Ottemperanza al giudicato amministrativo e rilievo delle sopravvenienze

06 Ottobre 2023

Alla formazione del giudicato amministrativo, tradizionalmente designato come “a formazione progressiva”, concorrono sia le statuizioni contenute della pronuncia del giudice sia la successiva attività amministrativa diretta alla sua esecuzione, la quale è, però, esposta al sopravvenire di eventi, di fatto e di diritto, che, incidendo sulla riedizione del potere, possono limitare o precludere gli effetti futuri della sentenza, cosicché l'efficacia del giudicato risulta in concreto condizionata al permanere invariato delle circostanze presenti al momento della emanazione della sentenza, salvo il limite temporale - applicabile senz'altro alle sopravvenienze in diritto - individuato dalla giurisprudenza amministrativa nella notificazione della sentenza.

Il giudizio di ottemperanza: origini dell'istituto

Alla stregua dell'attuale disciplina, contenuta nel Titolo I del Libro IV del codice del processo amministrativo il giudizio di ottemperanza è il giudizio finalizzato all'attuazione delle sentenze, anche non passate in giudicato, e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo, delle sentenze del giudice ordinario passate in giudicato, o degli atti alle stesse equiparati, ovvero dei lodi arbitrali divenuti inoppugnabili, quando dagli stessi discendono obblighi per la pubblica Amministrazione.

Dal punto di vista storico, l'istituto trova la sua origine nelle previsioni della l. 31 marzo 1889 n. 5992 (c.d. legge Crispi, istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato), quale strumento finalizzato a completare il sistema di giustizia amministrativa delineato nel 1865 con la l. 20 marzo 1865 n. 2240 (c.d. Legge Abolitiva del Contenzioso amministrativo), il cui allegato E dispose la soppressione del precedente sistema di contenzioso amministrativo e affidò al giudice ordinario “tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile e politico”. Naturalmente, in linea con la rigida concezione del principio di separazione dei poteri, all'epoca imperante, il giudice ordinario aveva poteri decisori molto ridotti, essendogli preclusa, da un lato, la possibilità di revocare o modificare l'atto amministrativo lesivo di un diritto civile o politico e, dall'altro, essendogli riconosciuto il potere solo disapplicare l'atto amministrativo, se non conforme a legge.

Nel sistema della l. n. 2240/1865 non era previsto, però, alcun rimedio per obbligare l'amministrazione, che non avesse eseguito spontaneamente la decisione del giudice ordinario, a dare attuazione al giudicato: l'art. 4, comma 2, si limitava a stabilire che le autorità amministrative “si conformeranno al giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso”.

Al riguardo la dottrina ha osservato che “l'obbligo di conformarsi al giudicato del giudice ordinario acquistava [...] il senso di indurre l'amministrazione a rimuovere essa stessa gli atti non conformi a legge, a trarre cioè autonomamente tutte le conseguenze derivanti dall'accertamento compiuto dal giudice ordinario” (1).

Con l'introduzione nel sistema del giudizio di ottemperanza, avvenuta di lì a qualche anno, si cercò di colmare tale vuoto di tutela, prevedendo uno strumento specifico per consentire l'esecuzione delle sentenze del giudice ordinario. In particolare, l'art. 4, n. 4 della c.d. Legge Crispi, poi trasfuso nel Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato, previde che “Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale decide pronunciando anche in merito[...]dei ricorsi diretti ad ottenere l'adempimento dell'obbligo dell'autorità amministrativa di conformarsi, in quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dei Tribunali che abbia riconosciuto la lesione di un diritto civile o politico”.

Fu in questo modo che venne introdotto, sia pure in forma embrionale, il rimedio del giudizio di ottemperanza, come attualmente inteso e, soprattutto, come ipotesi di giurisdizione di merito, in cui il giudice “decide pronunciando anche in merito”, consentendosi in tal modo al giudice di sostituirsi all'amministrazione annullando o riformando in tutto o in parte l'atto amministrativo illegittimo.

In realtà, il giudizio di ottemperanza, in origine, ancora non si applicava alle pronunce del giudice amministrativo e questo accadeva per varie ragioni.

In primo luogo, la giurisdizione amministrativa venne originariamente concepita come giurisdizione di mero annullamento di atti amministrativi illegittimi, cosicché si riteneva che non vi fosse né spazio né necessità di un rimedio esecutivo poiché l'annullamento, rimuovendo l'illegittimità ex tunc, avrebbe ripristinato la situazione antecedente e soddisfatto la pretesa del ricorrente.

In secondo luogo, l'attività positiva successiva alla pronuncia era ritenuta propria della P.A. (c.d. riserva di Amministrazione).

In terzo luogo, come già ricordato, vi era una concezione molto rigida del principio della separazione dei poteri.

In quarto luogo, per alcuni anni rimase dibattuta la stessa natura giurisdizionale della IV Sezione del Consiglio di Stato e, conseguentemente, l'esistenza di un giudicato in senso tecnico da eseguire. La natura giurisdizionale della IV Sezione – come è noto - fu prima riconosciuta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione) (2) e poi sancita legislativamente nel 1907 (3).

L'estensione del rimedio dell'ottemperanza alle sentenze del giudice amministrativo avvenne, invece, grazie all'opera della giurisprudenza e prese avvio con una sentenza della IV Sezione del Consiglio di Stato nel 1928 (4), definita “uno degli esempi più significativi di creazione giurisprudenziale di regole processuali, o addirittura, di corpi organici di regole processuali che danno origine a rimedi giurisdizionali praeter legem (o forse addirittura contra legem)” (5).

L'opera creatrice del giudice amministrativo continuò con l'estensione del rimedio, oltre le ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (e, quindi, per le controversie, nelle quali vi era questione di diritto soggettivo), anche alla tutela degli interessi legittimi nell'ambito della giurisdizione di legittimità (6) e con la creazione della figura del commissario ad acta per l'esecuzione di uno specifico comando del giudice (7).

Queste innovazioni che valsero a configurare l'istituto nelle forme ora note furono dapprima avallate dalla Corte di Cassazione (8) e poi recepite dal legislatore con la legge istitutiva dei Tribunali Amministrativi Regionali (l. 6 dicembre 1971, n. 1034), la quale introdusse alcune regole processuali sul giudizio di ottemperanza, in particolare, con riguardo all'individuazione del giudice competente e al procedimento applicabile.

Successivamente, la legge 21 luglio 2000, n.205 di riforma del processo amministrativo, estese l'ambito di applicazione del giudizio di ottemperanza alle sentenze di primo grado non sospese ed alle ordinanze cautelari, senza però disciplinare compiutamente l'istituto, che continuò ad essere plasmato dalla giurisprudenza amministrativa fino all'entrata in vigore nel 2010 del codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104), con riguardo a molteplici aspetti: l'oggetto del giudizio, i presupposti formali, i poteri e la natura del giudice e del commissario ad acta, il problema delle sopravvenienze di fatto e di diritto alla sentenza passata in giudicato.

Il giudizio di ottemperanza nel codice del processo amministrativo

Solo con il codice del processo amministrativo del 2010 è stata introdotta una disciplina normativa organica e completa, la quale ha, in larga parte, recepito gli orientamenti giurisprudenziali formatisi e consolidatisi nel corso del tempo, ma ha anche introdotto alcune significative novità.

Proprio con la già richiamata estensione del rimedio anche alle sentenze del giudice amministrativo, secondo la regola ora contenuta nell'art. 112 c.p.a., il giudizio di ottemperanza aveva visto accentuarsi la funzione, strettamente connessa al riconoscimento della giurisdizione di merito, di sostituzione dell'Amministrazione (inottemperante) al fine di assicurare l'adempimento della pronuncia giurisdizionale, pur nella consapevolezza che detta sostituzione non avviene nell'esercizio del potere di cura dell'interesse pubblico attribuito dalla legge, ma solo con riferimento al “decisum ottemperando”.

Naturalmente, l'obbligo di attuazione assume connotati differenti a seconda del tipo di interesse fatto valere in giudizio, ossia se di natura oppositiva, pretensiva oppure procedimentale, dato che, nel primo caso, la pronuncia del giudice dovrà essere idonea a soddisfare pienamente la posizione giuridica del ricorrente vittorioso, senza necessità di altri interventi dell'Autorità amministrativa, laddove, con riguardo agli interessi di natura pretensiva o procedimentale, che richiedono una ulteriore attività amministrativa per essere soddisfatti, risulterà determinante la collaborazione dell'Amministrazione per consentire all'istante di conseguire il bene della vita oggetto della sua pretesa.

In questa prospettiva, si discorre in dottrina della natura polisemica del (sintagma) giudizio di ottemperanza, in ragione delle sue caratteristiche, volta per volta, di tipo esecutivo, attuativo, di cognizione, risarcitorio, conformativo (9).

Peraltro, la descritta natura polisemica del giudizio di ottemperanza è funzionale alla piena attuazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale, in vista della garanzia dell'attuazione del dictum giudiziale nella misura più fedele (ed effettiva) possibile, in tal modo assicurando la pienezza della tutela giurisdizionale.

Tuttavia, come è stato puntualmente evidenziato (10), la pienezza e l'effettività della tutela giurisdizionale non possono essere assolutizzate al punto da consentire, nello svolgimento del giudizio di ottemperanza, di derogare a tutti gli altri principi, anche di rango costituzionale, che reggono il processo, sia amministrativo che civile (tra cui, il diritto di difesa, di cui all'art. 24, secondo comma, della Cost.; il principio del contraddittorio di cui all'art. 111, secondo comma, Cost.; il divieto di ultrapetizione, il principio della separazione dei poteri e la cd. riserva di amministrazione).

Ciò posto, va, però, rimarcato che il principio di separazione organica o strutturale, anche se non funzionale, della giurisdizione impedisce, in ogni caso, al giudice amministrativo di integrare il comando giudiziale contenuto nelle sentenze dei giudici appartenenti ad un altro plesso e che il principio di separazione dei poteri (e la correlata riserva di amministrazione) pongono dei limiti alla conformazione dei tratti ancora liberi dell'attività amministrativa e rispetto ai poteri non ancora esercitati, rimasti impregiudicati dalla pronuncia giurisdizionale (11).

L'ottemperanza al giudicato amministrativo di annullamento: le sopravvenienze

La sentenza di annullamento del giudice amministrativo oltre al c.d. effetto caducatorio o demolitorio (consistente nella eliminazione dell'atto impugnato) produce, come concordamento riconosciuto dalla dottrina e dalla giurisprudenza dominanti, anche l'effetto c.d. ripristinatorio e l'effetto c.d. conformativo.

L'effetto conformativo vincola la successiva attività dell'Amministrazione di riesercizio del potere perché il giudice, quando accerta l'invalidità dell'atto e le ragioni che la provocano, stabilisce (in maniera più o meno piena a seconda del tipo di potere che viene esercitato e del vizio riscontrato) quale è il corretto modo di esercizio del potere e fissa quindi la regola alla quale l'amministrazione si deve attenere nella sua attività futura.

L'effetto ripristinatorio implica la cancellazione delle modificazioni della realtà (giuridica e di fatto) intervenute per effetto dell'atto annullato e cioè l'adeguamento dell'assetto di interessi esistente prima della pronuncia giurisdizionale e venuto in vita sulla base dell'atto impugnato, alla situazione giuridica prodotta dalla pronuncia stessa.

Quest'ultimo effetto, che, prima dell'introduzione della disciplina codicistica, trovava la sua giustificazione normativa nell'art. 65, n. 5 del Regolamento di procedura del 1907 (R.D. 17 agosto 1907 n. 642 recante regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato), il quale prescriveva che nella sentenza dovesse incluso "l'ordine che la decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa", è giustificato dalla stessa funzione dell'annullamento e dalla esigenza di assicurarne l'utilità, dal momento che sarebbe irragionevole annullare un provvedimento se alla pronuncia caducatoria non facesse seguito l'obbligo dell'Amministrazione di ripristinare la situazione di fatto o di diritto esistente prima del provvedimento impugnato: il ricorrente vittorioso è interessato non tanto (rectius, non solo) alla caducazione dell'atto quanto soprattutto a conseguire il bene della vita illegittimamente sottrattogli dall'illegittimo esercizio del potere amministrativo.

Al riguardo, il Consiglio di Stato ha avuto modo di precisare che “l'obbligo di ripristino, del resto, trova ragione nell'esigenza di riequilibrare gli effetti prodotti dal provvedimento prima del suo annullamento. Tali effetti non possono mantenersi, perché altrimenti sarebbe contraddetta l'efficacia ex tunc della eliminazione del provvedimento annullato. L'effetto ripristinatorio è quindi una diretta conseguenza della caducazione del provvedimento e rientra a pieno titoli nei doveri di esecuzione che gravano sulla p.a. in conseguenza della sentenza di annullamento. L'obbligo ripristinatorio nasce come effetto dell'annullamento, indipendentemente dalla configurabilità degli estremi del fatto illecito previsti dall'art. 2043 c.c.; in particolare, l'obbligo restitutorio, prescinde dalla colpa e dalla tipologia del vizio (sostanziale o formale accertato dalla sentenza di annullamento) e non incontra i limiti della eccessiva onerosità di cui all'art. 2058 c.c.” (12).

Gli effetti del giudicato amministrativo appena richiamati hanno inevitabili ripercussioni sulla natura del giudizio di ottemperanza e sugli spazi cognitivi riservati in tale sede al giudice amministrativo: si tratta di un giudizio del quale non può essere negata la “natura mista di esecuzione e di cognizione, in quanto di frequente la regola posta dal giudicato amministrativo è una regola implicita, elastica, incompleta, che spetta al giudice dell'ottemperanza completare ed esplicitare. Non a caso si è efficacemente parlato del giudizio di ottemperanza come prosecuzione del giudizio di merito, diretto ad arricchire, pur rimanendone condizionato, il contenuto vincolante della sentenza amministrativa. Rientra, quindi, a pieno titolo tra i compiti del Giudice dell'ottemperanza dare un contenuto concreto all'obbligo della ripristinazione risolvendo i molti problemi possibili al riguardo. Non è questo, del resto, l'unico momento di cognizione del giudizio di ottemperanza: ulteriori spazi cognitori si aprono in relazione alle sopravvenienze di fatto o di diritto rispetto al giudicato e alle domande accessorie quali interessi, rivalutazione e risarcimento del danno. Sotto questo profilo, il giudizio di ottemperanza presenta senz'altro caratteristiche differenti rispetto all'esecuzione forzata disciplinata dal libro III del codice di procedura civile e connotata dall'esistenza del titolo esecutivo: come è stato bene osservato, qui la cognitio è normalmente estranea perché il titolo esecutivo pone a disposizione di chi ne è il possessore una posizione di preminenza che non soggiace più ad alcun controllo” (13).

L'attività amministrativa volta all'esecuzione della sentenza del giudice risente dell'influenza esercitata da eventi sopravvenuti, di fatto e di diritto, i quali, incidendo sulla riedizione del potere, possono limitare o precludere gli effetti futuri della sentenza (14). In tal modo l'efficacia del giudicato si rivela rebus sic stantibus, condizionata, cioè, al permanere invariato delle circostanze presenti al momento della emanazione della sentenza.

La giurisprudenza ha, tuttavia, individuato un temperamento alla operatività delle sopravvenienze, fissando nella data di notificazione della sentenza divenuta irrevocabile il termine ultimo per la loro rilevanza (15).

Si è osservato, però, che tale soluzione, applicabile alle sopravvenienze di diritto, non è, viceversa, in grado di arginare l'azione delle sopravvenienze di fatto (16), le quali possono limitare o precludere la rinnovazione del potere amministrativo, anche dopo la notificazione della sentenza definitiva (17). In generale, il fenomeno delle sopravvenienze impone un bilanciamento fra il principio di naturale dinamicità dell'azione amministrativa ed il principio di effettività della tutela delle situazioni giuridiche soggettive.

Il problema delle sopravvenienze si inserisce nella più ampia tematica della esecuzione della sentenza amministrativa, ancorché non definitiva: le sopravvenienze, di fatto e di diritto, hanno l'attitudine a colpire, in senso limitativo o preclusivo, la riedizione del potere amministrativo, incidendo, così, sulla efficacia diacronica della sentenza, specie in relazione agli interessi legittimi pretensivi, come noto suscettibili di soddisfazione solo a seguito di un nuovo intervento dell'Amministrazione (18).

Conclusioni: la ricerca del punto di equilibrio tra attuazione del giudicato e inesauribilità dei poteri dell'Amministrazione

Una volta formatosi il giudicato (19) di annullamento su una pronuncia demolitoria del giudice amministrativo, si pone, quindi, in concreto il problema del rilievo da assegnare, rispetto a detto giudicato, ad eventuali sopravvenienze in fatto e in diritto e, soprattutto, in che modo individuare il punto di equilibrio tra il decisum giudiziale, cui fa capo la pretesa del ricorrente vittorio di ottenere la piena soddisfazione dell'interesse positivamente azionato in giudizio,  e la c.d. inesauribilità dei poteri dell'Amministrazione finalizzati al perseguimento degli interessi pubblici, avente scaturigine, secondo l'impostazione dottrinale più accreditata, dalla sua natura di forza giuridica o energia, che non si esaurisce ogni volta che si specifica (20).

In particolare, il punto focale della questione, sulla quale si è pronunciata anche l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (21) è se, in sede di riedizione del potere a seguito di giudicato sfavorevole, l'azione amministrativa sia assoggettata a dei limiti e vincoli (22).

La questione si pone solo nei riguardi dell'attività oggetto di esame giudiziale, in quanto tale anteriore a quest'ultimo: infatti, l'esigenza di certezza, propria del giudicato, ossia di un assetto consolidato degli interessi coinvolti, non può proiettare l'effetto vincolante nei riguardi di tutte le situazioni sopravvenute di riedizione di un potere, ove questo, pur prendendo atto della decisione del giudice, coinvolga situazioni nuove e non contemplate in precedenza, ma può riguardare esclusivamente l'ipotesi in cui la riedizione del potere si concreti nel valutare differentemente, in base ad una nuova prospettazione, situazioni che, esplicitamente o implicitamente siano state oggetto da parte del giudice Da ciò discende che l'accertamento definitivo del giudice relativo alla sussistenza di determinati presupposti relativi alla pretesa del ricorrente non potrà non essere vincolante nei confronti dell'azione amministrativa (23).

I successivi sviluppi della giurisprudenza amministrativa hanno individuato nel principio del c.d. “one shot temperato” il punto di equilibrio tra due opposte esigenze: la garanzia di inesauribilità del potere di amministrazione attiva e la portata cogente del giudicato di annullamento con i suoi effetti conformativi.

In forza di detto principio, una volta che il ricorrente abbia ottenuto dal giudice amministrativo l'accoglimento della domanda di annullamento, è dovere della stessa P.A. riesaminare una seconda volta soltanto l'affare nella sua “interezza”, sollevando tutte le questioni rilevanti, con definitiva preclusione per l'avvenire di tornare ancora a decidere sfavorevolmente per il privato, sollevando questioni in precedenza trascurate: con ciò evitando che la P.A. possa riprovvedere più volte a sfavore del ricorrente, con successivi reiterati annullamenti in sede giurisdizionale delle determinazioni da quella assunte, eludendo in tal modo l'obbligo di soddisfare effettivamente l'interesse sostanziale del ricorrente (24).

Il principio del c.d. “one shot temperato” va, però, tenuto distinto da quello del c.d.“one shot puro”, il quale preclude del tutto all'Amministrazione la reiterazione del provvedimento di rigetto a seguito dell'annullamento di un primo provvedimento. Il principio del c.d. one shot temperato è stato introdotto nell'ordinamento solo per l'art. 10 bis della legge n. 7 agosto 1990, n. 241 (25), come modificato dal d.l. 16 luglio 2020, n. 76 e trova applicazione solo procedimenti avviati su istanza di parte (con esclusione espressa delle procedure in materia concorsuale e dei procedimenti in materia previdenziale e assistenziale sorti a seguito di istanza di parte e gestiti dagli enti previdenziali .

Nel quadro così delineato, il giudicato di annullamento si presenta come una parentesi tra il frammento di potere già esercitato (sfociato nel provvedimento impugnato) ed il tratto di azione amministrativa successiva (26). 

Del resto, come è stato osservato (27), il canone di effettività della tutela rischierebbe di rimanere lettera vuota qualora si consentisse all'amministrazione di esercitare all'infinito il proprio potere in senso sfavorevole al ricorrente già vittorioso in giudizio, impedendogli di conseguire l'utilità sostanziale anelata. Infatti, “se effettività della tutela significa, per precetto costituzionale, adeguatezza della protezione giudiziaria alla natura della situazione giuridica sostanziale, ne discende che il giudizio amministrativo non può esaurirsi nella verifica dell'affermazione del ricorrente circa il potere di annullamento dell'atto […]. Il processo deve tendere, quanto più è possibile, alla cognizione e statuizione autoritativa su ciò che spetta al privato e ciò che non gli spetta” (28).

Note

(1) M. CLARICH, Effettività della tutela nell'esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, Dir. Proc. Amm., 1998, 523.

(2) Cass., s.u., 24 giugno 1891, n. 460.

(3) L. 7 marzo 1907 n. 62.

(4) Cons. Stato, sez. IV, 2 marzo 1928, n. 181.

(5) M. CLARICH, op,.cit.

(6) Cons. Stato, sez. V, 12 maggio 1937, n. 616.

(7) Cons. Stato, sez. V, 13 agosto1934, n. 810.

(8) Cass., s.u., 8 luglio 1953, n. 2157

(9) A. DE VITA, Il giudizio di ottemperanza, in ilmerito.org,  2019.

(10) Cons. Stato, VI, 16 ottobre 2007, n. 5409.

(11) Art. 34, comm2, prima alinea, c.p.a.: “In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.

(12) Cons. Stato, sez. VI, 16 ottobre 2007, n. 5409.

(13) V. nota precedente

(14) G. PEPE, Giudicato amministrativo e sopravvenienze, in ambientediritto.it, 2017: “nel sistema della giustizia amministrativa per sopravvenienza deve intendersi l'evento, fattuale o giuridico, successivo alla emanazione sentenza, ancorché non passata in giudicato, che incide, in senso modificativo o preclusivo, sulla efficacia della statuizione giudiziaria”,

(15) Cons. Stato, sez. III, 26 agosto 2016, n. 3706: “in linea di principio, è indubbio che l'Amministrazione, soccombente a seguito di sentenza di annullamento passata in giudicato, abbia l'obbligo di ripristinare la situazione controversa, a favore del privato, con effetto retroattivo, per evitare che la durata del processo vada a scapito della parte vittoriosa. Questa retroattività dell'esecuzione del giudicato trova però un limite intrinseco e ineliminabile (che è logico e pratico, ancor prima che giuridico) nella sopravvenienza di mutamenti della realtà - fattuale o giuridica - tali da non consentire l'integrale ripristino dello status quo ante. Sicché secondo la costante giurisprudenza l'esecuzione del giudicato da parte della P. A. può trovare ostacoli e limiti in caso di sopravvenienze di fatto e di diritto verificatesi anteriormente alla notificazione della sentenza, essendo invece irrilevanti le sopravvenienze "in senso proprio" successive alla notifica, cioè quelle relative a questioni di fatto o di diritto che non abbiano rappresentato oggetto effettivo o potenziale del thema decidendum e che siano emerse solo successivamente al passaggio in decisione del ricorso e prima della notifica della sentenza (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 29 maggio 2015, n. 2690; Cons. Stato, Sez. V, 17 marzo 2015, n. 1366)”.

(16) Mentre le sopravvenienze di fatto rappresentano una categoria fortemente eterogenea, costituita da una pluralità di fattispecie tra loro differenti, le sopravvenienze di diritto si identificano nei mutamenti della normativa, susseguenti alla sentenza, che introducono una disciplina differente rispetto a quella applicata nel decisum giudiziale (ius superveniens).

(17) G. PEPE, op., cit. L'A. osserva che “Ad ogni modo, la negativa incidenza delle sopravvenienze sulla esecuzione del decisum giudiziale è, oggi, mitigata dalla possibilità per il ricorrente vittorioso di ottenere, in luogo della tutela in forma specifica, una tutela risarcitoria per equivalente ai sensi dell'art. 112, co. III, C.p.a”.

(18) G. PEPE, op. cit.,

(19) Non vi è nel codice del processo amministrativo una definizione del “giudicato”. In virtù del rinvio generale di cui all'art.39, comma 1, c.p.a., ma soprattutto della portata universale della definizione, può individuarsi il giudicato in un “fatto giuridico capace di trasformare la lex generalis che regola un possibile in lex specialis che regola un esistente” (F. CARNELUTTI, Diritto e porcesso, Napoli, 1958, 268).

(20) E. CANNADA BARTOLI, L'inapplicabilità degli atti amministrativi, Milano, 1950, 95; v. anche S. Romano, Poteri. Potestà, in Id., Frammenti di un dizionario giuridico, 1947, rist. Milano, 1983, 173 ss.

(21) Cons. Stato, ad. plen., 15 gennaio 2013, n.2.; Id., a.p., 9 febbraio 2016 n. 2.

(22) Cfr. T.A.R. Sicilia, Palermo, 17 luglio 2023, n. 2341 e la giurisprudenza ivi richiamata.

(23) L'ad. plen., nella pronuncia n. 2 del 2013, aggiunse ai rilievi appena richiamati che “tale assetto appare, oltretutto, coerente con l'impostazione soggettiva dell'azione giudiziale amministrativa in precedenza richiamata e in linea con l'orientamento interpretativo della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, secondo cui l'amministrazione, in sede di esecuzione di una decisione esecutiva del giudice amministrativo, non può rimettere in discussione quanto accertato in sede giurisdizionale (in questo senso, cfr. CEDU, 18 novembre 2004, Zazanis c. Grecia)”.

(24) T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. I, 16 gennaio 2023, n.47; Id., Sez. I, 22 novembre 2022 n. 1179, Cons. St., sez. VI, 4 maggio 2022, n. 3480; Cons. Stato, sez. III, 14 febbraio 2027 n. 660;T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 18 luglio 2022, n. 1706; T.A.R. Trieste, sez. I, 16 febbraio 2021, n. 373;T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 1° dicembre 2021, n. 12397; T.A.R. Toscana, Firenze, sez. I, 15 giugno 2021, n. 917.

(25) «[…] in caso di annullamento in giudizio del provvedimento così adottato, nell'esercitare nuovamente il suo potere l'amministrazione non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall'istruttoria del provvedimento annullato […]».

(26) M. CLARICH, Il giudicato, in A. Sandulli (a cura di), Diritto processuale amministrativo, Milano, 2013, 289.

(27) R. PARISI, Il difficile punto di equilibrio tra l'effettività della tutela giurisdizionale e l'inesauribilità del potere amministrativo (nota a T.A.R. Abruzzo - Pescara, 1° marzo 2023 n. 107), in giustiziainsieme, 17 maggio 2023, cui si rinvia per la giurisprudenza citata e gli ulteriori approfondimenti.

(28) G. CORSO, Processo amministrativo di cognizione e tutela esecutiva, in Foro it., V, 1989, 431.

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