Il concordato nella liquidazione giudiziale

07 Novembre 2023

Il focus analizza e confronta la “vecchia” disciplina del concordato fallimentare, prevista dagli artt. 124 e seguenti della Legge fallimentare, e quella del concordato nella nuova liquidazione giudiziale, disciplinata dai novellati artt. 240 e ss. del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza.

Il quadro normativo

Il concordato nella liquidazione giudiziale, istituto che ha sostituito il cd. concordato fallimentare, è regolato dalle norme contenute nel capo VII del titolo V del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza. Tale istituto si è radicato definitivamente nel d.lgs. n. 14/2019, alla luce delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 147/2020, dal d.l. n. 41/2021 convertito in l. n. 69/2021, dal d.l. n. 118/2021, dal d.lgs. n. 193/2021e dal d.lgs. n. 83/2022.

La proposta concordataria

L'attuale disciplina del concordato nella liquidazione giudiziale è contenuta negli artt. 240 e ss. CCII.

L'art. 240 CCII risulta in grande misura sovrascritto sull'art. 124 l. fall. Infatti, viene confermata la possibilità che la proposta di concordato possa essere formulata sia dai creditori che da terzi estranei alla procedura, anche prima del decreto di esecutività dello stato passivo, purché il curatore sia stato in condizione – sulla scorta delle scritture contabili dell'impresa – di redigere un elenco provvisorio dei creditori che abbia un grado di affidabilità idoneo a farlo approvare dal giudice delegato (il fatto che i terzi, oltre ai creditori, abbiano la possibilità di avanzare una proposta di concordato fallimentare costituisce una novità introdotta dal d.lgs. n. 5/2006, momento in cui tale istituto ha iniziato a rappresentare anche uno strumento d'investimento per i capitali di terzi, secondo criteri di stretta convenienza economica).

Il debitore, le società cui egli partecipi o le società sottoposte a comune controllo, invece, non possono presentare la proposta se non dopo un anno dall'apertura della procedura e non oltre due anni dal decreto di esecutività dello stato passivo, restando così confermata la medesima finestra temporale prevista dalla legge fallimentare per la proposta proveniente dal fallito.

Una rilevante novità è invece quella stabilita dall'art. 240, comma 1, terzo periodo del CCII, che, nel caso di proposta avanzata dal debitore – ovvero da società di cui il medesimo sia partecipe o che risulti sottoposta a comune controllo – pone una nuova condizione di ammissibilità, costituita dall'apportodi risorse che incrementino il valore dell'attivo di almeno il dieci per cento”.

Sul punto, preme segnalare che l'apporto di finanza esterna era imposto sia nell'art. 6, comma 1, lett. a), CCII che nell'art. 7, comma 10, lett. d), della legge delega n. 155/2017, rispettivamente, per il concordato preventivo di tipo liquidatorio e per quello fallimentare.

In merito, si puntualizza altresì che nella prima stesura del Codice della crisi – precisamente all'art. 84 – era stata prevista quale condizione di ammissibilità, solo per il concordato preventivo liquidatorio, una maggiore soddisfazione di ciascuno tra i creditori chirografari nella misura del 10 per cento. Condizione, tuttavia, che è stata estesa anche al concordato nella liquidazione giudiziale con il decreto di recepimento della direttiva UE n. 1023/2019, ovvero il d.lgs. n. 83/2022, il quale ha appunto previsto un incremento dell'attivo liquidabile nella misura del 10 per cento, calcolata esclusivamente sul patrimonio del debitore già disponibile.  

Sotto un profilo applicativo, in dottrina, si sono poste questioni interpretative sulle modalità di calcolo. In particolare, a fronte di questa formulazione, si è aperto un dubbio interpretativo molto serio: il legislatore ha inteso che vi fosse, rispetto alla liquidazione giudiziale, un incremento del dieci per cento delle risorse disponibili per i creditori chirografari (risorse che sono la base del loro soddisfacimento) o ha invece richiesto che la loro soddisfazione minima, rispetto alla liquidazione giudiziale, fosse assicurata in ragione del dieci per cento tramite finanza esterna?

La prima ipotesi proposta, che pare anche la più prudente e razionale, consente che il piano concordatario sia sostenuto con liquidità esterna di entità sufficientemente contenuta e cercando di fare aumentare i casi in cui quel sostegno viene apportato (passando dall'attuale 22% ad una percentuale maggiore).

Se la finanza esterna dovesse invece essere tale da assicurare almeno un dieci per cento minimo di soddisfazione per i creditori chirografari, si tratterebbe di un incremento drastico, che potrebbe anche raggiungere un ammontare di tre o quattro volte superiore a quello che si può attualmente riscontrare e assolutamente non in linea con le evidenze empiriche (P. Rinaldi, La finanza esterna nel concordato liquidatorio: incentivi e istruzioni per l'uso, in questo Portale, 2019). Pertanto, qualora al momento della presentazione della proposta da parte del debitore l'attivo sia stato integralmente realizzato dalla curatela nell'ambito della liquidazione concorsuale, non vi sono incertezze circa la base su cui determinare il 10% incrementativo. Essa coincide con le somme ricavate dalla dismissione dell'attivo patrimoniale. Laddove, al contrario, l'attivo non sia stato ancora integralmente realizzato, la base su cui applicare il 10%, in relazione agli assets non liquidati, dovrebbe coincidere con le valutazioni peritali predisposte dalla curatela nell'ambito delle operazioni inventariali ex art. 195 CCII e/o delle operazioni propedeutiche alla liquidazione, secondo quanto indicato nel programma di liquidazione ex art. 213 CCII (L. Gambi, Concordato nella liquidazione giudiziale (CCI), in questo Portale, 29 ottobre 2019).

Il comma 2 dell'art. 240 replica quanto previsto dall'art. 124, comma  2, l. fall., giacché la proposta può prevedere: la suddivisione dei creditori in classi, secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei; il trattamento differenziato fra creditori appartenenti a classi diverse, a condizione che siano indicate le ragioni dei diversi trattamenti; la ristrutturazione dei debiti e/o il soddisfacimento dei crediti attraverso qualsiasi forma, anche mediante cessione di beni, accollo ed altre operazioni straordinarie, ivi inclusa l'attribuzione ai creditori, nonché a società da questi partecipate, di azioni, quote ovvero obbligazioni, anche convertibili in azioni, altri strumenti finanziari e titoli di debito.

Nulla viene aggiunto relativamente alla facoltatività od obbligatorietà nella previsione delle classi, e va quindi richiamato il precedente giurisprudenziale per cui il tenore letterale della norma non lascerebbe spazi interpretativi diversi dalla piena discrezionalità da parte del proponente (Cass. civ., sez. I, 10 febbraio 2011, n. 3274). Pertanto, la formazione di classi di creditori è una mera facoltà della quale il proponente può anche non avvalersi. Diventa tuttavia obbligatoria allorché si propongano soddisfacimenti diversificati (I. Pacchi, Il contenuto della proposta di concordato fallimentare, in Pacchi (a cura di), il Concordato fallimentare, 89), ovvero nel caso in cui la società debitrice abbia emesso obbligazioni o strumenti finanziari oggetto della proposta o quando la proposta provenga da soggetto diverso dal debitore e si voglia ammetterlo al voto, ai sensi dell'art. 243, comma 6, CCII.

Relativamente invece alla determinazione della percentuale da offrire al ceto creditorio nulla dispone il Codice della crisi. La giurisprudenza della Suprema Corte ritiene tuttavia che la proposta debba esporre, in modo certo ovvero determinabile, la percentuale offerta ai creditori, non essendo ammissibili proposte indeterminate sotto il profilo del quantum offerto ovvero subordinate a condizioni potestative (Cass. civ., sez. I, 9 maggio 2007, n. 10634; L. Gambi, Concordato cit.,. 2019.).

Il Codice della crisi, così come la riformata legge fallimentare, nulla dispongono circa la revocabilità e la modificabilità della proposta di concordato. Tuttavia, già nel vigore della precedente normativa gli interpreti apparivano concordi nell'ammettere sia la revocabilità della proposta, sia la sua modificabilità. Nello specifico, vi erano non poche incertezze circa l'individuazione dei termini entro i quali tali facoltà potessero essere esercitate. Il termine ultimo per la revoca dipende dalla natura che si attribuisce all'istituto. Se si propende, secondo l'opinione prevalente, per la natura contrattualistica del concordato nella liquidazione giudiziale, la revoca può intervenire entro i termini di voto di cui all'art. 241 CCII; viceversa, se si propende per la natura pubblicistica, la revoca può intervenire prima del giudizio di omologazione. In relazione alla modificabilità della proposta concordataria, nulla quaestio sulla possibilità di procedere in tal senso. Quanto ai termini, valgono considerazioni analoghe a quelle formulate per la revocabilità. Bisogna però distinguere tra modificazioni in pejus (sostanzialmente equiparabili ad una revoca, anche in relazione al termine ultimo entro cui procedere) e modificazioni migliorative (ammissibili fino all'omologazione).

Preme infine segnalare che nel vigore della precedente disciplina, pur nel silenzio del legislatore, si è ritenuta ammissibile la figura del concordato per cessione dei beni ai creditori; tale figura è ora espressamente prevista dall'art. 240 CCII e consiste nella proposta di abbandono ai creditori dei beni acquisiti alla liquidazione giudiziale e si sostanzia in una datio in solutum la cui convenienza deve essere individuata nella possibilità dell'immediato realizzo delle attività all'infuori delle formalità e delle spese inerenti la procedura.

La procedura concordataria nella liquidazione giudiziale

L'art. 241 CCII replica il dettato dell'art. 125 l. fall., restando ferma la necessità di acquisire il parere favorevole del comitato dei creditori, come pure la previsione che, in caso di inerzia o impossibilità di funzionamento del comitato, il giudice delegato si sostituisce a detto organo. L'art. 241 non riproduce invece quanto previsto dall'art. 125, comma 4, l. fall. e prevede, per le società in liquidazione giudiziale che abbiano emesso, quando erano ancora in bonis, obbligazioni ovvero altri strumenti finanziari, che gli obbligazionisti vengano inseriti in una apposita classe. Nel “vecchio” concordato fallimentare, invece, l'art. 125, comma 4, l. fall. prevedeva soltanto la necessità di convocare le assemblee degli obbligazionisti, perché in seno alle stesse fosse espresso l'eventuale dissenso dalla maggioranza dei detentori di tali strumenti finanziari. Alla luce della novità introdotta, quindi, il curatore non è più tenuto a comunicare la proposta agli organi deputati alla convocazione delle assemblee “speciali” ai fini del voto.

Prima della riforma della legge fallimentare l'art. 241, comma 3, l. fall. prevedeva che in seguito alla proposta di concordato il giudice delegato potesse sospendere la liquidazione. Ora non si fa più alcun cenno a tale eventualità. Nel silenzio del legislatore non pare agevole trarre una conclusione univoca. Non ci sono infatti elementi a sostegno della tesi che la liquidazione debba sempre essere sospesa, in attesa dell'esito della valutazione di convenienza. Il silenzio del legislatore sembra piuttosto deporre a favore di una valutazione caso per caso, ancora una volta affidata agli organi della procedura. Tuttavia, in considerazione del diverso ruolo ad essi attribuito, è ragionevole ritenere che anche tale valutazione spetti non più al giudice delegato, bensì al curatore e al comitato dei creditori, al momento della redazione del parere sulla proposta. Sul piano applicativo è prevedibile che la questione si possa configurare in termini assai diversi in reazione alla data di presentazione della proposta di concordato. Se la stessa viene infatti presentata prima della data di deposito del decreto di esecutività dello stato passivo è assai probabile che la realizzazione del programma di liquidazione ex art. 213 CCII non abbia ancora avuto inizio. Altrimenti, si dovrà fare riferimento, caso per caso, allo stadio di realizzazione del programma di liquidazione. Va infatti tenuto presente lo stretto collegamento esistente tra la valutazione di convenienza della proposta ed i “presumibili risultati della liquidazione”, in virtù di quanto previsto dallo stesso art. 241 CCII.

Relativamente alla disciplina sull'esame della proposta concordataria ed alle comunicazioni ai creditori non vi sono novità da segnalare.

L'art. 242 CCII, il quale disciplina il concordato nel caso di numerosi creditori, si pone in piena continuità con il precedente art. 126 l. fall.

L'art. 243 CCII, sul voto nel concordato, che si è allineato all'art. 127 l. fall., presenta una importante novità, in particolare al comma 5, prevedendo espressamente che sono esclusi dal voto e dal computo delle maggioranze “i creditori in conflitto d'interessi”.

È vero che l’art. 244, comma 2, CCII conferma la regola tradizionale, ereditata dall’art. 128, secondo comma, l. fall., del silenzio assenso in relazione al voto dei creditori che non facciano pervenire la manifestazione della propria contrarietà al concordato nel termine fissato dal giudice delegato. Tuttavia, dopo il noto arresto delle Sezioni Unite della S.C. (Cass., sez. un., 28 giugno 2018, n. 17186), a tenore del quale nel concordato fallimentare, pur difettando una previsione di carattere generale sul conflitto di interessi, il divieto di voto – previsto solo in talune ipotesi codificate – va esteso anche a tutti gli altri casi, pure non espressamente disciplinati, in cui sussiste un contrasto tra l’interesse comune della massa e quello del singolo, come accade tra chi abbia formulato la proposta di concordato e i restanti creditori del fallito, oggi il Codice precisa espressamente – al comma 5 dell’art. 243 CCII – che sono esclusi dal voto e dal computo delle maggioranze «i creditori in conflitto d’interessi» (G. Fichera, Codice della Crisi d’impresa: il concordato nella liquidazione giudiziale, Altalex, 7 ottobre 2022).

Inoltre, sempre con riguardo alla figura del creditore che propone il concordato, o da società da questo controllate, alle società controllanti o sottoposte a comune controllo – soggetti, questi, che tipicamente si ritrovano in una posizione di conflitto di interessi – l'art. 243, comma 6, CCII prevede espressamente che tali soggetti siano ammessi al voto “se la proposta ne prevede l'inserimento in apposita classe”.

L'art. 244 CCII regola, senza novità, la fase dell'approvazione del concordato.

La disciplina del giudizio di omologa ed esecuzione del nuovo concordato nella liquidazione giudiziale, regolato dagli artt. 245,246 e 247 CCII, risulta in piena continuità con quanto previsto dai precedenti artt. 129,130 e 131 l. fall., dei quali costituiscono la trasposizione nel contesto della liquidazione giudiziale.

Anche il concordato nella liquidazione giudiziale termina con decreto motivato, con il quale il tribunale omologa il concordato oppure respinge la domanda del proponente.

Inoltre, ai sensi dell'art. 245, comma 5, CCII, il tribunale è chiamato a formulare un giudizio di convenienza della proposta di concordato, soltanto nel caso di opposizione da parte di un creditore che risulti appartenente ad una classe dissenziente.

Il decreto di omologa, poi, se non vi sono state opposizioni, ai sensi dell'art. 245, comma 4, CCII non è soggetto ad alcun gravame; mentre in caso di opposizione, che potrà essere avanzata, come per il concordato fallimentare, “anche da parte di qualunque altro interessato”, il provvedimento finale sarà soggetto a reclamo innanzi alla Corte d'appello, entro trenta giorni dalla sua notificazione a cura della cancelleria. Quest'ultima sarà chiamata a dover decidere anch'essa con decreto motivato, a sua volta ricorribile, sempre nel termine di trenta giorni dalla sua notificazione, avanti alla Corte di cassazione.

Quanto alla disciplina relativa agli effetti ed alla esecuzione del concordato rispetto ai creditori, essa è dettata dagli artt. 248 e 249 CCII, i quali rappresentano la trasposizione nella liquidazione giudiziale degli artt. 135 e 136 l. fall.

Pure in tema di risoluzione (che può essere chiesta non oltre l'anno decorrente dalla scadenza del termine previsto nella proposta per l'ultimo adempimento) o di  annullamento del concordato (che può invece essere chiesto nel termine di sei mesi dalla scoperta del dolo e, in ogni caso, non oltre due anni dalla scadenza del termine fissato in proposta per l'ultimo adempimento) non vi sono novità da segnalare.

In particolare, anche dopo la riforma del 2019, sia nel caso di risoluzione che di annullamento, la sentenza che riapre la liquidazione giudiziale, ai sensi dell’art. 237, comma 2, CCII deve richiamare nell’ufficio il giudice delegato e il curatore, nonché fissare il termine per il deposito delle domande di insinuazione al passivo, eventualmente abbreviandoli, come in passato, non oltre la metà (G. Fichera, Codice cit.,.).

In conclusione

In seguito all'analisi dell'attuale dettato normativo dell'istituto si nota che, nel suo complesso, la disciplina dettata dal CCII ricalca la struttura del concordato fallimentare regolato dalla legge fallimentare. Rimangono altresì immutati la natura e la finalità dell'istituto, che si conferma uno strumento di natura privatistica, finalizzato alla gestione di interessi dalla rilevanza pubblicistica, destinato ad essere utilizzato come alternativa di chiusura della liquidazione giudiziale, rispetto alle altre cause previste dall'art. 233 CCII.