Whistleblowing: situazione giuridica presupposta e “specifica tutela”

31 Ottobre 2023

Premessi il significato del termine whistleblowing e le sue origini, il possibile contesto ordinamentale nel quale l'istituto può essere accolto incide in modo diretto sulle funzioni che può svolgere, anche alla luce delle diverse scelte di politica del diritto. Nel nostro ordinamento le “tappe” normative dell'istituto sono state connotate da parzialità e frammentarietà della disciplina, in parte risolte dal d.lgs. n. 24/2023 di attuazione della direttiva (UE) 2019/1937. Sulla base di quest'ultimo intervento legislativo la prima – e forse più rilevante – questione è quella dell'esatta individuazione della situazione giuridica presupposta dall'istituto. Sulla base delle origini storico-normative dell'istituto e dei considerando della direttiva eurounitaria, è preferibile la sua qualificazione giuridica in termini di “facoltà”, con tutte le conseguenze che ne derivano sotto diversi profili. Con riguardo alla “specifica tutela”, i suoi punti fondamentali ruotano soprattutto attorno alla salvaguardia della riservatezza dell'identità del “segnalante”, nonché al regime degli atti ritorsivi e al riparto degli oneri probatori fra “segnalante” e autore della ritorsione. Con riguardo al primo di questi due profili, molto delicati sono i problemi che sorgono in relazione al processo penale, per i possibili “attriti” che questa forma di tutela – tradotta in termini di testimonesenza identità” – può produrre con il principio del contraddittorio e con il diritto di difesa. Il “segnalante”, infatti, è considerato dalla giurisprudenza di legittimità una “fonte” probatoria pienamente utilizzabile, specialmente in tema di misure cautelari e di autorizzazione alle intercettazioni. Infine, non poche sono le prospettive, lavoristiche ed organizzative, che si palesano intorno alla figura dell'autodenunciante e alla peculiare funzione che può assolvere. Ma si discute se sia legittimo il riconoscimento di possibili incentivi in tal senso, magari attraverso la mediazione regolatrice della contrattazione collettiva

Premessa

Il termine whistleblowing, di origine americana e risalente agli anni '50 del secolo scorso, indica la condotta di chi, nell'ambito di un'organizzazione lavorativa, rivela (metaforicamente con l'uso del fischietto: “to blow the whistle”) a terzi (appartenenti alla medesima o a diversa organizzazione lavorativa del segnalante) oppure pubblicamente, l'esistenza di atti o fatti o vere e proprie prassi penalmente illecite o anche soltanto illegittime (in termini amministrativi) o, infine, civilisticamente illecite [1].

Il ritardo con cui l'istituto è stato introdotto nel nostro ordinamento è ascrivibile in primo luogo ad una ragione “culturale”. Non può sottacersi che la segnalazione di un illecito è disapprovata in alcuni contesti «nei quali la denuncia viene percepita come una delazione che tradisce la coesione o lo spirito di complicità del gruppo […]», sicché la sua efficacia e la sua effettività dipendono «dalla sua accettazione all'interno del contesto sociale» nel quale la segnalazione è destinata ad operare [2].

Al riguardo va evidenziato che l'istituto può rispondere a politiche del diritto profondamente diverse: vi sono sistemi che prevedono “premi” per il segnalante e che perseguono in tal modo l'interesse pubblicistico alla prevenzione dell'illecito; in altri l'attenzione si concentra sulla tutela da accordare al segnalante che ha appreso la notizia in seno all'organizzazione in cui lavora, direttamente proporzionale all'esigenza delle medesime organizzazioni di ridurre il rischio che siano commessi reati [3].

Altra ragione del ritardo dell'espresso riconoscimento del whistleblowing in Italia è rappresentata dal fatto che una tutela contro condotte ritorsive del datore di lavoro è già presente nel nostro ordinamento, in termini di nullità per motivo illecito (art. 1345 c.c.), laddove la violazione del dovere di fedeltà e la rivelazione di atti o fatti altrimenti destinati a restare “riservati”, se non addirittura “segreti”, possono dirsi scriminate sulla base del diritto di manifestazione del pensiero garantito dall'art. 21 Cost. [4]. Trattasi, quindi, di un fatto giuridicamente lecito del “segnalante”, che correlativamente induce a qualificare come illegittima la reazione del suo datore di lavoro, perciò detta ritorsiva.

Nei sistemi giuridici che accolgono l'istituto sono varie le funzioni assolte dalla regolamentazione mediante apposita disciplina.

In primo luogo vi è quella (tipicamente originaria) del rafforzamento del contrasto alla corruzione e alle pratiche illecite che, altrimenti, sfuggirebbero all'accertamento e quindi resterebbero impunite.

Vi è poi una funzione promozionale: l'ordinamento, nel tutelare dalle ritorsioni il “segnalante”, mostra di valorizzare tale condotta, considerandola non solo lecita, ma pure meritevole di una peculiare tutela. Secondo alcuni, in tal modo il legislatore incoraggerebbe un processo di coinvolgimento e di responsabilizzazione del privato nella cura dell'interesse pubblico e promuoverebbe una cultura della legalità nei luoghi di lavoro [5]. Il profilo presenta non pochi problemi di coerenza sistematica, poiché – diversamente da quanto accade in altri ordinamenti – non è previsto alcun sistema “premiale”, idoneo come tale ad incentivare la segnalazione. Dunque le possibili conseguenze (anche ritorsive) sono lasciate interamente a carico del segnalante e alla sua forza e capacità difensiva, senza che gli vengano prospettati e assicurati “vantaggi compensativi”, neppure ex post, ossia a seguito dell'accertamento della verità di quanto segnalato.

Infine vi è una funzione di garanzia dell'esercizio di alcuni diritti fondamentali, sia della persona in termini di libertà di espressione, sia della collettività in termini di diritto ad essere informata su fatti e notizie di pubblico interesse [6].

Le “tappe” normative in Italia

Nel nostro ordinamento la prima disciplina positiva è rappresentata dalla l. n. 190/2012 («Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell'illegalità nella pubblica amministrazione»), che, con l'art. 1, comma 51, aveva introdotto nel testo unico sul pubblico impiego (d.lgs. n. 165/2001) l'art. 54-bis (poi parzialmente novellato dall'art. 31 d.l. n. 90/2014 conv. in l. n. 114/2014).

Con tale norma il legislatore si era limitato a prevedere da un lato il divieto di adottare misure destinate ad incidere negativamente sul rapporto di lavoro del pubblico dipendente [7] “segnalante” «per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia»; dall'altro la tutela della riservatezza del “segnalante”, mediante un espresso divieto di rivelare, in sede disciplinare contro il terzo (destinatario dell'addebito scaturito dalla “segnalazione”), l'identità del denunciante senza il suo consenso, salvo che la conoscenza di tale identità fosse stata «assolutamente indispensabile» per la difesa dell'incolpato.

Con interventi poi settoriali e segnatamente con il d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72 il legislatore aveva introdotto analogo istituto nell'ambito delle imprese bancarie, mediante l'inserimento (con l'art. 1, comma 18) degli artt. 52-bis e 53-ter nel testo unico bancario (d.lgs. n. 385/1998). Pochi anni dopo, con il d.lgs. 3 agosto 2017, n. 129, analogo istituto veniva introdotto nelle imprese di intermediazione finanziaria, mediante l'inserimento (con l'art. 1, comma 6) degli artt. 4-undecies e 4-duodecies nel testo unico finanziario (d.lgs. n. 58/1998).

Il legislatore era poi intervenuto con l. 30 novembre 2017, n. 179 («Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato»), con cui non solo aveva rimodulato la disciplina nel pubblico impiego (mediante la riformulazione – con l'art. 1 – dell'art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001), ma aveva altresì esteso al settore privato la tutela del “segnalante” (dipendente o collaboratore che segnali un illecito), sia pure a determinate condizioni.

A quest'ultimo riguardo la tecnica normativa era stata alquanto originale. La sedes materiae prescelta, infatti, era stata quella del d.lgs. n. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti (persone giuridiche e società) derivante da reati commessi da preposti o dipendenti. E di tale corpus normativo il legislatore del 2017 aveva modificato l'art. 6, muovendosi in primo luogo in una prospettiva di tipo organizzativo, mediante la previsione dell'obbligo, per i datori di lavoro privati, di creare un canale di segnalazione «idoneo a garantire, con modalità informatiche, la riservatezza dell'identità del segnalante» [8]. Poneva, inoltre, a carico del datore di lavoro l'onere di provare il carattere non ritorsivo dei provvedimenti adottati (in un tempo cronologicamente successivo) nei confronti del segnalante.

Infine, con il d.lgs. 10 marzo 2023, n. 24 (recante «Attuazione della direttiva 2019/1937 UE riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell'Unione e recante disposizioni riguardanti la protezione delle persone che segnalano violazioni delle disposizioni normative nazionali») il legislatore ha emanato un corpus normativo che ambisce ad essere analitico e dettagliato, volto a completare la disciplina sotto tutti i profili di possibile rilevanza dell'istituto [9], in conformità ai principi posti con la legge delega e soprattutto alla direttiva eurounitaria [10].

Quest'ultima – come tutte le direttive – si pone l'obiettivo di normeminime comuni, al fine di dare omogeneità (se non proprio uniformità) a discipline nazionali frammentate ed eterogenee [11]. A completamento del sistema è prevista la facoltà degli Stati membri di introdurre o mantenere sistemi più favorevoli al segnalante, ferma in ogni caso la c.d. clausola di “non regressione” (art. 25).

Sullo sfondo si avverte la necessità di realizzare un bilanciamento di contrapposti interessi: da un lato l'interesse pubblico all'emersione di illeciti e la tutela della libertà di espressione del whistleblower, dall'altro l'interesse del datore di lavoro alla segretezza dei dati aziendali, nonché la reputazione dei soggetti segnalati rispetto al pericolo di accuse strumentali o infondate [12].

Il legislatore italiano dichiara in modo espresso la “funzionalizzazione” della segnalazione alla tutela dell'interesse pubblico o dell'amministrazione pubblica o dell'ente privato: solo a tale condizione è accordata protezione al “segnalante”. Infatti, definendo l'ambito oggettivo dell'attuazione della direttiva comunitaria, il legislatore delegato dispone: «Il presente decreto disciplina la protezione delle persone che segnalano violazioni di disposizioni normative nazionali o dell'Unione europea che ledono l'interesse pubblico o l'integrità dell'amministrazione pubblica o dell'ente privato, di cui siano venute a conoscenza in un contesto lavorativo pubblico o privato» (art. 1, comma 1, d.lgs. n. 24/2023). Coerentemente viene definita “violazione” ogni comportamento, atto od omissione che leda l'interesse pubblico o l'integrità dell'amministrazione pubblica o dell'ente privato e che consista in un illecito amministrativo, contabile, civile o penale (art. 2, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 24/2023) [13].

Tuttavia, a questo riguardo, già nel precedente regime relativo al pubblico impiego (art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001) si è ritenuto che la specifica tutela del whistleblower non richieda che la segnalazione delle condotte illecite sia effettuata nell'interesse esclusivo della sola amministrazione. Sulla base di questo assunto si è affermato che le tutele previste dall'art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001, cit., avverso gli atti ritorsivi, trovano applicazione anche quando l'interesse all'integrità della p.a. coincide o si accompagna con l'interesse privato del “segnalante”. La ragione di questo assunto è rappresentata dall'applicabilità della tutela anche alle segnalazioni che – pur rivestendo una forma impropria (ad esempio, la forma di una diffida) – sono comunque volte a sottoporre agli organi di controllo (interni, come il responsabile per la corruzione e la trasparenza, ed esterni, come l'Autorità giudiziaria e l'ANAC) condotte che integrano contemporaneamente una violazione dei diritti del lavoratore e al contempo fatti illeciti lesivi degli interessi pubblici di cui è istituzionalmente titolare l'ente pubblico datore di lavoro [14]. Dunque, la ratio decidendi è fondata sulla “funzionalizzazione” dell'istituto rispetto all'interesse pubblico, che non viene meno qualora – in via meramente occasionale – concorra con un interesse privato, proprio del “segnalante”.

In tal senso depone oggi anche il d.lgs. n. 24/2023, laddove prevede espressamente la giuridica irrilevanza dei motivi della segnalazione, della denunzia o della pubblica divulgazione (art. 16, comma 2).

La legittimazione alla “segnalazione” e l'ambito soggettivo della “specifica tutela” nella direttiva (UE) 2019/1937

Con riguardo alla qualifica soggettiva di whistleblower e quindi all'individuazione del soggetto legittimato ad effettuare una segnalazione e pertanto ad invocare la specifica disciplina di tutela a suo favore, già nella direttiva eurounitaria la scelta è stata nel senso di allargare quanto più possibile l'ambito soggettivo.

Il criterio utilizzato è quello dell'esposizione al rischio di possibile ritorsione: è whistleblower – e come tale merita protezione – ogni soggetto che può subire ritorsioni legate al lavoro, in occasione del quale ha acquisito l'informazione della violazione oggetto della segnalazione. In tal senso è il considerando 36 della direttiva, in cui, in prima battuta, è specificato che «il motivo principale della protezione a tali persone è la loro posizione di vulnerabilità economica nei confronti della persona da cui dipendono, di fatto, per il lavoro». La conseguenza è l'esclusione della specifica protezione laddove non vi sia un siffatto squilibrio di potere legato al lavoro, «come nel caso di una normale denuncia o di ordinari cittadini».

La direttiva va però oltre il concetto di “vulnerabilità economica” del segnalante. Nel considerando 37, infatti, è previsto che la protezione sia apprestata al maggior numero possibile di categorie di persone che, «per le loro attività professionali, indipendentemente dal tipo e se si tratti di attività remunerate o meno, hanno un accesso privilegiato a informazioni sulle violazioni che è nell'interesse del pubblico segnalare e che sono a rischio di ritorsioni in caso di segnalazione».

Quindi, sulla base del criterio della “possibile ritorsione” e compiendo uno sforzo ricognitivo delle categorie di persone che possono assumere la qualifica (e quindi la protezione) di whistleblower, la direttiva considera in primo luogo quei soggetti che hanno la qualifica di “lavoratore” ai sensi dell'articolo 45, paragrafo 1, TFUE, ossia «la persona che fornisce, per un certo periodo di tempo, a favore di terzi e sotto la direzione di questi, determinate prestazioni in contropartita delle quali riceve una retribuzione» (considerando 38).

Quindi vi rientrano:

  • lavoratori con rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato, nel settore privato ed in quello pubblico,
  • lavoratori con rapporto di lavoro subordinato part time,
  • lavoratori con rapporto di lavoro a tempo determinato,
  • lavoratori con rapporto di lavoro intermittente,
  • lavoratori con rapporto di lavoro alle dipendenze di un'impresa di somministrazione, destinati a lavorare presso l'utilizzatore (cfr. considerando 38).

In secondo luogo la direttiva considera quei soggetti che sono lavoratori autonomi ai sensi dell'art. 49 TFUE.

Inoltre rilevano quei soggetti che, pur non essendo “lavoratori”, possono avere un ruolo chiave nel disvelamento di violazioni e si trovano in una situazione di vulnerabilità economica nell'ambito delle loro attività professionali, per cui rischiano possibili ritorsioni. In tal senso, quindi, rilevano:

  • fornitori, che, con riguardo alla sicurezza dei prodotti, sono vicini alla fonte di informazione delle possibili pratiche illecite di fabbricazione, importazione o distribuzione di prodotti non sicuri,
  • consulenti e in genere professionisti che prestano servizi (lavoratori autonomi ai sensi dell'art. 49 TFUE),
  • subappaltatori,

tutti soggetti esposti a ritorsioni, come la risoluzione o l'annullamento del contratto di servizi, della licenza, la perdita di opportunità commerciali, la perdita di reddito, oppure intimidazioni o vessazioni o, infine, l'inserimento in “liste nere”, il boicottaggio o l'offesa alla loro reputazione (cfr. considerando 39).

In terzo luogo, rilevano anche i volontari e i tirocinanti retribuiti o non retribuiti, nei confronti dei quali le ritorsioni possono manifestarsi nel rifiutare o nel non avvalersi più dei loro servizi, dare loro referenze di lavoro negative, danneggiarne in altro modo la reputazione o le prospettive di carriera (cfr. considerando 40).

Ancora, la direttiva ricomprende le persone il cui rapporto di lavoro è terminato o, all'opposto, potrebbe iniziare (aspiranti all'assunzione oppure al conferimento di un incarico di prestazione di servizi), in relazione alle informazioni acquisite sulle violazioni durante il processo di selezione, o in altre fasi della trattativa precontrattuale, e che potrebbero subire ritorsioni (referenze di lavoro negative, inserimento in “liste nere”, boicottaggio: cfr. considerando 39).

Infine, possono essere whistleblowers anche gli azionisti e i titolari di cariche negli organi direttivi, poiché anch'essi possono subire ritorsioni, per esempio in termini finanziari o sotto forma di intimidazioni o vessazioni, inserimento in “liste nere”, offese alla reputazione (cfr. considerando 39).

In questo sforzo ricognitivo “a tutto tondo” la direttiva include nell'ambito soggettivo dei beneficiari della medesima tutela anche soggetti che non assumono la veste e la qualifica di whistleblower, ma che ciononostante sono a rischio di ritorsioni a causa del ruolo svolto nella segnalazione oppure del rapporto che li lega al “segnalante” e perciò meritevoli della medesima “specifica tutela”. Quindi meritano questa protezione:

  • i facilitatori,
  • i colleghi di lavoro,
  • i parenti del segnalante che abbiano una relazione di lavoro con il datore di lavoro del segnalante o con il cliente del segnalante o con il destinatario dei servizi resi dal segnalante.

Last but not least rilevano i rappresentanti sindacali e in genere i rappresentanti dei lavoratori, che beneficiano della specifica protezione del whistleblower qualora forniscono consulenza e/o sostegno (morale e/o materiale) al “segnalante”.

Tutte queste categorie rientrano nell' “ambito di applicazione personale” dettato dall'art. 4 della direttiva.

Infine la fonte eurounitaria ha cura di precisare che il criterio dell'esposizione a rischio di ritorsione rileva sia in caso di “ritorsione diretta”, sia in caso di “ritorsione indiretta”, quest'ultima integrata da tutte quelle “misure” che potrebbero essere adottate contro il soggetto giuridico di cui il “segnalante” è “proprietario” (ossia azionista o altrimenti socio o associato), oppure per cui lavora, oppure a cui è altrimenti legato da un rapporto lavorativo. Trattasi di “misure” come l'annullamento della fornitura di servizi, l'inserimento in una “lista nera” o il boicottaggio (cfr. considerando 41).

(Segue): nel d.lgs. n. 24/2023

La tecnica normativa seguita nel nostro ordinamento è in parte analoga a quella sopra vista: il legislatore delegato procede per tipologie di categorie (art. 3, commi 3 e 4).

Quindi i whistleblowers, definiti come le persone fisiche che effettuano «la segnalazione o la divulgazione pubblica di informazioni sulle violazioni acquisite nell'ambito del proprio contesto lavorativo» (art. 2, comma 1, lett. g), possono essere:

  • i dipendenti pubblici, sia quelli contrattualizzati, sia quelli non contrattualizzati ex art. 3 d.lgs. n 165/2001, ivi compresi i dipendenti delle Autorità amministrative indipendenti,
  • i dipendenti di enti pubblici economici,
  • i dipendenti di enti di diritto privato sottoposti a controllo pubblico ai sensi dell'art. 2359 c.c.,
  • i dipendenti delle società in house e, più in generale, degli organismi di diritto pubblico e dei concessionari di pubblico servizio,
  • i dipendenti del settore privato, ivi compresi i lavoratori occasionali (art. 54 bis d.l. n. 50/2017, conv. in l. n. 96/2017),
  • i lavoratori autonomi (ivi compresi i titolari di rapporti di collaborazione ex art. 409 c.p.c.) e i professionisti che prestano la loro opera presso soggetti pubblici o privati,
  • i volontari e i tirocinanti, retribuiti e non retribuiti, che prestano la loro attività presso soggetti pubblici o privati.

Con riguardo alla categoria dei “dipendenti”, la nozione è volutamente omnicomprensiva. Quindi rileverà il rapporto di lavoro subordinato, qualunque ne sia la tipologia (quindi anche part time, a tempo determinato, intermittente, somministrato).

Rileva altresì ogni forma di lavoro autonomo.

Inoltre, anche per il legislatore interno possono acquisire la veste di “persona segnalante” gli azionisti e coloro che sono titolari di funzioni amministrative, direttive, di controllo, di vigilanza o di rappresentanza di soggetti pubblici o privati, oppure che esercitino anche solo “di fatto” le predette funzioni,

Infine, anche per il legislatore interno beneficiano della specifica protezione soggetti diversi dal whistleblower:

  • i “facilitatori”,
  • le persone appartenenti al medesimo contesto lavorativo del segnalante e a lui legato da parentela entro il quarto grado o comunque da uno stabile legame affettivo,
  • i colleghi di lavoro del segnalante che lavorano nel medesimo contesto lavorativo ed abbiano con lui un rapporto abituale e corrente (art. 3, comma 5).

Tutti costoro non sono “segnalanti” e, ciononostante, in virtù della medesima esposizione al rischio di ritorsioni, beneficiano del medesimo sistema di protezione accordato al “segnalante”.

Tuttavia, occorre distinguere i “facilitatori” dalle altre categorie di beneficiari.

La nozione di “facilitatore” è dettata dall'art. 2, comma 1, lett. h), per tale dovendo intendersi «una persona fisica che assiste una persona segnalante nel processo di segnalazione, operante all'interno del medesimo contesto lavorativo e la cui assistenza deve essere mantenuta riservata». Dunque, per invocare la specifica tutela anche il “facilitatore” deve operare nel medesimo contesto lavorativo e si caratterizza per prestare “assistenza” al segnalante in modo riservato, in termini di consulenza e/o di sostegno, materiale e/o morale. Potrebbe essere sia un rappresentante sindacale, sia un rappresentante dei lavoratori, sia un mero collega di lavoro privo di cariche rappresentative. Ciò che conta è che appartenga al medesimo contesto lavorativo e dia un contributo agevolatore al whistleblower nel «processo di segnalazione».

Questo “processo” va inteso come composto da varie fasi, la cui individuazione è utile perché in ciascuna di queste può intervenire il “facilitatore” e perciò invocare la “specifica tutela”. Quindi rilevano le fasi dell'acquisizione dell'informazione relativa all'illecito, della sua comprensione, della decisione di formulare la segnalazione e, infine, della sua formulazione e presentazione. Tale contributo può essere espresso in termini sia di compartecipazione, sia di mera agevolazione. Ovviamente, qualora la compartecipazione si traduca nella presentazione congiunta di una segnalazione, anche il “facilitatore” acquisterà la veste di “segnalante”. Il dato comunque ha scarso rilievo, posto che le misure di protezione non divergono a seconda della qualifica soggettiva rivestita.

Per le altre categorie di soggetti, invece, non è richiesto alcun apporto al processo preparatorio e formativo della segnalazione. È sufficiente il legame (affettivo, di parentela o di colleganza lavorativa) con il “segnalante”, ritenuto elemento sufficiente ad esporli al rischio di ritorsioni. Tanto basta per renderli meritevoli della “specifica tutela”.

Una particolare attenzione merita la categoria dei «lavoratori o i collaboratori, che svolgono la propria attività lavorativa presso soggetti del settore pubblico o del settore privato che forniscono beni o servizi o che realizzano opere in favore di terzi» (art. 3, comma 3, lett. e). In tal caso, infatti, l'ambito della possibile “segnalazione” rilevante è duplice, in quanto è riferita non solo agli illeciti di cui il whistleblower acquisisce notizia o conoscenza nell'ambito del contesto lavorativo del proprio datore di lavoro o committente, ma altresì agli illeciti relativi al contesto lavorativo del soggetto terzo, a cui sono destinati il bene o il servizio reso oppure l'opera realizzata. Infatti, occorre tenere presente che la nozione di “contesto lavorativo”, dettata dall'art. 2, comma 1, lett. i), è tale da riferirsi non tanto al dato organizzativo nel quale l'attività lavorativa si colloca, quanto al dato empirico dell'attività medesima.

Analogamente, duplice è il “contesto lavorativo” al quale si riferisce la “segnalazione” che può essere compiuta da dipendenti con contratto di lavoro somministrato. Infatti, essi sono formalmente dipendenti dell'impresa fornitrice e di questa possono acquisire informazione di illeciti (ad esempio nella fase della selezione o dell'avvio presso l'utilizzatore), ma svolgono la loro prestazione lavorativa presso l'utilizzatore. Quindi sarà per lo più di quest'ultimo il “contesto lavorativo” per loro fonte di notizie e di informazioni rilevanti ai fini della possibile “segnalazione”.

La situazione giuridica soggettiva presupposta dal whistleblowing

Viste le possibili conseguenze rilevanti che derivano da una segnalazione, sul piano teorico occorre procedere all'esatta individuazione della situazione giuridica soggettiva di cui è titolare la persona che poi decide di segnalare un illecito e, quindi, di assumere la veste di whistleblower.

Orbene, tenendo conto delle radici storico-normative della figura, il “segnalante” è tradizionalmente inteso come quel soggetto che, pur non avendo l'obbligo di farlo, decide di segnalare un illecito di cui è venuto a conoscenza. D'altronde la ratio dello specifico sistema di tutela è fondata proprio sul presupposto che costui abbia non un obbligo, bensì una facoltà di scelta se segnalare oppure no, tanto che proprio per indurlo a segnalare l'ordinamento predispone un adeguato sistema di “specifica tutela” [15].

In tema di pubblico impiego, tuttavia, tale conclusione sembra contraddetta dalla previsione di un “dovere” di segnalazione al superiore gerarchico degli illeciti di cui sia venuto a conoscenza, previsto a carico del pubblico dipendente dall'art. 8 d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62 («Regolamento recante codice di comportamento dei dipendenti pubblici, a norma dell'articolo 54 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165»).

Secondo alcuni, tale contraddizione è da escludere, poiché, trattandosi soltanto di una norma di rango regolamentare, non sarebbe sufficiente a fondare un vero e proprio obbligo giuridico di segnalazione [16].

In senso critico potrebbe obiettarsi che il rango della fonte normativa non incide sulla astratta configurabilità di un obbligo giuridico, salva pur sempre la necessità di rispettare il principio di gerarchia delle fonti (con conseguente possibilità di disapplicare – ai sensi dell'art. 5 l. 20 marzo 1865, n. 2248, allegato E – un regolamento non conforme ad una norma primaria e, quindi, illegittimo).

Piuttosto può ritenersi che questa previsione regolamentare sia stata tacitamente abrogata già all'indomani dell'entrata in vigore della l. n. 179/2017, che aveva previsto apposito “canale interno” di segnalazione, nel settore pubblico rappresentato dal «responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza», ossia una figura diversa – dal punto di vista del rapporto organico – dal “superiore gerarchico” di cui all'art. 8 d.P.R. n. 62/2013 e con essa non conciliabile (se non del tutto occasionalmente).

A maggior ragione questa abrogazione tacita (per incompatibilità) va affermata a seguito del d.lgs. n. 24/2023, che ha espressamente previsto il “canale segnalazione interna” come riferito «a una persona o a un ufficio interno autonomo dedicato e con personale specificamente formato per la gestione del canale di segnalazione» oppure a «un soggetto esterno, anch'esso autonomo e con personale specificamente formato» (art. 4, comma 2).

Dunque va ribadito che la situazione giuridica soggettiva presupposta dal whistleblowing è una facoltà.

Questa, tradotta in termini penalistici, integra la scriminante dell'esercizio del diritto (art. 51 c.p.), idonea a rendere lecite eventuali violazioni di legge penale commesse con il disvelamento dell'informazione mediante la segnalazione.

In alcuni casi, tuttavia, per il ruolo ricoperto o le funzioni di cui è incaricato, il dipendente può essere titolare di un vero e proprio obbligo, penalmente sanzionato, di denunciare fatti di reato. È il caso dell'art. 331 c.p.p., che stabilisce in capo ai pubblici ufficiali e agli incaricati di pubblico servizio l'obbligo, penalmente sanzionato, di denunciare i reati perseguibili d'ufficio. In tal caso, mancando quella tipica facoltà di scelta, presupposta dal whistleblowing, non se ne può applicare la disciplina. Pertanto, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio potrà fruire della “specifica tutela” prevista per il whistleblower solo nel caso in cui la sua segnalazione riguardi illeciti diversi da quelli per i quali ha obbligo di denunzia, ossia un fatto che integri gli estremi di reato non perseguibile d'ufficio oppure di un illecito che non costituisca reato [17].

La qualificazione giuridica della situazione giuridica soggettiva presupposta in termini di “facoltà” e non di “obbligo” implica alcune rilevanti conseguenze.

In primo luogo, mancando un obbligo giuridico (eccetto la fattispecie di cui all'art. 331 c.p.p. sopra vista), nel caso in cui la facoltà si traduca nella scelta di non segnalare, non è configurabile una responsabilità penale omissiva ex art. 40, cpv., c.p. per non aver impedito il reato da altri commesso.

D'altro canto, e correlativamente, non essendo oggetto di un obbligo, la condotta del whistleblower, che decida invece di segnalare, non può essere considerata espressiva di un “adempimento del dovere” con efficacia scriminante ex art. 51 c.p. [18].

Peraltro, la direttiva (UE) 2019/1937, all'art. 21, comma 3, espressamente prevede in tal senso che «le persone segnalanti non incorrono in responsabilità per l'acquisizione delle informazioni segnalate o divulgate pubblicamente né per l'accesso alle stesse, purché tale acquisizione o accesso non costituisce di per sé reato. Nel caso in cui l'acquisizione o l'accesso costituisca di per sé un reato, la responsabilità penale deve continuare ad essere disciplinata dal diritto nazionale applicabile». Quindi la direttiva distingue nettamente la segnalazione dalla fase antecedente, connotata dall'acquisizione dell'informazione: la prima è certamente scriminata, la seconda invece resta disciplinata dal diritto interno e, quindi, potrebbe costituire reato (ad esempio in termini di accesso abusivo a sistema informatico o telematico: art. 615 ter c.p.).

La posizione del “segnalante” va comunque considerata con estrema cautela, perché, sul piano processual-penalistico, il contenuto della segnalazione viene ritenuto dalla Suprema Corte di Cassazione non un mero spunto investigativo, bensì una vera e propria dichiarazione accusatoria, che, se confortata da ulteriori elementi, è idonea ad integrare i gravi indizi di colpevolezza necessari e sufficienti per l'adozione di una misura cautelare personale [19].

Inoltre, per le medesime ragioni, la segnalazione è ritenuta elemento sufficiente per ottenere l'autorizzazione ad intercettazioni, non integrando una “fonte anonima” per la quale vige il divieto di utilizzazione ex art. 333, comma 3, c.p.p., poiché l'identità del denunciante è nota, pur essendo coperta da riserbo al fine di tutelare il pubblico dipendente che segnali condotte illecite [20].

Tradotti questi principi nel processo penale dibattimentale, in dottrina sono stati paventati dubbi di legittimità costituzionale con riguardo al c.d. testimone “senza identità” (anonymous witness), specialmente per sospetta violazione del principio del contraddittorio ex art. 111 Cost. e del diritto di difesa [21].

Infine, sul piano del bilanciamento con contrapposti interessi – come la reputazione del datore di lavoro – in una recente sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani [22] la facoltà del lavoratore di segnalare fatti relativi all'attività del datore di lavoro è stata ricondotta alla libertà di espressione, tutelata dall'art. 10 della CEDU. E tuttavia è stata riconosciuta la necessità di un bilanciamento con contrapposti diritti e libertà “concorrenti” e in conflitto, pure riconosciuti dalla medesima Convezione. Per tale ragione è stato ritenuto necessario ammettere alcune limitazioni, che si traducono in “condizioni” alle quali è subordinato il riconoscimento della prevalenza da accordare alla libertà di espressione e, dunque, alla facoltà del “segnalante” rispetto ai diritti o libertà “concorrenti” e in conflitto. In particolare i giudici di Strasburgo hanno elaborato le seguenti “condizioni”: a) la segnalazione deve riguardare fatti di pubblico interesse; b) il segnalante deve essere in buona fede, essendo mosso dalla genuina e ragionevole convinzione che la condotta illecita segnalata si sia verificata; c) il segnalante deve aver accertato, con tutta la diligenza possibile e consentita dalle circostanze, la veridicità dei fatti oggetto di segnalazione; d) l'interesse pubblico alla conoscenza dei fatti oggetto di segnalazione deve essere tale da "giustificare" l'eventuale danno che potrebbe derivare al datore di lavoro; e) la segnalazione deve costituire l'unica modalità per rendere manifesto l'illecito, in assenza di (o nell'impossibilità di utilizzare) altri canali "alternativi"; f) l'eventuale "ingerenza", anche sotto forma di sanzione disciplinare inflitta al segnalante, deve rivelarsi non necessaria o comunque sproporzionata [23].

In tal modo la Corte europea ha riaffermato il principio secondo cui è doveroso un esercizio responsabile della libertà di espressione che, nell'ambito di un rapporto di lavoro, va individuato anche alla luce dei doveri di discrezione e lealtà imposti al lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro. Ne consegue che sono certamente da escludere dall'ambito della libertà di espressione quelle ipotesi in cui risulti che il lavoratore abbia agito in modo strumentale e distorto [24], oppure abbia adoperato espressioni che vanno oltre il limite della continenza nella lesione dell'altrui reputazione [25].

La “specifica tutela” del whistleblower e dei soggetti a tal fine equiparati

Con riguardo alla “specifica tutela” accordata dal legislatore delegato, in via di prima approssimazione può dirsi che il sistema ruoti intorno a due profili principali: il divieto di atti ritorsivi, con la comminatoria espressa della loro nullità [26], e l'inversione dell'onere probatorio a seguito della presunzione (relativa) di ritorsività e di danno (art. 17 d.lgs. n. 24/2023).

A questi due profili se ne affiancano altri, sia di natura sostanziale, sia di natura processuale.

Sul piano sostanziale rilevano:

  1. la tutela della riservatezza dell'identità del segnalante (art. 12 d.lgs. n. 24/2023), ivi compresa la sottrazione dei dati così raccolti al diritto di accesso sia ai sensi della legge n. 241/1990, sia ai sensi del d.lgs. n. 33/2013 (art. 12, comma 8) [27];
  2. le misure di sostegno da parte degli enti del c.d. terzo settore (art. 18, comma 2, d.lgs. n. 24/2023);
  3. l'effetto indiretto di tipo preventivo-deterrente, prodotto dal possibile esercizio del potere sanzionatorio pecuniario di cui è titolare l'ANAC nei confronti del soggetto che adotti un atto ritorsivo o tenga un comportamento ritorsivo (artt. 19 e 21 d.lgs. n. 24/2023);
  4. le limitazioni di responsabilità a favore del “segnalante” e dei soggetti equiparati (art. 20 d.lgs. n. 24/2023), da qualificare come vere e proprie “scriminanti”, come può desumersi dall'espressa esclusione della configurabilità di un illecito di qualunque natura, penale [28], amministrativo, contabile, disciplinare [29] e civile;
  5. l'invalidità (rectius annullabilità) delle rinunzie e delle transazioni, salvo che siano state stipulate nella c.d. sede protetta (art. 22 d.lgs. n. 24/2023, che richiama l'art. 2113, ult. co., c.c.).

Sul piano processuale rileva in primo luogo il potere giudiziale di ordinare l'esibizione nei confronti dell'ANAC (art. 18, comma 3, d.lgs. n. 24/2023), avente ad oggetto «informazioni e documenti in ordine alle segnalazioni eventualmente presentate» presso tale Autorità. Tuttavia, sul punto vi è un difetto di coordinamento: il rinvio espresso all'art. 63, comma 2, c.p.a. consente al giudice amministrativo di disporre anche d'ufficio l'esibizione, mentre per il giudice ordinario il rinvio espresso all'art. 210 c.p.c. permetterebbe l'adozione dello stesso ordine solo se vi sia l'istanza di parte, espressamente prevista dalla norma processual-civilistica come condizione necessaria per l'esercizio di questo potere istruttorio. L'aporia – che non trova alcuna giustificazione – può essere tuttavia superata, riconoscendo all'art. 18, comma 3, d.lgs. n. 24/2023 il ruolo di norma processuale che assegna il potere ufficioso ad entrambi gli ordini giurisdizionali. Secondo una tale interpretazione, il richiamo all'art. 210 ss. c.p.c. va allora inteso come mero rinvio alle modalità di acquisizione del documento e agli oneri processuali del destinatario dell'ordine. In tal senso depone, peraltro, il testuale richiamo limitato alle “forme” di cui ai citati articoli del codice di rito civile e di rito amministrativo.

Sempre sul piano processuale il legislatore ha, infine, introdotto una tutela “atipica”.

L'art. 19, ult. co., d.lgs. n. 24/2023 infatti dispone: «L'autorità giudiziaria adita adotta tutte le misure, anche provvisorie, necessarie ad assicurare la tutela alla situazione giuridica soggettiva azionata, ivi compresi il risarcimento del danno, la reintegrazione nel posto di lavoro, l'ordine di cessazione della condotta posta in essere in violazione dell'articolo 17 e la dichiarazione di nullità degli atti adottati in violazione del medesimo articolo».

Trattasi di una previsione quanto mai opportuna, in primo luogo perché in tal modo si riconosce la tutela più adeguata in presenza di “comportamenti” ritorsivi che non si siano manifestati in atti giuridici, sicché per essi la sanzione della “nullità” sarebbe priva di significato. Inoltre, in tal modo viene assicurata l'effettività della tutela giurisdizionale a chi ha subito una ritorsione perché whistleblower o soggetto equiparato, dal momento che potrà chiedere e ottenere «tutte le misure, anche provvisorie [ossia cautelari], necessarie ad assicurare la tutela alla situazione giuridica soggettiva azionata». Il principio di effettività, infatti, impone di riconoscere che le forme di tutela adeguate sono quelle dettate dalla situazione giuridica soggettiva da proteggere, sicché la disciplina di diritto sostanziale finisce per conformare il contenuto del provvedimento giurisdizionale e quindi i poteri decisori (cautelare e di merito) del giudice, per questa ragione improntati al principio di atipicità.

(Segue): la “ritorsione” e il relativo regime probatorio

Con riguardo alla ritorsione, rilevante è la definizione data dall'art. 2, comma 1, lett. m) (richiamato infatti dall'art. 17, comma 4, d.lgs. n. 24/2023), secondo cui per “ritorsione” si intende «qualsiasi comportamento, atto od omissione, anche solo tentato o minacciato, posto in essere in ragione della segnalazione, della denuncia all'autorità giudiziaria o contabile o della divulgazione pubblica e che provoca o può provocare alla persona segnalante o alla persona che ha sporto la denuncia, in via diretta o indiretta, un danno ingiusto».

Quindi, come elemento costitutivo è necessario un doppio nesso di idoneità causale: non solo fra la segnalazione e l'atto ritorsivo, ma anche fra l'atto ritorsivo e il “danno ingiusto”. La formula è un po' ambigua, perché sembra implicitamente ammettere che da un atto ritorsivo possa derivare anche un danno “giusto”, ciò che sarebbe una contraddizione in termini. Ne deriva che la norma va interpretata nel più limitato senso per cui il legislatore ha voluto qualificare expressis verbis il danno derivato (o di possibile derivazione) dalla ritorsione come “ingiusto”.

La prova di questo doppio nesso, secondo i principi generali (art. 2697 c.c.), sarebbe a carico di chi invoca la natura ritorsiva dell'atto o del comportamento. Invece, in attuazione della direttiva comunitaria, il legislatore delegato, in deroga a quel principio, ha previsto la presunzione relativa sia della ritorsività dell'atto o del comportamento (art. 17, comma 1, d.lgs. n. 24/2023), sia del nesso causale rispetto al danno che l'interessato dimostri di aver patito (art. 17, comma 2, d.lgs. n. 24/2023). Resta da comprendere se vi siano limiti, oppure no, a questa presunzione, specialmente quando, sul piano temporale, sia trascorso un apprezzabile o addirittura un ampio periodo di tempo fra la segnalazione e l'atto o il comportamento asseritamente ritorsivo. Il rischio, infatti, è quello di rendere omnicomprensivamente ritorsivo ad libitum ogni atto o comportamento successivo per il solo fatto che il lavoratore abbia compiuto in precedenza una segnalazione. Se così fosse, dovrebbe allora concludersi che il legislatore abbia in tal modo introdotto un “incentivo” alla segnalazione, rappresentato proprio dal beneficio dell'invocabilità ad libitum della presunzione di ritorsività di ogni atto o comportamento datoriale successivo.

Qualora operi tale presunzione, sarà a carico dell'autore dell'atto o del comportamento l'onere della prova contraria [30].

A questo riguardo resta dubbia l'estensione dell'ambito di tale onere, cioè se la prova contraria sia sufficientemente rappresentata dall'esistenza di una ragione lecita di esercizio di un diritto o di un potere (del datore di lavoro o del committente etc.), anche eventualmente concorrente con la reazione alla segnalazione, oppure se occorra l'esclusività della ragione lecita. Nell'ottica di un'interpretazione della norma interna in senso conforme a (e coerente con) quella comunitaria (la direttiva UE 2019/1937), occorre optare per la necessaria prova dell'esistenza di una ragione lecita ed esclusiva.

A tal fine non è di ausilio la scarna previsione dell'art. 21, comma 5, della direttiva, che, al suo ultimo periodo, si limita a prevedere che «[…] spetta alla persona che ha adottato la misura lesiva dimostrare che tale misura è imputabile a motivi debitamente giustificati». Infatti, in relazione alla questione prospettata, la direttiva non impone espressamente che tali “motivi debitamente giustificati” debbano anche essere “esclusivi”.

Ciononostante, in tal senso milita la necessità di una “protezione efficace”, richiamata più volte nei molteplici considerando della direttiva. Peraltro, nel considerando 44 è espressamente previsto che la fonte eurounitaria «non dovrebbe […] impedire che i datori di lavoro adottino decisioni di natura lavorativa non determinate dalla segnalazione o dalla divulgazione pubblica». Dunque deve ritenersi che sia lecito – e perciò non impedito dalla direttiva – solo quell'atto o quel comportamento “non determinato” dalla segnalazione.

E allora la questione potrebbe essere così formulata: quando può dirsi che l'atto o il comportamento “non sia determinato” dalla segnalazione? Il discorso si sposta sul piano causale, ossia delle ragioni che hanno indotto il soggetto a compiere quell'atto o a tenere quel comportamento.

Orbene, poiché il nostro ordinamento accoglie una nozione di causalità ispirato al principio dell'equivalenza causale, per cui è indifferente che una causa sia esclusiva oppure concorrente (artt. 40 e 41 c.p.), se ne deve desumere che la ragione lecita, al fine di vincere la presunzione di ritorsività, deve essere anche esclusiva. Se non lo fosse, vi sarebbe una concorrenza causale da parte della segnalazione. Ciò – ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p. – sarebbe sufficiente per affermare che quell'atto o quel comportamento è stato determinato (anche) dalla segnalazione e, quindi, resterebbe presuntivamente “ritorsivo”.

Dunque, solo se la ragione lecita è pure esclusiva l'atto o il comportamento potrà dirsi “non determinato” (neppure in parte) dalla segnalazione. Pertanto solo a tale condizione la presunzione (relativa) di ritorsività potrà dirsi vinta da prova contraria.

L’autodenunciante

Controversa è, invece, la configurabilità e l’ammissibilità di un trattamento sanzionatorio “di favore”, qualora anche il whistleblower sia coinvolto nel fatto oggetto della segnalazione (c.d. autodenuncia).

Questo problema refluisce in quello più generale dell’ammissibilità di “premi” per il “segnalante”. In via generale si esclude che il sistema premiante – tipico degli Stati Uniti d’America – sia compatibile con gli ordinamenti a diritto amministrativo. La principale ragione addotta è che esso darebbe vita ad una “commercializzazione” della funzione sanzionatoria. Secondo alcuni ciò sarebbe incompatibile con la natura della sanzione come “pena in senso tecnico” ed espressione di potestà amministrativa in senso proprio, come tale non disponibile, ossia non suscettibile di essere oggetto di un patto oneroso con previsione di un corrispettivo non necessariamente patrimoniale [31]. E anche ammettendo che, nel pubblico impiego privatizzato, gli atti di gestione del rapporto di lavoro sono assunti con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro (art. 5, comma 2, d.lgs. n. 165/2001) e quindi hanno natura di atti negoziali e non funzionalizzati all’interesse pubblico (come invece avviene per gli atti amministrativi), nondimeno le regole relative al potere disciplinare (art. 55 ss., d.lgs. n. 165/2001) sono espressamente qualificate come “norme imperative” (art. 55, comma 1, d.lgs. n. 165/2001). Inoltre, i vari interventi legislativi succedutisi nel tempo dimostrano come il procedimento disciplinare abbia la finalità istituzionale di elevare il livello di efficienza degli uffici pubblici (contrastando forme di assenteismo, di corruzione etc.) e, quindi, sia volto ad assicurare il “buon andamento” dell’amministrazione ex art. 97 Cost. La conclusione dunque sarebbepur sempre quella dell’inammissibilità di una “commercializzazione” del potere gestionale sanzionatorio, rectius del suo esercizio.

Questo argomento vale certamente per il pubblico impiego, vista la natura pubblica del datore di lavoro e, quindi, l’indisponibilità degli interessi di cui è titolare [32].

Per il datore di lavoro privato, invece, vige pur sempre il principio di libertà di iniziativa economica e quindi di impresa (art. 41 Cost.), nell’ambito della quale non può escludersi la legittimità di una disciplina – eventualmente concordata in sede di contrattazione collettiva – che preveda determinati “premi” per il “segnalante”, almeno nel caso in cui sia anch’egli coinvolto nel fatto oggetto della segnalazione. In tal caso il “premio” – da tradurre in termini di riduzione o addirittura di estinzione della sanzione – avrebbe proprio la funzione di indurre all’autodenuncia e favorire in tal modo il disvelamento di illeciti.

Più in generale, il comportamento dell’autodenunciante può comunque rilevare sul piano della proporzionalità della risposta sanzionatoria. Proprio di recente la giurisprudenza di legittimità ha affermato: «La normativa di tutela del dipendente che segnali illeciti altrui (c.d. whistleblowing) salvaguardia il medesimo dalle sanzioni che potrebbero conseguire a suo carico secondo le norme disciplinari o da reazioni ritorsive dirette ed indirette conseguenti alla sua denuncia, ma non istituisce un esimente per gli autonomi illeciti che egli, da solo o in concorso con altri responsabili, abbia commesso, potendosi al più valutare il ravvedimento operoso o la collaborazione al fine di consentire gli opportuni accertamenti nel contesto dell’apprezzamento, sotto il profilo soggettivo, della proporzionalità della sanzione da irrogarsi nei confronti del medesimo» [33].

Si tratta di un principio da condividere: il legislatore ha inteso proteggere il whistleblower per la condotta di segnalazione, che l’ordinamento considera lecita e da tutelare, non certo per altre condotte che sono e restano invece illecite, né perdono il loro carattere illecito solo perché successivamente al loro compimento l’autore ne faccia oggetto di segnalazione al datore di lavoro. Ciononostante, la segnalazione può integrare un elemento della complessiva fattispecie sottoposta al potere disciplinare, tale da incidere sulla valutazione dei fatti e, quindi, sulla risposta sanzionatoria. Pertanto quest’ultima dovrebbe essere dosata in modo accorto secondo il principio di proporzionalità, riconoscendo l’incontestabile valore della libera scelta dell’autodenunciante di effettuare la segnalazione nonostante il suo inevitabile coinvolgimento e, quindi, anche a costo di essere sottoposto a procedimento disciplinare e a subire in tal modo una sanzione disciplinare. Non va dimenticato, infatti, che ai sensi dell’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 24/2023, la segnalazione deve riguardare «violazioni di disposizioni normative nazionali o dell'Unione europea che ledono l'interesse pubblico o l'integrità dell'amministrazione pubblica o dell'ente privato». Quindi la segnalazione è comunque una condotta idonea a ripristinare l’interesse dell’ente, anche privato, o a consentire di intervenire per rimediare alla sua lesione. È quindi una condotta che assume un indubbio valore, apprezzabile sul piano degli interessi che trascendono il piano strettamente individuale del rapporto di lavoro (o di altro tipo) del segnalante. E questo assunto rimane certamente fermo, qualunque sia il motivo che ha spinto il whistleblower alla segnalazione o alla denunzia (art. 16, comma 2, d.lgs. n. 24/2023).

Note

[1] Sull'origine del termine v. E. CEVA-M. BOCCHIOLA, Is Whistleblowing a Duty?, PolityPress, 2018, 3.

[2] A. DELLA BELLA, Il whistleblowing nell'ordinamento italiano: quadro attuale e prospettive per il prossimo futuro, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, 1403 ss., spec. 1405.

[3] R. MARAGA, La tutela lavoristica del whistleblower tra limiti soggettivi ed oggettivi: brevi riflessioni de iure condito e de iure condendo (Nota a Trib. Milano 10 marzo 2021), in Dir. rel. ind., 2022, 289 ss. Secondo l'A., proprio la l. n. 179/2017 mostra di incentrare l'istituto sull'esigenza di «tutela dell'integrità dell'ente» (291).

[4] In tal senso A. DELLA BELLA, op. cit., 1406.

[5] Nel considerando 2 della direttiva (UE) 2019/1937 del 23 ottobre 2019 si pone in evidenza che le segnalazioni forniscono informazioni utili all'indagine, all'accertamento e al perseguimento dei casi di violazione delle norme dell'Unione, «rafforzando in tal modo i principi di trasparenza e responsabilità».

[6] A. DELLA BELLA, op. cit. Secondo l'A., tale funzione di garanzia trova espresso riconoscimento nella direttiva (UE) 2019/1937, in cui vi è la dichiarazione del whistleblowing come istituto che rappresenta un'attuazione dei principi di cui agli artt. 11 della Carta dei diritti e 10 della Convenzione Europea dei Diritti Umani (1403-1404).

[7] Ma a questo riguardo App. Roma 19 aprile 2021, n. 602, a quanto consta inedita, ha ritenuto l'art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001 applicabile in via analogica anche al medico in regime di convenzionamento con il Servizio pubblico sanitario.

[8] P. NOVARO, Principali criticità della disciplina italiana in materia di whistleblowing alla luce della nuova direttiva europea: limitato campo di applicazione e scarsi incentivi, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2019, 737 ss., spec. 740. Secondo l'A., il più grande limite della l. n. 179/2017 era costituito dall'inserimento della tutela lavoristica del whistleblower all'interno del d.lgs. n. 231/2001, ritenuta riduttiva, specialmente perché condizionata alla libera scelta dell'ente di adottare il MOG, ossia il modello di organizzazione e di gestione. Nello stesso senso R. MARAGA, op. cit., 303.

[9] Con l'art. 23 d.lgs. n. 24/2023 vengono abrogati l'art 54-bis d.lgs. n. 165/2001, l'art. 6, commi 2-ter e 2-quater d.lgs. n. 231/2001 e l'art. 3 l. n. 179/2017. Tuttavia, ai sensi dell'art. 24 d.lgs. n. 24/2023 la nuova disciplina entra in vigore il 15 luglio 2023 e quella previgente continua ad applicarsi (in senso ultrattivo) alle segnalazioni o alle denunce all'autorità giudiziaria o contabile effettuate fino 14 luglio 2023.

[10]  La legge delega 4 agosto 2022, n. 127 (c.d. legge di delegazione europea per l'anno 2021), all'art. 13, rubricato «Principi e criteri direttivi per l'attuazione della direttiva (UE) 2019/1937, riguardante la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell'Unione», così dispone:

«1. Nell'esercizio della delega per l'attuazione della direttiva (UE) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2019, il Governo osserva, oltre ai principi e criteri direttivi generali di cui all'articolo 32 della legge 24 dicembre 2012, n. 234, anche i seguenti principi e criteri direttivi specifici:

 a) modificare, in conformità alla disciplina della direttiva (UE) 2019/1937, la normativa vigente in materia di tutela degli autori di segnalazioni delle violazioni di cui all'articolo 2 della citata direttiva, di cui siano venuti a conoscenza nell'ambito di un contesto lavorativo pubblico o privato, e dei soggetti indicati all'articolo 4, paragrafo 4, della stessa direttiva;

 b) curare il coordinamento con le disposizioni vigenti, assicurando un alto grado di protezione e tutela dei soggetti di cui alla lettera a), operando le necessarie abrogazioni e adottando le opportune disposizioni transitorie;

 c) esercitare l'opzione di cui all'articolo 25, paragrafo 1, della direttiva (UE) 2019/1937, che consente l'introduzione o il mantenimento delle disposizioni più favorevoli ai diritti delle persone segnalanti e di quelle indicate dalla direttiva, al fine di assicurare comunque il massimo livello di protezione e tutela dei medesimi soggetti;

 d) operare gli opportuni adattamenti delle disposizioni vigenti al fine di conformare la normativa nazionale a quella europea, anche in relazione a violazioni di diritto interno riconducibili a reati o comportamenti impropri che compromettono la cura imparziale dell'interesse pubblico o la regolare organizzazione e gestione dell'ente».

[11] Nel considerando 4 della direttiva eurounitaria si riconosce che: «Attualmente la protezione garantita agli informatori nell'Unione non è uniforme tra gli Stati membri e non è armonizzata tra i vari settori. Le conseguenze delle violazioni del diritto dell'Unione aventi una dimensione transfrontaliera comunicate dagli informatori dimostrano come l'assenza di un livello di protezione sufficiente in un dato Stato membro può avere conseguenze negative sul funzionamento delle politiche dell'Unione non solo al suo interno ma anche in altri Stati membri e nell'Unione nel suo insieme».

[12] A. DELLA BELLA, op. cit., 1407.

[13] Trattasi di una norma di chiusura, volta a ricomprendere nel concetto di “violazione” illeciti diversi da quelli “tipizzati” dall'art. 2, comma 1, lett. a), ai nn. 2), 3), 4), 5) e 6), d.lgs. n. 24/2023.

[14] TA.R. Lazio, sez. I quater, 7 gennaio 2023, n. 236, a quanto consta inedita.

[15] R. MARAGA, op. cit., 291. Al riguardo l'A. evidenzia come, in alcuni ordinamenti, proprio per incentivare l'esercizio di questa facoltà sono addirittura previsti significativi “premi”. Nello stesso senso A. DELLA BELLA, op. cit., 1410.

[16] A. DELLA BELLA, loc. ult. cit.

[17] Nello stesso senso A. DELLA BELLA, loc. ult. cit.

[18] In tal senso Cass. pen. 21 maggio 2018, n. 35792, in Dir. prat. lav., 2018, 32-33, 2034, che ha confermato la responsabilità penale del lavoratore per il reato di accesso abusivo a sistema informatico, negando che tale condotta, asseritamente posta in essere per procacciarsi le prove della segnalazione da compiere exl. n. 179/2017, potesse considerarsi scriminata in quanto compiuta nell'adempimento di un dovere. Secondo la Suprema Corte, infatti, l'art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001 non fonda alcun obbligo di attiva acquisizione di informazioni e quindi non giustifica improprie attività investigative in violazione dei limiti posti dalla legge.

[19] Cass. pen. 31 gennaio 2018, n. 9047, in Guida al diritto, 2018, fasc. 22, 65 con nota di S. TADDEI.

[20] Cass. pen. 31 gennaio 2018, n. 9041, a quanto consta inedita. In motivazione la Corte ha precisato che, in base all'art. 54-bis d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, come modificato dalla l. 30 novembre 2017, n. 279, nell'ambito del processo penale l'identità del segnalante è coperta dal segreto ai sensi dell'art. 329 c.p.p.

[21] Sul testimone “senza identità” si vedano le acute riflessioni di G.M. EVARISTI, Whistleblowing, tutela dell'anonimato e processo penale: tra limiti costituzionali e orizzonti convenzionali, in Dir. pen. proc., 2021, 7, 970 ss.

[22] Corte europea diritti dell'uomo, Sez. II, 16 febbraio 2021, n. 23922, in Nuova giur. civ. comm., 2021, 5, 1018, con nota di M. AGLIATA, Sull'esercizio "responsabile" del diritto di denuncia del lavoratore, in Nuova giur. civ., 2021, 5, 1018 ss.

[23] Nella citata decisione la Corte EDU ha rigettato il ricorso, pervenendo alla conclusione che, pur avendo il ricorrente sporto la denuncia in buona fede, per un motivo legittimo e di interesse pubblico, aveva tuttavia omesso di prestare la diligenza necessaria nell'accertamento della veridicità dei presunti illeciti, atteso che, svolgendo ulteriori verifiche, avrebbe potuto agevolmente concludere che i suoi sospetti erano infondati. Per un primo commento a tale decisione v. la nota di M. AGLIATA, op. loc. cit., e dottrina e giurisprudenza ivi citate.

[24] In tal senso Cass., sez. lav., 29 settembre 2017, n. 22375, a quanto consta inedita.

[25] Cfr. Cass. pen. 27 giugno 2023, n. 27922, a quanto consta inedita, secondo cui «l'esimente postula il limite della continenza, proprio allo scopo di evitare che l'esercizio del diritto si risolva in un pretesto e in uno strumento illecito di aggressione all'altrui reputazione, non funzionale alla denuncia di un fatto vero o ragionevolmente supposto tale». In quel caso la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso dell'imputata, condannata per diffamazione, che aveva invocato come causa di giustificazione l'istituto del whistleblowing, invero in modo atecnico: in qualità di avvocato aveva aspramente criticato agenti penitenziari per comportamenti lesivi asseritamente tenuti ai danni di un proprio cliente. La Suprema Corte si è limitata a confermare la propria consolidata giurisprudenza in materia di conflitto fra diritto di critica e diritto alla reputazione, senza scomodare l'istituto del whistleblowing, peraltro non configurabile per assenza della qualifica soggettiva.

[26] Sulla configurabilità di un legittimo rifiuto del “segnalante” di dare seguito ad un atto ritorsivo (ad esempio un trasferimento), nel regime di cui all'art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001, sulla base dell'art. 1460, comma 2, c.c., solo se l'eccezione di inadempimento sia assistita da buona fede v. App. Roma 19 aprile 2021, n. 602, cit., a quanto consta inedita.

[27] Viceversa, il whistleblower, proprio per tale sua veste, ha un interesse qualificato sufficiente a far ritenere sussistente il suo diritto di accesso ad atti e documenti della p.a. relativi alla segnalazione da lui effettuata: in tal senso, sia pure nel regime anteriore al d.lgs. n. 24/2023, v. TAR Lazio, Roma, sez. I, 23 ottobre 2020, n. 10818, a quanto consta inedita.

[28] Per la Corte EDU, Grande Camera, 14 febbraio 2023, n. 21884/18, H. c. Luxembourg, la condanna penale inflitta ad un dipendente whistleblower, responsabile di aver dato in via riservata ad un giornalista notizie e documenti riservati di natura fiscale, relativi ai clienti del proprio datore di lavoro (società multinazionale), è lesiva dell'art. 10 CEDU sulla libertà di espressione. In particolare, la Corte ha rilevato che i tribunali nazionali avevano preso in considerazione solo il pregiudizio arrecato al datore di lavoro. Invece i Giudici di Strasburgo hanno ritenuto che, considerata l'importanza, sia a livello nazionale che europeo, del dibattito pubblico sulle pratiche fiscali delle società multinazionali, cui le informazioni rese disponibili dal ricorrente avevano dato un contributo essenziale, l'interesse pubblico alla divulgazione di quelle informazioni prevalesse su tutti gli effetti dannosi derivati, inclusi il furto di dati, la violazione del segreto professionale e il danno agli interessi privati dei clienti del datore di lavoro.

[29] Nel precedente regime, secondo Cass. ord. 22 maggio 2023, n. 14093, a quanto consta inedita e relativa al pubblico impiego privatizzato, «la segnalazione ex art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001 (c.d. whistleblowing) sottrae alla reazione disciplinare del soggetto datore tutte quelle condotte che, per quanto rilevanti persino sotto il profilo penale, siano funzionalmente correlate alla denunzia dell'illecito, risultando riconducibili alla causa di esonero da responsabilità disciplinare di cui alla norma invocata». In quel caso la Suprema Corte ha ritenuto che l'accesso a determinati documenti, non giustificato dalle mansioni svolte, ma strumentale alla ricerca di prove a conforto di una denunzia già presentata dall'interessata, fosse condotta esente da responsabilità disciplinare, in quanto strettamente e funzionalmente correlata alla “segnalazione” di illeciti e, quindi, alla relativa disciplina di esonero da qualunque responsabilità, senza che potesse avere rilevanza l'accertamento ex post dell'infondatezza della denunzia, una volta esclusa la sussistenza degli estremi di una calunnia o di una diffamazione.

[30] L'art. 17, comma 4, d.lgs. n. 24/2023 contiene anche un lungo elenco di fattispecie ritorsive con valore esemplificativo, ma la cui ampiezza dimostra la volontà del legislatore di sanzionare qualunque condotta idonea ad incidere negativamente sul rapporto di lavoro in corso o anche soltanto sulle future prospettive lavorative del segnalante, come, ad esempio, «le referenze negative» (lett. e), «qualsiasi restrizione dell'accesso» alla formazione (lett. d), «la mancata conversione di un contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, laddove il lavoratore avesse una legittima aspettativa a detta conversione» (lett. i), «il mancato rinnovo di un contratto di lavoro a termine» (lett. l), «l'inserimento in elenchi impropri sulla base di un accordo settoriale o industriale formale o informale, che può comportare l'impossibilità per la persona di trovare un'occupazione nel settore o nell'industria in futuro» (lett. n).

[31] In tal senso P. NOVARO, op. cit., 746.

[32] P. NOVARO, op. cit., 747. L'A., tuttavia, suggerisce di mutuare l'esperienza dei cosiddetti programmi di clemenza (leniency programmes) propri del diritto della concorrenza dell'UE. Si tratta di una particolare forma di collaborazione fra autorità antitrust ed imprese, attraverso cui l'autorità ottiene prove dell'esistenza di un cartello o di un'intesa restrittiva della concorrenza da parte di una delle imprese colluse in cambio di un trattamento sanzionatorio di favore o addirittura dell'immunità. Secondo l'A. questo istituto potrebbe essere applicato anche al whistleblower, al fine di indurre a segnalare anche il soggetto che non sia completamente estraneo al fatto oggetto della segnalazione, promettendogli un trattamento di favore in termini disciplinari, di responsabilità contabile o anche penale. A questo riguardo l'A. evidenzia che il sistema normativo è del tutto silente. L'unico dato è rappresentato da una circolare della Banca d'Italia (circolare n. 285 del 2013, parte I, titolo IV, cap. III, sez. VIII, lett. g), in cui è previsto che «nel caso in cui il segnalante sia corresponsabile delle violazioni», gli istituti di credito devono garantire «un trattamento privilegiato per quest'ultimo rispetto agli altri corresponsabili, compatibilmente con la disciplina applicabile».

[33] Cass. ord. 31 marzo 2023, n. 9148, in Giur. it., 2023, 1883, con nota di S.M. CORSO, La protezione riservata a chi segnala violazioni nel contesto lavorativo non si applica alla segnalazione di illeciti propri.