Tutela del diritto alla vita di un detenuto: per la Corte EDU le autorità italiane non hanno adottato misure idonee a prevenire il decesso per overdose

La Redazione
25 Settembre 2023

Con sentenza del 14 settembre 2023 (n. 2264/12), la Corte EDU si è pronunciata su un caso di suicidio (overdose) di un uomo in custodia cautelare con l'accusa di traffico di stupefacenti. I giudici di Strasburgo, sposando la posizione del Tribunale di Milano il quale ravvisava una responsabilità dello Stato sotto il profilo dell'omissione di soccorso e di sorveglianza, hanno affermato che il Governo italiano non ha fornito elementi sufficienti e convincenti sull'adozione di tutte le misure necessarie per tutelare la vita del detenuto (perquisizione personale, cure mediche etc.) ex art. 2 CEDU.

Nella sentenza pronunciata il 14 settembre 2023 (ricorso n. 2264/12), la Corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto la violazione dell'art. 2 (diritto alla vita) della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, relativamente ad un decesso di un parente dei ricorrenti dovuto ad un'overdose di droga mentre si trovava in custodia cautelare, dopo essere stato arrestato nel quadro di un'operazione di lotta contro il traffico di droga.

Nel caso in esame, il congiunto dei ricorrenti, detenuto in custodia cautelare nella questura di Milano nel 2001, moriva di overdose nel lasso di tempo di 3 ore dal suo arresto, momento in cui il soggetto risultava in già psicologicamente e fisicamente debole a causa dell'assunzione di sostanze psicotrope.

In quell'occasione, veniva dunque chiamata un'ambulanza in quanto il soggetto sembrava cianotico, aveva difficoltà a respirare ed era affetto da convulsioni. Constatato il decesso pochi minuti dopo presso un ospedale milanese, veniva effettuata un'autopsia che rivelava un edema cerebrale e polmonare causato da un'eccessiva fluidità del sangue, congestione degli organi interni e petecchie, compatibili con la morte naturale dovuta a difficoltà respiratorie o morte per asfissia. Tuttavia, il medico legale non riusciva a determinare la causa esatta della morte.

Nel 2003, un ulteriore rapporto stabiliva che la causa del decesso fosse un'intossicazione acuta da cocaina e che la droga era stata assorbita «poco tempo prima della morte». Avviata un'indagine d'ufficio, veniva poi archiviata nel 2003: i pubblici ministeri decidevano dunque di non procedere in quanto non vi erano prove che un atto costitutivo di reato fosse stato commesso da un terzo. Secondo i magistrati, infatti, non sussistevano elementi che potessero collegare la morte del soggetto in questione ad eventi esterni realizzati da terzi.

Così, il 22 giugno 2003 i ricorrenti citarono in giudizio il ministero dell'Interno per ottenere un risarcimento danni per omissione di soccorso e omessa sorveglianza: inizialmente riconosciuta la responsabilità del ministero, in seguito veniva esclusa nei successivi gradi di giudizio.

La Corte EDU ha ribadito che il diritto alla vita è uno dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione EDU e che le autorità sono tenute a rendere conto del trattamento riservato alle persone detenute dalla polizia, data la posizione vulnerabile in cui si trovano. Ha inoltre ricordato che, in caso di lesioni personali o di morte avvenute durante un periodo di detenzione, l'onere della prova incombe alle autorità per fornire una spiegazione che sia soddisfacente e convincente.

Conseguentemente, i giudici di Strasburgo, hanno affermato che, nel caso di specie, anche in assenza di elementi sufficienti per stabilire che le autorità erano o avrebbero dovuto essere a conoscenza di un rischio reale e immediato di ingestione di una dose fatale di cocaina per il detenuto, queste avevano il dovere di prendere precauzioni elementari per minimizzare ogni rischio potenziale per la sua salute o il suo benessere, in particolare tenuto conto del fatto che si sentiva male, che non era in pieno possesso dei suoi mezzi, che aveva addosso della cocaina quando è stato arrestato e che la polizia era a conoscenza della sua tossicodipendenza.

Inoltre, la Corte aggiunge che il detenuto non ha mai ricevuto cure mediche dopo il suo arresto. Non ci sono prove, infatti, che sia stato perquisito presso la stazione di polizia di Milano.

Per quanto riguarda l'argomento del Governo consistente nell'affermare che una perquisizione personale avrebbe posto problemi rispetto ad altri articoli della Convenzione, la Corte dichiara che sarebbe eccessivo perquisire tutte le persone arrestate, ma che ciò non sollevi le autorità dai loro obblighi in materia, in particolare, nella fattispecie, di verificare che il soggetto in questione non fosse in possesso di droga al suo arrivo alla stazione centrale di polizia.

La Corte non è in grado di concludere tali misure siano state attuate.

Inoltre, non è chiaro se il detenuto sia stato oggetto di un'adeguata sorveglianza e i procuratori incaricati del caso non hanno interrogato tutti i poliziotti interessati.

La Corte conclude dunque che il Governo italiano non ha avanzato argomenti o prodotto elementi convincenti tali da dimostrare che misure sufficienti, ad esempio perquisizioni o assistenza medica, sarebbero state messe in atto per proteggere la vita del detenuto mentre si trovava in questura.