Impugnativa di riconoscimento per difetto di veridicità tra favor veritatis e stabilità dello status filiationis
28 Novembre 2023
Massima Nell'azione, intrapresa da un terzo interessato, di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento di un figlio nato da genitori non uniti in matrimonio e già maggiorenne al momento dell'instaurazione del corrispondente giudizio ex art. 263 c.c., il bilanciamento che il giudice adito è tenuto ad effettuare tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto ed il favore per la verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata, né può implicare, ex se, il sacrificio dell'uno in nome dell'altro, ma impone di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, tra cui il diritto all'identità personale, correlato non solo alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali interni alla famiglia, al consolidamento della condizione identitaria acquisita per effetto del falso riconoscimento e all'idoneità dell'autore del riconoscimento allo svolgimento del ruolo di genitore. Il caso Due sorelle avevano promosso un'azione ex art. 263 c.c. volta all'impugnazione, per difetto di veridicità, della dichiarazione con la quale, nel lontano 1994, loro padre, aveva operato il riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio. Nel giudizio così instaurato, si costituì il figlio naturale, in proprio e quale esercente la potestà genitoriale sulla figlia minorenne, chiedendo il rigetto dell'avversa pretesa e proponendo, a sua volta, domanda riconvenzionale nei confronti delle attrici e del di loro padre, al fine di ottenerne, per l'ipotesi di accoglimento della richiesta di controparte, la condanna, in solido fra loro, al risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., anche nell'interesse della propria figlia. Disposta ed eseguita una c.t.u. immunoematologica, le risultanze della quale confermarono la totale incompatibilità genetica fra dichiarante e convenuto, e completata l'istruttoria orale, il Tribunale: accertò e dichiarò che non rispondeva al vero il riconoscimento effettuato dal padre delle attrici; ordinò al competente Ufficiale di Stato Civile di procedere all'annotazione della statuizione, dando atto dell'assunzione, da parte del convenuto, del cognome materno; dichiarò inammissibile la domanda diretta ad ottenere un indennizzo da atto lecito o abuso del diritto. Tale decisione trovava conferma anche in sede di gravame. Da qui, il ricorso in cassazione promosso dal figlio naturale in quanto, a suo dire, la corte distrettuale aveva completamente omesso il bilanciamento dei contrapposti interessi del favor veritatis, propugnato dalle donne e della stabilità del suo status filiationis, specie alla luce dell'evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale e di quella di legittimità. La questione Nel caso di impugnazione per difetto di veridicità del riconoscimento di un figlio nato da genitori non coniugati e già maggiorenne al momento del giudizio ex art. 263 c.c., alla luce dei diversi interessi coinvolti, che tipo di bilanciamento deve effettuare il giudice adito? Le soluzioni giuridiche La questione affrontata dalla pronuncia in esame impone una breve digressione circa l'evoluzione che ha subito nel tempo la norma di cui all'art. 263 c.c. In primo luogo, l'azione di impugnazione del riconoscimento ex art. 263 c.c., rientra nel quadro più ampio delle azioni di stato, ovvero di quelle istanze tipizzate volte ad ottenere una pronuncia che incida sullo status filiationis della persona (quali la dichiarazione giudiziale di genitorialità - nella filiazione fuori dal matrimonio - e le azioni di disconoscimento della paternità, di reclamo e di contestazione dello stato di figlio, in caso di filiazione matrimoniale). In passato, l'orientamento prevalente individuava un'automatica coincidenza tra favor veritatis e favor minoris o status filiationis, con la conseguenza che l'impugnazione in questione doveva ispirarsi “al principio di ordine superiore che ogni falsa apparenza di stato deve cadere” in quanto la falsità del riconoscimento ledeva il diritto del figlio, specie se minore, alla propria identità. Invero, la crescente considerazione del favor veritatis (agevolata dalle avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e delle indagini fortemente attendibili) non si poneva in conflitto con il favor minoris o la verità biologica della procreazione, ma costituiva una componente essenziale dell'interesse del medesimo minore, volta a garantire ad esso il diritto alla propria identità e, segnatamente, all'affermazione di un rapporto di filiazione veridico (cfr. Corte cost. sent. n. 112/1997). Successivamente, la riforma della filiazione, dovuta al d.lgs. n. 154/2013, oltre ad aver equiparato i figli naturali a quelli nati in costanza di matrimonio, ha attribuito al minore la facoltà (prima negata) di impugnare il riconoscimento ed ha parificato l'azione di disconoscimento (art. 244 c.c.) e quella di impugnazione del riconoscimento (art. 263 c.c.), tramite la previsione della imprescrittibilità, solo per il figlio, di entrambe le azioni. La nuova formulazione giuridica delle azioni di stato, dunque, pone l'accento sulla centralità del figlio, specie se minore, come soggetto di diritto, il cui interesse deve essere valutato tutelando la discendenza biologica e la connessa identità personale, il tutto nell'ottica della conservazione del rapporto familiare costituito, pur a discapito del favor veritatis (cfr., Cass. civ., n. 3252/2022). A ben vedere, quindi, la riforma intervenuta nel 2013, ha profondamente innovato la precedente disciplina, nell'ambito di una novella legislativa che, pur avendo mantenuto distinte le azioni di stato, si è incentrata nell'eliminare ogni discriminazione tra i figli, alla luce di quanto disposto dall'art. 30 Cost.: al precedente regime in materia di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, tutto improntato al favor veritatis, è subentrata, di fatto, una regolamentazione che ha notevolmente rafforzato l'esigenza di stabilità dello status filiationis e di tutela del figlio. A tale modifica normativa, poi, hanno fatto seguito alcuni interventi della Consulta, volti a precisare la necessaria sussistenza di uno spazio di bilanciamento in concreto fra gli interessi implicati, affidato alla valutazione giudiziale. In quest'ottica, dunque, l'art. 263 c.c. sottende l'esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti, in quanto la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi deve tenere conto di variabili molto più complesse rispetto alla rigida alternativa vero o falso (cfr. Corte cost., sent. n. 133/2021). Di fronte a tale azione, quindi, il giudice non deve procedere ad un mero accertamento della verità biologica, ma operare un bilanciamento in concreto tra gli interessi coinvolti, senza dimenticare, peraltro, che la norma in esame regola qualsivoglia ipotesi di impugnazione per difetto di veridicità, abbracciando tanto casi di riconoscimento effettuato nella consapevolezza della non paternità, quanto ipotesi in cui, come nella vicenda oggetto della presente nota, il consenso all'atto personalissimo si fondi sull'erronea supposizione del legame biologico. Di un tale bilanciamento, però, per la S.C. non vi era traccia alcuna nella pronuncia impugnata, la quale, dopo aver premesso che l'azione non era stata promossa dal dichiarante, ma da soggetti terzi diversi dall'autore del riconoscimento, con conseguente irrilevanza dello “stato di buona o mala fede di quest'ultimo”, ha sottolineato che lo stato soggettivo del dichiarante doveva considerarsi in ogni caso ininfluente e non utilmente invocabile, dal momento che l'art. 263 c.c., “conferisce rilevanza esclusivamente alla discrepanza tra dato formale e verità biologica”, così sostanzialmente basandosi sul solo criterio del favor veritatis. La sentenza impugnata, quindi, non avendo fatto buon governo dei principi appena ricordati, è stata cassata sul punto, affidando al giudice di rinvio il compito di procedere al nuovo esame della domanda ex art. 263 c.c., previo il bilanciamento dei diversi interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti. Osservazioni La pronuncia in esame si presenta interessante anche laddove la Suprema Corte ricorda che l'operatività del principio dell'interesse del minore in relazione all'azione di impugnazione del riconoscimento deve essere riletta, in senso ampliativo, in considerazione del tenore assunto dall'art. 263 c.c., per ciò che riguarda i termini per proporre la suddetta azione. In particolare, al terzo comma della disposizione de qua, è previsto che l'azione di impugnazione promossa dall'autore del riconoscimento debba essere proposta nel termine di un anno, il quale decorre dal giorno dell'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita (la recente Corte cost., sent. n. 133/2021, peraltro, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tale comma nella parte in cui non prevede che, per l'autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l'azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità) e, al quarto comma, che l'azione non può essere promossa dai legittimati diversi dall'autore del riconoscimento (o dalla madre) oltre cinque anni dall'annotazione del riconoscimento. Ne consegue, in conclusione, che i termini di decadenza appena ricordati hanno come obiettivo quello di preservare la stabilità dello stato di filiazione, ancorché non veridico, goduto dal figlio per un certo periodo di tempo, nel tentativo di bilanciare, da una parte, la stabilità del rapporto di filiazione acquisito col riconoscimento e, dall'altra, l'interesse a far emergere la verità biologica della filiazione. |