Omessa valutazione delle conclusioni scritte inviate dalla difesa nel giudizio di appello: quale causa di invalidità si configura?

09 Ottobre 2023

Il tema che oggi vi proponiamo è di particolare attualità: la cartolarizzazione “telematica” del giudizio di appello (ma il discorso potrebbe essere esteso all'intero settore delle impugnazioni generalmente considerate) è ormai la regola.

La trattazione, come tutti sanno dall'indomani dell'entrata in vigore della riforma Cartabia, è normalmente scritta. La presenza fisica delle parti nel corso del giudizio di appello è da ritenersi invece del tutto eventuale, disposta d'ufficio soltanto in particolari ipotesi e per il resto rimessa alla libera scelta degli attori processuali che dovranno, seguendo le scansioni temporali imposte dal rinnovato codice di rito, espressamente chiedere la trattazione orale del loro processo. In difetto di questa scelta, vale la regola generale imposta dall'art. 598-bis c.p.p., ad avviso della quale la corte provvede sull'appello in camera di consiglio senza la presenza delle parti.

Queste ultime possono rassegnare le proprie conclusioni scritte secondo tempistiche ben precise: fino a quindici giorni prima dell'udienza il procuratore generale presenta le proprie richieste, le altre parti hanno facoltà di inviare motivi muovi, memorie e, fino a cinque giorni prima, memorie di replica alle conclusioni avversarie. Ogni documento conclusivo va inviato telematicamente, previa sottoscrizione digitale nel rispetto della normativa tecnica ormai nota (in ordine al formato, alla tipologia di firma e quant'altro), agli indirizzi ufficiali delle varie autorità giudiziarie. Ciò premesso, ci si interroga su quali siano le conseguenze – in termini di vizi e sanzioni processuali – derivanti dall'omessa valutazione dei documenti informatici provenienti dall'imputato e contenenti le richieste di cui vi abbiamo appena parlato.

La questione era già stata affrontata durante il periodo dell'emergenza COVID, e sono noti a questo proposito due orientamenti di legittimità che assegnano opposto rilievo alla loro omessa valutazione. Secondo l'indirizzo più “garantista” esse avrebbero lo stesso valore della presenza in udienza del relativo patrono. Di conseguenza, l'omessa valutazione delle prime viene considerata una lesione del diritto di intervento, assistenza e rappresentanza nei termini descritti dall'art. 178, lett. c), c.p.p. Il grado della nullità è, quindi, intermedio con tutte le conseguenze di legge derivanti da questa specifica patologia processuale. Secondo questa corrente di pensiero, rappresentata dalla sentenza n. 44424/2022, coerente sul punto con quanto già affermato dalla precedente decisione n. 3913/2021, la sanzione processuale della nullità a regime intermedio si verificherebbe però soltanto nel caso in cui le conclusioni di cui s'è omessa la valutazione contenessero “un effettivo contenuto argomentativo e non di mero stile”. In termini essenzialmente pratici, e giusto per esemplificare, occorre che si realizzi la medesima situazione in cui l'imputato venga privato di un'arringa difensiva di portata ben diversa da quella condensata nella frase “insisto nei motivi di appello”. Questo filone interpretativo ha ricevuto una recentissima conferma con la sentenza Cass. pen. n. 35407/2023 e, contemporaneamente, ha relegato nell'angolo degli orientamenti di minoranza quello ad avviso del quale l'omessa valutazione delle conclusioni scritte non darebbe luogo ad alcuna causa di invalidità (rappresentato dalla sentenza n. 46086/2021). La recente conferma del primo indirizzo interpretativo, benchè maturata nella decisione di una questione ante-Cartabia, merita di essere oggi riconsiderata. Essa è senza dubbio attuale nella parte in cui si sostiene che l'omessa valutazione delle conclusioni scritte generi una nullità a regime intermedio per difetto di intervento dell'imputato (o del suo difensore).

Sul punto, si consideri che, invertito il rapporto regola-eccezione in ordine alla partecipazione fisica all'udienza, l'invio delle conclusioni scritte costituisce oggi il modo ordinario con il quale l'imputato può argomentare le ragioni impugnative già dedotte con l'atto d'appello. Non pare, invece, accoglibile la condicio cui il predetto orientamento subordini il verificarsi della nullità, ossia che le conclusioni debbano avere un contenuto argomentativo autonomo. Ciò per due ragioni: da una parte nella disciplina che attualmente regola il giudizio d'appello non è scritto da nessuna parte che le conclusioni, richieste e memorie debbano possedere tale caratteristica e, d'altro canto il presupposto che si pretende – cioè l'autonomia degli argomenti - è da considerarsi implicito nella situazione patologica ipotizzata: soltanto richieste e memorie ben precise possono essere suscettibili di essere effettivamente ignorate.

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