Transazioni “tombali” e aggravamenti sopravvenuti: il limite dell’imprevedibilità e la sua prova
30 Ottobre 2023
Massima Il danneggiato che abbia transatto la lite può sempre chiedere il risarcimento dei danni alla persona manifestatisi successivamente e non prevedibili al momento della transazione quand’anche le parti abbiano fatto riferimento in transazione ai danni futuri. Tali principi sono applicati anche in caso di revisione della rendita vitalizia ex art. 2057 c.c. per aggravamenti successivi e sopravvenuti alla formazione del giudicato quante volte venga fornita la dimostrazione di «un'obiettiva impossibilità di accertare, al momento della prima liquidazione, fattori attuali capaci (...) di determinare l'aggravamento futuro», dell’«impossibilità di prevederne gli effetti» nonché dell’«insussistenza di un evento successivo avente efficacia concausale dell'aggravamento». Il caso Nel giugno del 2005 un operaio, mentre utilizzava un muletto di proprietà di una società terza, rimaneva coinvolto in un infortunio sul lavoro. Cinque anni dopo l’incidente il danneggiato instaurava un primo giudizio avanti il tribunale di Venezia rivendicando, nei confronti del proprio datore di lavoro e della società intestataria del mezzo, i danni conseguenti all’evento. Nel corso dello stesso procedimento le parti individuavano una soluzione conciliativa e dunque sottoscrivevano una transazione abbandonando così la vertenza. Sennonché, al manifestarsi - due anni dopo dalla stessa transazione - di un aggravamento delle proprie condizioni di salute, il lavoratore infortunato decideva di rivolgersi nuovamente al tribunale lagunare onde ottenere anche il ristoro dei danni ulteriori, correlati cioè al sopravvenuto deterioramento del proprio quadro clinico. I giudici del primo grado respingevano le domande del ricorrente per avere questi, non solo omesso di fornire idonea dimostrazione del presunto aggravamento in sé, ma soprattutto per aver mancato di provarne l’imprevedibilità, riferita al momento in cui - nel 2012 - veniva concluso il menzionato accordo transattivo. Il lavoratore impugnava la decisione, ma pure la Corte d’appello di Venezia respingeva le domande risarcitorie dell’operaio. Anche i giudici del gravame, pur ribadendo il consolidato principio secondo cui l’accordo transattivo - anche se genericamente esteso a danni futuri come quello in questione - avrebbe potuto in astratto non spiegare efficacia preclusiva su eventuali danni sopravvenuti e non prevedibili, ribadivano tuttavia a propria volta che nel caso di specie il lavoratore non avesse adeguatamente dimostrato né un reale peggioramento della propria salute, né che questo avesse natura imprevedibile all’epoca della transazione conclusa in esito al primo giudizio avviato nel 2010. Avverso la nuova pronuncia di rigetto il lavoratore soccombente interponeva quindi ricorso per Cassazione ai quali resistevano con rispettivo controricorso le due società resistenti, nonché la Compagnia assicuratrice terza chiamata. Le censure avanzate dal dipendente infortunato, benché affidate a tre distinti motivi, attenevano a temi alquanto affini di carattere probatorio, segnatamente incentrati su un presunto omesso vaglio (o comunque erroneo governo) della regola di cui all’art. 2697 c.c. Ciò con particolare riguardo al riparto dello specifico onere di dimostrare la prevedibilità ovvero l’imprevedibilità dell’aggravamento che aveva dato origine alla controversia. Secondo la ricostruzione operata dal ricorrente sarebbe infatti incorsa in evidente errore la corte veneziana, per aver nella sostanza indebitamente addossato all’attore, il quale avrebbe peraltro a suo dire provato il c.d. fatto positivo contrario, l’onere di provare una circostanza negativa a base della propria domanda, vale a dire - appunto - l’(im)prevedibilità dell’aggravamento clinico di cui è discorso. Sempre secondo l’iter argomentativo del ricorrente, in questo caso sviluppato secondo una linea non del tutto perspicua, i giudici di seconde cure avrebbero, ancor prima, commesso anche un vizio di ultrapetizione avendo rigettato la domanda sulla base di rilievi e circostanze - nuovamente, l’imprevedibilità dell’aggravamento - in realtà mai declinate come causa petendi esclusiva dal danneggiato. Questi aveva invero prospettato come altrettanti fatti costitutivi delle proprie pretese, ciascuno idoneo - a suo dire - a costituire “valida argomentazione”, anche ulteriori allegazioni del tutto pretermesse dalla corte d’appello, focalizzatasi invece sul solo noto tema (l’imprevedibilità e la sua mancata prova) alla base del rigetto della domanda. La questione A prescindere dagli ulteriori e più ampi profili sostanziali presupposti circa la portata dell'efficacia preclusiva del negozio transattivo, sui quali pure si soffermerà preliminarmente l'estensore del dictum in commento, la questione prospettata come più controversa dal ricorrente attiene soprattutto all'assetto del regime probatorio e dunque alla disciplina del riparto del relativo onere tra attore (danneggiato) e convenuto in relazione ad elementi costitutivi della domanda che, come nell'ipotesi di specie, abbiano natura intrinsecamente negativa. Secondo la tesi posta a base delle prime due decisioni di merito e fieramente contrastata dal lavoratore, ovvero la connaturata negatività dei fatti che si devono porre a fondamento della domanda, non varrebbe infatti a introdurre una deroga al principio direttivo “onus incumbit…” di cui all'art. 2697 c.c., sollevando così l'attore dal relativo onere o invertendone il carico su chi alla domanda resiste. Naturalmente di diverso avviso il ricorrente, il quale peraltro - come anticipato - avrebbe secondo la propria rilettura comunque fornito la prova di idonei fatti positivi contrari. Le soluzioni giuridiche La vicenda portata al suo scrutinio fornisce intanto alla Corte di legittimità l’occasione di ribadire il proprio insegnamento circa i limiti dell’efficacia preclusiva degli accordi transattivi in relazione a danni alla persona e, in particolare, in ordine alla possibilità di un superamento degli stessi accordi in presenza di eventuali successivi aggravamenti dello stato di salute del danneggiato. A tale riguardo i giudici della sentenza che qui si annota, dando peraltro continuità ad una linea ermeneutica già da tempo tracciata dalla Terza Sezione con proprie decisioni ormai piuttosto risalenti (cfr. ad es. Cass. n. 11592/2005, Cass. n. 20981/2011), richiamano in particolare un noto precedente nomofilattico in tema di rendita vitalizia (Cass. n. 27031/2016) nel cui contesto si possono trovare ben delineate le principali linee guida relative alla questione. Anche tale ultimo arresto convalida intanto il principio per cui il danneggiato che abbia transatto la lite può sempre chiedere il risarcimento dei danni manifestatisi successivamente. La precondizione essenziale, valida anche quando il patto transattivo abbia fatto riferimento pure ai danni futuri, è tuttavia che l’aggravamento non fosse prevedibile al momento della transazione. Prima di avviare il giudizio il danneggiato, secondo il breve decalogo dettato dagli ermellini, dovrà dunque individuare specificamente: “gli elementi idonei consentire la revisione della liquidazione del danno a causa di aggravamenti successivi” che sono da ricondurre: a) ad un’obiettiva impossibilità di accertare, al momento della prima liquidazione, fattori attuali capaci, nell’ambito di una ragionevole previsione, di determinare l’aggravamento futuro; b) all’impossibilità, ancora con riferimento alla prima liquidazione, di prevederne gli effetti; c) all’insussistenza di un evento successivo avente efficacia concausale dell’aggravamento. Sulla base di tali presupposti, tornando quindi alla nostra vicenda, il Supremo Collegio convalida pienamente l’operato della Corte veneziana, respingendo invece il ricorso del lavoratore. Osservazioni Giova evidenziare che il ricorrente, al contrario di quanto affermato, non aveva in alcun modo individuato, né fornito specifica prova di ciascuno degli elementi prima elencati e, in sintesi, la dimostrazione circa l'imprevedibilità dell'aggravamento dedotto. Aveva bensì il ricorrente fornito prova (peraltro semipiena) dell'aggravamento. Ma ciò non può bastare secondo i massimi giudici a dimostrare – anche – la sua imprevedibilità. Imprevedibile è invero, non già il fatto ignoto al momento della transazione, ché anche il fatto prevedibile lo sarebbe, ma solo quello che “non poteva essere previsto come sviluppo normale delle lesioni in atto”. Assunto il crisma dell'imprevedibilità come requisito costitutivo della domanda, la Corte si sofferma invece sul tema critico, declinato peraltro in modo non del tutto lineare da parte del ricorrente, relativo alla sua prova e, in particolare, al riparto del relativo onere. La decisione richiama intanto anche a tale riguardo propri consolidati orientamenti: il principio di cui all'art. 2697 c.c. non può dunque subire alcuna deroga neppure, come nel caso di specie, la prova dell'elemento costitutivo della domanda cada su “fatti negativi”. La relativa dimostrazione può del resto venire offerta mediante la prova, in realtà mancata dal lavoratore nonostante le proteste di averla fornita, di uno specifico fatto positivo contrario o, soprattutto, mediante presunzioni. Di particolare interesse le ulteriori considerazioni con le quali il Collegio suggella la propria decisione e in particolare la riaffermazione dell'inderogabilità della regola di cui all'art. 2697 c.c. Una tale rigidità appare, non solo sintonica con il principio della riferibilità o vicinanza o disponibilità della prova, ma è, secondo la corte nomofilattica, tanto più consona alla materia dei danni alla persona, posto che altrimenti opinando l'efficacia preclusiva della transazione verrebbe esposta ad un'inaccettabile tensione, restando soggetta ad ogni “genere di revisione postuma con lo spostamento di una difficile prova a carico del convenuto che nulla potrebbe sapere dell'aggravamento subito dalla vittima e della sua prevedibilità o meno”. |