Il mancato rispetto dei criteri redazionali degli atti giustifica la compensazione delle spese?

30 Ottobre 2023

In accoglimento di un ricorso monitorio, il Giudice di Pace di Verona emetteva un decreto ingiuntivo che condannava il debitore a pagare la somma dovuta. Con il medesimo provvedimento, il Giudice di Pace disponeva la compensazione delle spese, in quanto il ricorrente aveva violato i criteri di forma e di redazione degli atti giudiziari

Massima

La violazione dei criteri di forma e redazione degli atti giudiziari fissati, ai sensi dell’art. 46 disp. att. c.p.c., dagli artt. 6 e 8 d.m. 7 agosto 2023, giustifica la compensazione delle spese di lite.

Il caso

In accoglimento di un ricorso monitorio, il Giudice di Pace di Verona emetteva un decreto ingiuntivo che condannava il debitore a pagare la somma dovuta.

La questione e le soluzioni giuridiche

Con il medesimo provvedimento, il Giudice di Pace di Verona, anziché condannare il debitore (anche) al pagamento delle spese del procedimento monitorio, ne disponeva la compensazione, in quanto il ricorrente aveva violato i criteri di forma e di redazione degli atti giudiziari fissati, ai sensi dell’art. 46 disp. att. c.p.c., dagli artt. 6 e 8 d.m. 7 agosto 2023, con particolare riguardo alla dimensione dei caratteri e all’interlinea.

Osservazioni

Il 26 agosto 2023 è entrato in vigore il d.m. 7 agosto 2023, n. 110, con cui, in attuazione di quanto previsto dall'art. 46 disp. att. c.p.c. (nella versione riformata dal d.lgs. n. 149/2022), sono stati stabiliti – tenuto conto del principio di chiarezza e sinteticità degli atti del processo, nella prospettiva della funzionalità della forma allo scopo dell'atto, sancito dal nuovo art. 121 c.p.c. – i limiti dimensionali e i criteri di redazione degli atti processuali da osservarsi nei procedimenti introdotti dopo l'1 settembre 2023.

L'entrata in vigore del decreto, di cui è previsto l'aggiornamento con cadenza almeno biennale, è stata piuttosto tormentata, visto che la primigenia versione, inviata dal Ministero della Giustizia al Consiglio Nazionale Forense e al Consiglio Superiore della Magistratura per i pareri di rito, era stata ampiamente criticata, in quanto ritenuta eccessivamente penalizzante per le stringenti prescrizioni che imponeva soprattutto in termini di limiti dimensionali.

Così, a seguito delle osservazioni formulate, è stata predisposta una nuova versione del decreto, che ha ampliato il numero massimo di caratteri utilizzabili per la redazione – nelle cause di valore inferiore a € 500.000 – degli atti introduttivi e delle difese conclusive (per i quali si è passati dagli inziali 50.000 agli attuali 80.000 caratteri), delle memorie da depositare in corso di causa (per le quali il limite iniziale di 25.000 caratteri è stato innalzato a 50.000), delle note scritte in sostituzione dell'udienza di cui all'art. 127-ter c.p.c. (per le quali il limite originariamente previsto di 4.000 caratteri è stato portato a 10.000).

I limiti sopra indicati, stabiliti dall'art. 3 del regolamento, erano e restano derogabili se la controversia presenta questioni di particolare complessità, anche in ragione della tipologia, del valore della causa, del numero delle parti o della natura degli interessi coinvolti; in questi casi, il difensore espone sinteticamente nell'atto le ragioni per le quali si è reso necessario il superamento dei limiti dimensionali.

Sono rimaste sostanzialmente invariate, invece, le ulteriori regole dirette ad assicurare, in ossequio ai principi scolpiti dall'art. 121 c.p.c., la chiarezza e la sinteticità degli atti del processo, ivi comprese – per quanto in questa sede specificamente interessa – quelle volte a delineare le tecniche di redazione.

L'art. 6 del decreto, a questo proposito, stabilisce che gli atti sono redatti impiegando caratteri di tipo corrente (per tali dovendosi intendere, per esempio, i fonts Times New Roman, Courier e Arial), utilizzando preferibilmente caratteri di dimensioni di 12 punti, un'interlinea di 1,5 righe e margini orizzontali e verticali di 2,5 centimetri, evitando di inserire note a piè di pagina, salvo che per l'indicazione di precedenti giurisprudenziali e riferimenti dottrinari.

Questi limiti dimensionali ricalcano esattamente quelli previsti dal protocollo che, nel dicembre del 2015, il Consiglio Nazionale Forense aveva siglato con la Corte di cassazione per adottare un modulo redazionale dei ricorsi per cassazione in materia civile e tributaria volto a consentirne una semplificazione e una più immediata comprensione da parte del giudicante, beninteso senza che la loro violazione comportasse un'automatica sanzione di tipo processuale.

Proprio l'inosservanza delle prescrizioni previste dall'art. 6 d.m. 110/2023 in ordine alle dimensioni dei caratteri e all'interlinea ha indotto il Giudice di Pace di Verona a negare al ricorrente in via monitoria la ripetizione dal debitore ingiunto delle spese di lite, nonostante l'accoglimento della domanda proposta nei suoi confronti.

Alcune osservazioni si impongono in ordine a tale statuizione.

In primo luogo, non essendo dato sapere in che modo e in che termini si sia concretamente manifestata l'inosservanza delle regole redazionali dettate dall'art. 6 d.m. 110/2023 nel ricorso per ingiunzione di pagamento (data la stringatezza del provvedimento annotato), va subito detto che la norma non introduce prescrizioni categoriche, essendo stato previsto che, nel redigere gli atti processuali, occorre “preferibilmente” impiegare la dimensione dei caratteri, l'interlinea e i margini ivi indicati.

Non si tratta, dunque, di un'indicazione tassativa, bensì orientativa, diretta ad agevolare la leggibilità degli atti, senza che per questo l'utilizzo di una – in tutto o in parte – diversa tecnica redazionale ne comporti necessariamente una minore fruibilità: per esempio, se è vero che un'interlinea singola può risultare penalizzante da questo punto di vista, non altrettanto è a dirsi quando si opti per quella doppia.

Peraltro, dovendo l'atto del processo (ora anche nei procedimenti di competenza del giudice di pace) essere depositato telematicamente in formato pdf, l'eventuale inosservanza dei criteri redazionali dettati dall'art. 6 d.m. 110/2023 può essere effettivamente apprezzata solo dopo avere convertito l'atto contenuto nel fascicolo informatico in formato doc (visto che i programmi di lettura dei files pdf normalmente utilizzati non dispongono di tutte le funzionalità presenti in quelli di videoscrittura), salvo ovviamente il caso in cui si tratti di una violazione talmente macroscopica da non rendere nemmeno necessario questo tipo di controllo.

In secondo luogo, l'ultimo comma dell'art. 46 disp. att. c.p.c. stabilisce che il mancato rispetto dei criteri e dei limiti di redazione dell'atto processuale, pur non comportandone l'invalidità, può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo.

Va, a questo proposito, sottolineato che uno dei principali scopi perseguiti con la previsione dell'introduzione di schemi e modalità di redazione degli atti processuali quanto più possibili uniformi è quello di consentire che gli atti depositati telematicamente presentino al loro interno tutti i dati utili per un efficace popolamento dei registri informatici.

Alla luce di quanto sopra osservato, è lecito ritenere che la violazione, per giustificare la sanzione, debba avere una consistenza tale da oltrepassare una certa soglia di rilevanza e non risolversi in un'inosservanza meramente formale: per fare un esempio, dunque, se attenersi alle prescrizioni dettate dall'art. 6 d.m. 110/2023 sarà oltremodo opportuno quando si tratti di un atto particolarmente lungo e articolato, la cui lettura e fruibilità potrebbero essere seriamente compromesse dall'utilizzo di un carattere piccolo e di un'interlinea minima al solo fine di non superare formalmente il limite di pagine stabilito dall'art. 3 del decreto, non sussisterà la stessa esigenza quando l'atto introduttivo – come di solito avviene per i ricorsi monitori – abbia un contenuto e un'estensione ridotti e sia dunque meno avvertito il rischio che ne risultino faticosi o difficili l'esame e la comprensione.

Sempre che, ovviamente, le scelte redazionali dell'avvocato che ha predisposto l'atto non siano così assurde e discutibili da comportare, pure in questi casi, un'evidente violazione del principio di chiarezza sancito dall'art. 121 c.p.c., tale da giustificare la sanzione prevista dall'art. 46 disp. att. c.p.c.

La prudenza che deve guidare il giudice nel comminarla, in ogni caso, dev'essere ancora maggiore nell'ambito di un procedimento, qual è quello monitorio, caratterizzato da peculiarità procedimentali che lo differenziano sensibilmente dal giudizio ordinario di cognizione.

Innanzitutto, visto il tenore dell'art. 92 c.p.c., pare arduo sostenere che la compensazione delle spese di lite possa essere disposta quando manchi una controparte costituita: in questo caso, dunque, sarebbe tecnicamente più corretto ritenere che la violazione dei criteri redazionali stabiliti dall'art. 6 d.m. 110/2023 possa, al limite, comportare una riduzione dei compensi normalmente liquidabili, ma non fino al punto da determinarne l'azzeramento, com'è di fatto avvenuto nel caso di specie, essendo pacifico che il potere di liquidazione dev'essere esercitato dal giudice nel rispetto di quanto previsto dal d.m. 55/2014, che, all'art. 4, comma 1, fissa nel 50 per cento l'entità massima della riduzione applicabile al valore medio tabellare.

Già da questo punto di vista la decisione assunta dal Giudice di Pace di Verona presta il fianco a critica.

Bisogna, altresì, considerare che il decreto ingiuntivo, una volta emesso, non è impugnabile dal ricorrente, anche quando la sua domanda sia stata solo parzialmente accolta: in questo caso, infatti, si ritiene integrato un rigetto parziale (in misura corrispondente alla parte di domanda che il giudice non ha accolto), sicché diviene operante la regola dettata dall'art. 640 c.p.c., che, consentendo al creditore di riproporre la domanda respinta, esclude che il provvedimento monitorio sia suscettibile di passare in giudicato, con conseguente inammissibilità non solo dei mezzi di impugnazione ordinaria, ma anche dell'eventuale ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell'art. 111 Cost.

In questo modo, al ricorrente che si veda – di fatto – respingere la richiesta di condanna del debitore al pagamento, oltre che del credito azionato, delle spese del procedimento monitorio, non resterebbe che attendere (e auspicare) che il decreto ingiuntivo venga opposto dalla controparte, per potere, nel successivo giudizio di opposizione, chiedere la modifica in parte qua del provvedimento reso in sede monitoria; il che, peraltro, potrebbe significare anche costringere di fatto il creditore a rinunciare all'eventuale esecuzione provvisoria che potrebbe essere accordata ai sensi dell'art. 648 c.p.c., dal momento che, come noto, il decreto ingiuntivo che non trovi integrale conferma all'esito del giudizio di opposizione dev'essere revocato e scompare dall'ordinamento giuridico per essere sostituito dalla sentenza che accoglie, anche solo in parte, l'opposizione (essendo, dunque, assai difficile che l'esecuzione provvisoria venga concessa quando è lo stesso creditore a chiedere la riforma, sebbene parziale, del provvedimento monitorio).

In realtà, il creditore insoddisfatto per essersi visto compensare le spese di lite avrebbe anche un'altra strada: omettere la notifica del decreto ingiuntivo, onde provocarne la perdita d'efficacia ai sensi dell'art. 644 c.p.c., per potere così ripresentare successivamente il medesimo ricorso, questa volta rispettando i criteri redazionali sanciti dall'art. 6 d.m. 110/2023.

Ma non vi è chi non veda come una tale eventualità determinerebbe una eterogenesi dei fini.

Oltre al fatto che una simile opzione non sarebbe comunque a costo zero, perché il ricorrente dovrebbe comunque sostenere per la seconda volta le spese per l'iscrizione a ruolo del nuovo procedimento, senza potere in alcun modo recuperare le somme anticipate per incardinare quello precedente, la proposizione di un nuovo ricorso costringerebbe il giudice a doversi pronunciare, per la seconda volta, sulla stessa domanda. Così, le già scarse risorse del sistema giustizia andrebbero impiegate per ripetere esattamente quanto già fatto in precedenza, solo perché il ricorrente è stato costretto a riproporre il ricorso non per ragioni di merito, ma per non vedersi pregiudicato in punto di condanna alle spese del debitore.

In questo modo, l'applicazione fin troppo rigorosa di una disciplina – quale quella contenuta nel d.m. 110/2023 – volta a contribuire ad accelerare i tempi del processo, per un maggiore efficientamento del sistema giustizia, produce l'effetto contrario, cioè la superfetazione di ricorsi diretti a porre rimedio a una decisione sulle spese ritenuta penalizzante.

Per tutte queste ragioni, il provvedimento annotato conferma i timori da più parte espressi circa il rischio che le regole sui limiti dimensionali degli atti si prestino a interpretazioni e ad applicazioni discutibili e che nella loro introduzione si annidi una compressione dei diritti delle parti del processo che, in realtà, non giova nemmeno a una più rapida definizione dei giudizi.

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