documenti» ai sensi dell'art. 234 c.p.p. – afferma che l'art. 15 Cost. tutela la corrispondenza «anche dopo la ricezione da parte del destinatario, almeno fino a quando, per il decorso del tempo, essa non abbia perso ogni carattere di attualità, in rapporto all'interesse alla sua riservatezza, trasformandosi in un mero documento “storico”» e tale carattere deve presumersi “fino a prova contraria” [10]. In altri termini, si può dire che la qualifica formale di “documenti” assegnata ai messaggi sequestrati nei dispositivi elettronici non può essere un modo per eludere garanzie fondamentali costituzionalmente riconosciute e che riguardano i messaggi informatico-telematici non solo nella loro dimensione “dinamica”, ma anche in quella “statica”.

Le citate Sezioni Unite osservano ancora che «nel procedimento penale dal quale le prove in esame rinvengono, il Tribunale del riesame si è pronunciato sulla legittimità del correlativo sequestro, senza che i diretti interessati ed in particolare il magistrato abbiano aggredito tale decisione incidentale. In tale sede (propria) si è dunque accertato che le suddette prove documentali erano "pertinenti" ai reati per i quali si procedeva e, come correttamente si è rilevato nella sentenza impugnata, questo accertamento non poteva essere rimesso in discussione nel giudizio disciplinare. Ciò posto, si deve altresì rilevare che il materiale probatorio del quale si discute è stato trasmesso integralmente all'organo titolare dell'azione disciplinare e competente alla relativa istruttoria, che lo ha selezionato in relazione alle diverse posizioni personali coinvolte; quindi, utilizzato nel procedimento disciplinare; in quella sede è stato valorizzato dalla Sezione disciplinare del CSM». Queste parole delle Sezioni Unite rivelano che ancora nella giurisprudenza si confonde con riferimento al sequestro di dispositivi digitali il contenitore con il contenuto. Risulta, infatti, che il G.I.P. del Tribunale di Perugia ha respinto l'eccezione di inutilizzabilità della copia forense dello smartphone, sollevata dalla difesa dell'imputato, evidenziando il rispetto delle garanzie difensive previste dalla norma a tutela dell'indagato in sede di accertamento tecnico irripetibile e l'assenza di ipotesi di inutilizzabilità riconducibili al combinato disposto dei commi 4, 4-bis e 5 dell'art. 360 c.p.p., ma non risulta che sia mai stata posta in sede penale la questione dei requisiti e dei limiti del sequestro probatorio, che, invece, assume notevole rilevanza per i soggetti terzi rispetto al processo penale. Risulta, invece, che né all'atto del sequestro né successivamente sia stata fatta alcuna selezione dei dati informatici sequestrati per verificarne la strumentalità e il rapporto di pertinenzialità con le indagini in corso e le imputazioni contestate. Anzi dagli stessi atti può desumersi all'evidenza un profilo di illegittimità del procedimento (nel senso sopra ampiamente chiarito anche dalla citata nota del P.G. di Trento) di acquisizione e selezione da parte della autorità giudiziaria procedente, poiché, il Procuratore della Repubblica reggente di Perugia, nella nota indirizzata al P.G. della Corte di appello, al CSM, al Ministro della giustizia e al P.G. presso la Suprema Corte, con la quale si trasmette la documentazione sequestrata, afferma che, tra gli atti delle indagini, “non sono stati inviati quelli coperti da esigenze di segretezza delle indagini e quelli comunque irrilevanti ai fini penali e disciplinari”. Pertanto, il Procuratore della Repubblica di Perugia ammette di avere effettuato una selezione di atti rilevanti ai fini disciplinari, non a quelli penali, e, all'esito di questa selezione, trasmette gli atti stessi ai destinatari della nota. In altri termini, un Procuratore della Repubblica ha utilizzato il sequestro penale per acquisire atti di rilievo disciplinare, esercitando discrezionalmente il potere di selezionare gli atti che a suo insindacabile giudizio erano di rilievo disciplinare e, all'esito, renderli pubblici [11].

Non potendo essere acquisite al procedimento penale, a maggior ragione le conversazioni in questione non dovevano essere comunicate a terzi, quale è il Procuratore Generale della Cassazione, né quest'ultima istituzione né la Sezione disciplinare potevano legittimamente utilizzarle come prova, essendo documenti acquisiti fuori dai casi previsti dalla legge e lesivi del diritto alla riservatezza (diritto fondamentale della persona).

Dal canto suo, la Procura Generale presso la Corte di cassazione, una volta ricevuta la documentazione inviata dal Procuratore della Repubblica di Perugia, ha avuto cura di precisare con la direttiva del 22 giugno 2020, integrata il 4 settembre 2020 [12], quali dovessero esse i criteri per la selezione e la valutazione di detta documentazione, ammettendo espressamente che essa «consente di risalire a dati sensibili e ad informazioni sull'intero, complessivo, contesto sociale, privato e relazionale in cui il titolare del sistema telematico ha operato ed ha agito» e che «il materiale riportato nel richiamato hard disk condensi una molteplicità di informazioni di varia tipologia, in relazione sia alle persone contattate (costituite non soltanto da magistrati, ma anche da soggetti che svolgono le più svariate attività), sia al contenuto delle stesse (in quanto riferibili all'attività di magistrato, ma anche a relazioni sociali e squisitamente private), giungendo anche a profilarne le preferenze culturali (e non solo)» ed ancora « le informazioni che coinvolgono il "profilo utente" di una determinata persona il cui dispositivo telematico è sottoposto ad analisi e verifica, potendo contenere dati estremamente sensibili in grado di coinvolgere terzi estranei e aspetti estremamente riservati dell'altrui vita privata, devono essere trattate e verificate nel rispetto degli inderogabili principi di necessità e proporzionalità declinati dalla normativa in materia di privacy. È evidente che solo una parte, e non la più quantitativamente cospicua, di tale compendio può rilevare ai fini disciplinari». In definitiva, il Procuratore della Repubblica di Perugia prima e il Procuratore Generale presso la Suprema Corte poi hanno, per loro stessa ammissione, trattato dati riservati o addirittura sensibili riguardanti terze persone in alcun modo coinvolte nel procedimento penale riguardante il magistrato, che, invece, avrebbero dovuto essere considerati trattenuti illegittimamente (come chiarito dalla giurisprudenza sopra citata) e illegittimamente divulgati, in quanto in alcun modo pertinenti ai reati contestati allo stesso.

Quanto all'affermazione delle Sezioni Unite che la decisione incidentale non sia stata “aggredita” dai “diretti interessati”, non si vede come i terzi coinvolti avrebbero potuto aggredire una decisione di cui non avevano avuto alcuna conoscenza, trattandosi di molteplici soggetti terzi rispetto alla vicenda penale riguardante il noto magistrato, venuti a conoscenza del trattamento dei loro dati personali quando questi ormai erano stati trattenuti, divulgati e utilizzati sia sui media che in sede disciplinare. Né si comprende come e perché i soggetti terzi avrebbero dovuto affidargli la tutela dei propri diritti, non potendosi far dipendere tale tutela solo dall'attività (o inattività) di un altro soggetto. Pertanto, i terzi coinvolti nella sede disciplinare, venuti a conoscenza del procedimento aperto a loro carico, solo in quest'ultima sede possono eccepire l'utilizzo di prove assunte in violazione dei divieti stabiliti dalla legge.

Le Sezioni Unite civili affermano, poi, che le decisioni della giurisprudenza che mirano a precisare la nozione di cose pertinenti al reato «non sanciscono in alcun modo regole di esclusione probatoria e di inutilizzabilità ai sensi dell'art. 191, c.p.p.», ma sono «strettamente correlate all'obbligo motivazionale dei provvedimenti di sequestro». Si tratta, peraltro, di una argomentazione frutto di una distorsione ottica, poiché è ovvio che nel procedimento penale il materiale acquisito con il sequestro probatorio in violazione del principio di proporzionalità non ha necessità di essere dichiarato inutilizzabile in quel procedimento, semplicemente perché in quello stesso procedimento è del tutto irrilevante in quanto non pertinente; la inutilizzabilità di cui, invece, si deve discutere è quella nell'ambito del procedimento disciplinare, per essere stato acquisito materiale probatorio in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, come previsto dall'art. 191 c.p.p., che deve ritenersi applicabile nel procedimento disciplinare, ai sensi dell'art. 16, comma 2, d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109.

Le Sezioni Unite ribadiscono, inoltre, il «consolidato orientamento di questa Corte che la specialità del procedimento disciplinare, l'ampiezza dei poteri istruttori riconosciuti al P.G. (art. 16, comma 2 e 4, d.lgs. n. 109/2006) e alla stessa Sezione disciplinare, la quale può assumere "tutte le prove che ritiene utili" (art. 18, comma 3, lett. a), d.lgs. citato), concorrono a far ritenere (Cass., Sez. Un., n. 9733/2023, cit.; Cass., Sez. Un., n. 12717/2009; Cass., Sez. Un., n. 15314/2010, cit.; Cass., Sez. Un., n. 17585/2015) il procedimento disciplinare «marcatamente orientato all'accertamento dell'effettiva sussistenza dell'addebito disciplinare», anche in ragione degli interessi pubblici coinvolti (cfr. anche Cass., Sez. Un., n. 9390/2021). Anche sotto questo profilo, quindi, tenuto conto della clausola di "compatibilità" contenuta negli artt. 16, comma 2, 18, comma 4, d.lgs. n. 109/2006, non può accogliersi il rilievo difensivo, ampiamente sviluppato, circa la non utilizzabilità dei messaggi valorizzati nella sentenza impugnata a causa della "non pertinenza" degli stessi ai reati per i quali si procedeva a carico del magistrato. La diversa "ontologia" e le diverse finalità del giudizio penale e di quello disciplinare a carico dei magistrati implicano necessariamente una differente considerazione e ponderazione dei valori costituzionali che vengono in gioco». Innanzitutto, tali argomentazioni non tengono conto che perfino le intercettazioni – pacificamente utilizzabili nel procedimento disciplinare – possono essere acquisite (e usate) in quanto siano state legittimamente disposte nel rispetto delle norme costituzionali e procedimentali [13]. Presupposto questo, assolutamente carente in relazione alle chat di cui si discute, illegittimamente acquisite, conservate ed utilizzate nonostante, come sopra detto, fossero in nessun modo strumentali all'accertamento della responsabilità penale dell'imputato. O si attribuisce al P.G. disciplinare un potere di sequestro autonomo nell'ambito del sistema disciplinare o deve escludersi che il sequestro penale possa essere utilizzato a fini disciplinari, essendo, come si è detto, illegittimo mantenere il sequestro su materiale non pertinente al processo in corso. Né può giustificarsi l'utilizzo in sede disciplinare delle chat di cui è stato illegittimamente mantenuto il sequestro in sede penale con riferimento alla sussistenza nel procedimento disciplinare di un superiore interesse pubblico al regolare e corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie ed alla garanzia dello stesso prestigio dell'ordine giudiziario, che prevarrebbe sul diritto del soggetto terzo nel procedimento penale alla tutela della sua vita privata e della segretezza delle comunicazioni. In tal modo, infatti, si verrebbe a giustificare ex post ciò che non trova giustificazione (e legittimità) ex ante e si introdurrebbe nel nostro sistema ordinamentale una anomala sanatoria di vizi invalidanti l'acquisizione di materiale probatorio. Sarebbe, in ogni caso, da dimostrare che l'interesse pubblico in tal modo enucleato dalle Sezioni Unite possa ritenersi idoneo a giustificare il sacrificio dei diritti del terzo nel procedimento penale alla riservatezza delle sue comunicazioni; idoneità, anzi, che sembra proprio da escludere anche alla luce della giurisprudenza comunitaria e della CEDU, che, come si vedrà più avanti, specificano quali siano gli interessi pubblici rilevanti a quel fine.

Più in generale, si possono formulare molteplici dubbi sull'utilizzo che le Sezioni Unite fanno della “clausola di compatibilità”, poiché «lascia perplessi che una clausola di compatibilità possa incidere su diritti fondamentali a copertura costituzionale», mentre i bilanciamenti sarebbero «tutti da verificare nel loro fondamento costituzionale», anche perché si tratterebbe di una «estensione in malam partem rispetto al dato codicistico» [14]. Non si può non osservare, inoltre, che le argomentazioni delle Sezioni Unite sul punto si pongono su un crinale pericoloso che porta a sciogliere il P.G. e il giudice disciplinare dal rispetto della legalità processuale e dei principi del giusto processo, proprio nell'ambito di un processo, quello disciplinare, il cui carattere giurisdizionale è indiscusso [15].

La giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea e della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo

Le Sezioni Unite citate affermano che non è pertinente il richiamo alla sentenza della Corte di giustizia UE, Grande Sezione, 2 marzo 2021, causa C-746/18, richiamata negli scritti difensivi, poiché «il relativo principio di diritto non è applicabile nel caso di specie, riferendosi alla disciplina normativa dell'acquisizione dei dati di flusso telematico presso i fornitori del servizio (c.d. data retention), mentre nel presente giudizio si controverte circa la legittima acquisizione/utilizzazione nel procedimento disciplinare a carico di un magistrato di elementi probatori documentali rivenienti dal sequestro probatorio penale dell'apparecchio cellulare in uso al dott. Palamara». La Suprema Corte, innanzitutto, non si avvede che nella sentenza della Corte di Giustizia non si discute del contenuto del flusso telematico, ma dei dati esterni ad esso, relativi al traffico o all'ubicazione, aventi certamente carattere documentale, e della loro legittima detenzione (data retention), proprio come nella fattispecie in esame in cui, come sopra dimostrato ed argomentato, si tratta di dati che non erano legittimamente detenuti, perché del tutto al di fuori del perimetro delle finalità probatorie del disposto sequestro, sicché non viene in rilievo il momento dinamico dell'acquisizione di dati nell'esercizio di un potere-dovere costituzionalmente imposto, ma proprio il momento statico della conservazione di dati a puri scopi extrapenali rispetto ai quali il punto di equilibrio dei valori in gioco deve ritenersi sbilanciato a favore della tutela della privacy [16]. Sul punto la citata sentenza della Corte di Giustizia contiene principi generali inequivocabili, che non possono certamente essere elusi parlando in modo equivoco di “dati di flusso telematico”. Afferma la Corte di Giustizia che l'accesso di autorità pubbliche a dati relativi alla vita privata per finalità di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di reati è consentito solo se «tale accesso sia circoscritto a procedure aventi per scopo la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica. Pertanto, le attività intrusive sono senz'altro consentite nel corso di indagini penali ma, secondo la direttiva 2002/758/CE, devono essere declinate in modo appropriato e proporzionato allo scopo perseguito attraverso la previsione di garanzie che salvaguardino i principi stabiliti nella Carta dei diritti fondamentali della Unione europea, in particolare agli articoli 7 (ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni), 8 (ogni persona ha diritto alla protezione dei dati di carattere personale che la riguardano), 11 (ogni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera), e 52 (laddove è stabilito che eventuali limitazioni dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà, con la conseguenza che possono essere apportate limitazioni, nel rispetto del principio di proporzionalità, solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà)».

Da questi principi si ricava, in modo chiaro, che l'accesso di autorità pubbliche a dati relativi alla vita privata è consentito solo se «tale accesso sia circoscritto a procedure aventi per scopo la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica». Questa affermazione contrasta proprio quella delle Sezioni Unite della Suprema Corte, secondo la quale gli interessi pubblici coinvolti nei processi disciplinari di cui si parla possano essere di tale livello da giustificare, nella ponderazione degli interessi in gioco, il pregiudizio di diritti fondamentali nella sentenza della Corte di Giustizia puntualmente elencati.

Anche la recente giurisprudenza penale della Corte di cassazione pone, in modo esplicito, il divieto di mantenere il sequestro di dati non pertinenti al processo penale e la violazione del correlativo obbligo di restituzione o distruzione in correlazione con i diritti tutelati dall'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo.

In questo senso, Cass., Sez. VI, 3 febbraio 2022, n. 17878, afferma che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il sequestro di uno smartphone e dei dati da esso estratti comporta un'ingerenza nel diritto al rispetto della corrispondenza ai sensi del primo comma dell'articolo 8 della Convenzione (sentenza Saber c. Norvegia, 17 dicembre 2020, n. 459/18). Pertanto, deve ritenersi che sussista l'interesse alla esclusiva disponibilità dei dati estratti da quest'ultimo, in quanto si tratta di strumento informatico destinato per la sua stessa natura a raccogliere dati personali e riservati.

Nello stesso senso, Cass., Sez. II, 12 marzo 2019, n. 26606, in tema di sequestro di apparati elettronici e dei dati ivi contenuti, afferma che la mera restituzione degli atti indebitamente appresi in originale non può considerarsi risolutiva, dal momento che la reintegrazione nella disponibilità di essi non elimina il pregiudizio che potrebbe derivare all'interessato dal mantenimento del vincolo sulle copie dei predetti atti, in termini di violazione di diritti certamente meritevoli di tutela, quali quello alla riservatezza o al segreto. A tale proposito la Corte di cassazione considera anche le indicazioni fornite dalla Corte EDU, che ritiene meritevoli di tutela, con riferimento all'art. 8 della Convenzione, il diritto al rispetto della vita privata e familiare (Corte EDU, 22 maggio 2008, Ilya Stefanov c. Bulgaria; 2 aprile 2015, Vinci Construction et GTM Génie Civil et Services c. Francia).

Alle citazioni contenute nelle richiamate sentenze della Suprema Corte, possono aggiungersi anche le sentenze CEDU del 16/10/2007 Quarta Sezione, Numero del Ricorso:74336/01, caso Wieser et Bicos Beteiligungen GmbH contro Austria [17], e CEDU del 07/06/2007 Prima Sezione, Numero del Ricorso:71362/01, caso: Smirnov contro Russia [18] e soprattutto, particolarmente pertinente al caso in esame, la sentenza CEDU del 16/11/2021 Quarta Sezione, Numero del Ricorso:73284/13 caso: Stefanov contro Bulgaria, in un caso in cui era stata sequestrata una “chiave di memoria”, la Corte osserva [19] che «mentre si potrebbe accettare che la chiave di memoria sia stata conservata nel perseguimento del legittimo scopo di prevenzione del crimine, nessuna garanzia efficace contro l'abuso o l'arbitrarietà è stata dimostrata esistere, o essere stata messa in atto e seguita nella pratica dalle autorità» e « non è stata dimostrata alcuna procedura che prevedesse il trattamento di informazioni privilegiate in modo da garantire che la loro riservatezza non fosse violata […] Non sono stati menzionati requisiti legali per quanto riguarda la conservazione di tali dati o la loro distruzione […] non è stata dimostrata alcuna garanzia in relazione all'accesso e all'ulteriore trattamento dei dati […] la Corte ritiene che non sia stata dimostrata alcuna garanzia per garantire che la natura privilegiata di qualsiasi informazione, stabilita dalle autorità competenti come parte della chiave di memoria, sia stata rispettata e protetta […]. Di conseguenza, si è verificata una violazione dell'articolo 8 della Convenzione» [20].

A livello sovranazionale, dunque, si continua a ribadire la centralità della riservatezza e/o del segreto delle comunicazioni anche con riferimento a messaggi informatico-telematici nella loro dimensione “statica”, ossia già avvenuti [21].

Tra i motivi di ricorso proposti davanti alle Sezioni Unite civili vi era anche una questione di legittimità costituzionale degli artt. 191, 253 c.p.p. e degli artt. 16 e 18 del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, in relazione agli artt. 3 e 117 Cost., 7 e 8 della CEDU, nelle parti in cui consentono all'autorità giudiziaria prima e alla Sezione disciplinare del CSM poi di utilizzare a fini disciplinari documenti aventi contenuto comunicativo e riservato, estratti da dispositivi elettronici oggetto di sequestro penale, non pertinenti al procedimento penale in corso e non aventi rilevanza penale in violazione del principio di proporzionalità, con conseguente lesione dei diritti tutelati dagli artt. 7 e 8 della CEDU.

Le Sezioni Unite hanno ritenuto infondata la questione, in quanto la prospettazione difensive “mira ad una decisione manipolativa”. Anche tale prospettazione non può essere condivisa, poiché, in realtà, nessuna norma viene manipolata, mentre semplicemente le norme in materia verrebbero ricondotte a sistema mediante una interpretazione costituzionalmente orientata, che non consenta al giudice disciplinare di utilizzare documenti acquisiti in violazione di obblighi di legge che ne imponevano la restituzione agli aventi diritto, al fine di evitare la violazione dei principi di proporzionalità e dei valori di riservatezza tutelati anche a livello comunitario e in applicazione della Convenzione EDU.

Le Sezioni Unite, poi, non tengono in alcun conto il riferimento anche all'art. 3 Cost., che trova fondamento in quanto osservato nella citata nota del P.G. di Trento: «Quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità in materia di copia integrale della messaggistica inviata in via telematica, peraltro, nel quadro di un'interpretazione sistematica è perfettamente coerente con la nuova disciplina delle intercettazioni telefoniche perché risulterebbe manifestamente irrazionale e contrario ad un'esegesi costituzionalmente orientata ritenere che non possa essere acquisito il contenuto di conversazioni intercettate irrilevanti ai fini del processo o contenenti particolari categorie di dati e possa, di contro, essere riversato agli atti del procedimento il contenuto dell'intera copia integrale di chat, email, sms o mms». Queste osservazioni trovano ora un preciso riscontro nella citata sentenza n. 170 del 2023 della Corte costituzionale e assumono ancor più valore e significato in un momento in cui il Ministro della Giustizia sta per proporre ulteriori norme limitative delle intercettazioni telefoniche a tutela della riservatezza.

Note

[1] Ancora di recente le Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass., Sez. Un., 19 aprile 2018, n. 36072) hanno chiarito come il decreto di sequestro probatorio, anche se abbia ad oggetto cose costituenti corpo del reato, debba contenere una specifica motivazione della finalità perseguita per l'accertamento dei fatti.

[2] L'approdo interpretativo della consapevolezza della necessità di adattare i concetti giuridici agli sviluppi tecnologici è quello di ritenere che la restituzione del computer o di un supporto informatico non fa venir meno l'interesse al riesame del provvedimento di sequestro probatorio nel caso in cui ne risulti la restituzione previa estrazione di copia dei dati ivi contenuti. In tal senso, Cass., Sez. Un., 20 luglio 2017, n. 40963: «È indubbio che, in tali casi, la restituzione non può considerarsi risolutiva, dal momento che la mera reintegrazione nella disponibilità della cosa non elimina il pregiudizio, conseguente al mantenimento del vincolo sugli specifici contenuti rispetto al contenitore, incidente su diritti certamente meritevoli di tutela, quali quello alla riservatezza o al segreto».

[3] Cass., Sez. VI, 22 settembre 2020,n. 34265.

[4] Cass., Sez. VI, 9 dicembre 2020 - dep. 19 febbraio 2021,n. 6623.

[5] Cass., Sez. VI, 11 novembre 2016,n. 53168.

[6] In tal senso ancora Cass., Sez. VI, 4 marzo 2020, n. 13165.

[7] Nota pubblicata su ilpenalista il 15 dicembre 2021, con commento di F. Brizzi, il quale, in particolare, rileva che i principi di non eccedenza del trattamento si applicano anche agli atti giudiziari ex art. 3 d.lgs. 51/2018, e Penale Diritto e Procedura il 19 dicembre 2021 con commento di L. Filippi, che censura la tendenza a sviluppare indagini nelle quali viene acquisito di tutto, anche ciò che è palesemente estraneo al reato da accertare e riguarda la vita privata e persino intima dell'indagato, dei suoi familiari e di terzi estranei e si invita a fare “un passo in avanti non solo di civiltà, ma anche di “igiene processuale”.

[8] Emblematica di una interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata con riferimento ai nuovi mezzi tecnologici è la sentenza Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2015, n. 31022, che, nell'interpretare il termine “stampa” afferma: «È necessario, pertanto, discostarsi dall'esegesi letterale del dettato normativo e privilegiare una interpretazione estensiva dello stesso, sì da attribuire al termine "stampa" un significato evolutivo, che sia coerente col progresso tecnologico e, nel contempo, non risulti comunque estraneo all'ordinamento positivo, considerato nel suo complesso e nell'assetto progressivamente raggiunto nel tempo. L'interpretazione estensiva, se coerente con la mens legis – nel senso che ne rispetta lo scopo oggettivamente inteso, senza porsi in conflitto con il sistema giuridico che regola il settore d'interesse – consente di discostarsi dalle definizioni legali, le quali sono semplici generalizzazioni destinate ad agevolare l'applicazione della legge in un determinato momento storico, e di accreditare al dato normativo un senso e una portata corrispondenti alla coscienza giuridica e alle necessità sociali del momento attuale.»

[9] La Corte non trascura di rilevare che «a livello di legislazione ordinaria interna, il quarto comma dell'art. 616 c.p., come sostituito dall'art. 5 della legge n. 547 del 1993, già da tempo include espressamente nella nozione di «corrispondenza» – agli effetti delle disposizioni che contemplano i delitti contro l'inviolabilità dei segreti – oltre a quella epistolare, telegrafica e telefonica, anche quella «informatica o telematica ovvero effettuata con ogni altra forma di comunicazione a distanza».

[10] La Corte osserva anche che l'indirizzo della giurisprudenza di legittimità è «in effetti, calibrato sulla specificità della disciplina recata dall'art. 254 c.p.p., che regola esclusivamente il sequestro di corrispondenza operato presso i gestori di servizi postali, telegrafici, telematici o di telecomunicazioni: dunque, il sequestro di corrispondenza in itinere, che interrompe il flusso comunicativo».

[11] G. VERDE, Le ricadute della vicenda «Palamara» sulla disciplina dei magistrati e sul sistema correntizio, in Rivista di diritto processuale 1/2023, p. 120, osserva sul punto: «E ´strano che alla solerzia della Procura generale sia sfuggito che secondo la lett. u) dell'art. 2, d.lgs. n. 109 del 2006 incorre in responsabilità disciplinare il magistrato che divulga, anche se per sola negligenza, atti che non possono essere pubblicati (qui: utilizzati)».

[12] Si possono leggere in www.procuracassazione.it

[13] In tal senso si sono espresse le stesse Cass., Sez. Un., 15 gennaio 2020, n. 741. Peraltro, in senso critico rispetto alla giurisprudenza disciplinare sulla utilizzabilità in sede disciplinare delle intercettazioni disposte in sede penale v. V. Di Nuzzo, La Corte EDU interviene sull'assetto del procedimento disciplinare a carico dei magistrati nell'ordinamento turco. Alcune riflessioni a margine per un confronto con l'attuale panorama italiano, in Giustizia Insieme, 10 luglio 2021; l'autrice in particolare osserva che il “consistente potere investigativo” riconosciuto dalla giurisprudenza ai fini disciplinari «non può tuttavia sfociare in lesioni ingiustificate di diritti fondamentali, dovendo sempre garantirsi quel bilanciamento tra l'interesse generale ad accertare e reprimere gli illeciti disciplinari dei magistrati e l'interesse del singolo a veder rispettati i propri diritti e a poter ricorrere ad un giudice per censurare profili di illegittimità».

[14] In questo senso si esprime G. Spangher, Sull'utilizzabilità in sede disciplinare delle intercettazioni eseguite in sede penale. A proposito delle recenti Sezioni Unite Civili n. 9390/2021, in Giustizia Insieme, 26 aprile 2021.

[15] Nello stesso senso G. Verde, cit., 117 e 118, il quale, facendo riferimento a sentenze delle Sezioni Unite civili che richiamano il principio della ricerca della verità materiale per escludere l'applicabilità di norme del codice di procedura penale, osserva: «Alla massima è sottesa una preoccupante ideologia: quella per la quale esisterebbe nel nostro ordinamento il «principio fondamentale della ricerca della verità materiale», così che le regole disposte dai codici per l'acquisizione della prova costituiscono «limitazioni» possibili soltanto se esistono ragionevoli esigenze che le giustifichino. E poiché il diritto probatorio è parte (forse la più rilevante) della disciplina del processo, si potrebbe estendere la portata della massima a tutte le regole processuali, le quali costituirebbero o potrebbero costituire, secondo la logica della Corte, tutte “limitazioni” capaci di ostacolare la ricerca della verità materiale […] il processo è «giusto» non se attinge alla giustizia (ossia alla verità materiale), ma se è rispettoso delle regole che l'ordinamento ha posto; e al giudice è affidato il delicato ruolo di «garante» del rispetto delle regole, che egli non può manovrare a suo piacimento per perseguire obiettivi di giustizia».

[16] Anche la sentenza n. 170 del 2023 sopra ampiamente citata rileva che essa Corte ha già da tempo affermato che «la garanzia apprestata dall'art. 15 Cost. si estende anche ai dati esteriori delle comunicazioni (quelli, cioè, che consentono di accertare il fatto storico che una comunicazione vi è stata e di identificarne autore, tempo e luogo)» e osserva «come non possa ravvisarsi una differenza ontologica tra il contenuto di una conversazione o di una comunicazione e il documento che rivela i dati estrinseci di queste, quale il tabulato telefonico», con la conseguenza che «se, dunque, l'acquisizione dei dati esteriori di comunicazioni già avvenute (quali quelli memorizzati in un tabulato) gode delle tutele accordate dagli artt. 15 e 68, terzo comma, Cost., è impensabile che non ne fruisca, invece, il sequestro di messaggi elettronici, anche se già recapitati al destinatario: operazione che consente di venire a conoscenza non soltanto dei dati identificativi estrinseci delle comunicazioni, ma anche del loro contenuto, e dunque di attitudine intrusiva tendenzialmente maggiore».

[17] Che fa riferimento ad un caso in cui una società e il suo proprietario e direttore generale, avvocato, avevano subìto, nell'ambito di una indagine penale per commercio illegale di farmaci, la perquisizione e il sequestro di dati elettronici. La Corte europea dichiara la violazione del diritto al rispetto della corrispondenza in quanto le modalità di ispezione e del sequestro dei dati elettronici erano state sproporzionate rispetto al fine legittimo perseguito.

[18] Un avvocato che aveva subito una perquisizione del suo appartamento alla ricerca di prove contro suoi clienti, sospettati di partecipare alla criminalità organizzata, lamentava la violazione dell'art. 8 CEDU (diritto al rispetto della vita privata e familiare) nonché dell'art. 13 (diritto a un rimedio effettivo) e dell'art. 1 Protocollo 1 (protezione della proprietà). La Corte constata che era stata seguita una procedura adeguata e che la misura perseguiva fini legittimi, ma che la perquisizione, disposta con un mandato troppo ampio il quale lasciava discrezionalità nel determinare che cosa sequestrare, era stata condotta senza sufficiente fondamento e senza garanzie per la tutela del segreto professionale, e come tale non rappresentava una misura “necessaria in una società democratica”, con violazione dell'art. 8 CEDU (nonché dell'art. 1 Protocollo 1 in relazione al sequestro, tuttora mantenuto dopo più di sei anni, del computer del ricorrente).

[19] La traduzione in italiano è stata effettuata con traduttore automatico.

[20] G. Verde, op. cit., 121: «Se le questioni fossero sottoposte all'attenzione del giudice europeo, che è sempre attento nel non sconfinare in valutazioni che ritiene riservate alla sovranità dei singoli Stati, e se questo giudice condividesse – come sostengono i giudici italiani – che il nostro ordinamento non regola la (indebita) utilizzazione dei documenti penalmente irrilevanti estratti dalla memoria di un cellulare sequestrato, avrebbe da ragionare sull'applicazione dell'art. 8 della Convenzione, che adopera un linguaggio meno enfatico rispetto a quello adoperato dalla nostra Costituzione, limitandosi a proteggere il diritto alla riservatezza e a stabilire le ipotesi in cui è possibile limitarlo. Ed in questa prospettiva dovrebbe valutare se la necessità di «un controllo più penetrante sulla correttezza dei comportamenti dei magistrati» al fine di «alimentare la fiducia dei consociati nell'Ordine giudiziario» (come leggo nella sentenza n. 84/2021; ma l'idea è sottostante a tutte le decisioni in esame ed è stata inserita nel «diritto vivente» dalla Corte di cassazione) sia riconducibile ad una delle ipotesi descritte nel secondo comma del richiamato art. 8, non dimenticando che i magistrati condannati non avevano «discusso» nelle conversazioni giudiziarie di affari o controversie giudiziarie, ma di nomine».

[21] Anche la citata sentenza della Corte costituzionale n. 170/2023 riconosce che «La Corte europea dei diritti dell'uomo non ha avuto, d'altro canto, esitazioni nel ricondurre nell'alveo della «corrispondenza» tutelata dall'art. 8 CEDU anche i messaggi informatico-telematici nella loro dimensione “statica”» e cita tra le altre anche la sentenza della Grande Camera Barbulescu c. Romania del 5 settembre 2017, dove si legge che il servizio di messaggistica istantanea su Internet è «una delle forme di comunicazione che consentono agli individui di condurre una vita sociale privata» e che «l'invio e la ricezione di comunicazioni rientra nella nozione di "corrispondenza"».