Trust, negozio fiduciario, profili penali: sintesi del convegno di Roma

30 Novembre 2023

Pubblichiamo l'ultimo focus, a firma della Dott.ssa Anna Iberati, dedicato al convegno di Roma sul trust (12 e 13 ottobre 2023): gli argomenti affrontati riguardano, da un lato, il rapporto tra trust, negozio fiduciario e contratto di affidamento fiduciario e, dall'altro, i profili di violazione da parte del trust della legge penale.

Per una panoramica degli argomenti trattati al Convegno di Roma, è possibile consultare qui il primo focus, pubblicato il 2 novembre 2023, qui il secondo del 9 novembre 2023 e qui il terzo del 17 novembre 2023.

Trust e negozio fiduciario

Nel confronto fra trust e negozio fiduciario viene subito in rilievo l'affinità linguistica tra i due istituti: la parola “trust”, infatti, significa proprio “fiducia”.

Essi hanno inoltre una matrice comune nella fiducia romanistica.

Nonostante queste premesse, tuttavia, trust e negozio fiduciario si caratterizzano per far fronte a bisogni molto differenti fra loro. Più precisamente:

  • la fiducia risponde ad esigenze contingenti e ad un interesse proprio del disponente;
  • il trust, invece, secondo alcuni, può disporsi anche senza limiti di tempo ed è mirato al soddisfacimento dell'interesse di un terzo beneficiario.

Altra differenza rilevante è riscontrabile nella segretezza che caratterizza la fiducia (Cass. SU 6 marzo 2020 n. 6459), dovuta a svariati motivi, a detta del relatore. Innanzitutto, vi è chi ricorre all'istituto della fiducia per occultare finalità non del tutto lecite, come può accadere nella fiducia cum creditore. Inoltre, si osserva che tendenzialmente dottrina e giurisprudenza nutrono sfiducia nei confronti dell'istituto, a causa delle problematiche che esso pone, come l'ammissibilità di una proprietà temporanea, la derogabilità del principio del numerus clausus dei diritti reali e l'astrattezza del negozio fiduciario. Anche per questa ragione, dunque, osserva il relatore, si potrebbe essere spinti a non dare evidenza al negozio fiduciario.

Bisogna poi notare che l'esigenza di segregazione patrimoniale cui risponde il trust non è tendenzialmente soddisfatta dalla fiducia, che è un istituto connotato da necessaria temporaneità e che si affida, come dice la parola stessa, alla fiducia riposta nella persona del fiduciario, il quale potrebbe sempre tradire le aspettative.

Oltre alla fiducia, anche il vincolo di destinazione di cui all'art. 2645-ter c.c. è inidoneo ad assicurare una segregazione durevole: il termine di durata massimo previsto è infatti di novant'anni. La paura che l'ordinamento vuole scongiurare è quella di un vincolo perpetuo che comporti una compressione eccessiva nel godimento e nella circolazione dei beni. Infatti, se è vero che il bene sottoposto a vincolo di destinazione può tendenzialmente circolare, è pur vero che lo stesso è poco appetibile, proprio a causa del vincolo stesso.

Il trust, dal canto suo, rispetto al nostro ordinamento, presenta il grosso problema del contrasto con il principio della durata massima dei vincoli di alienazione, di cui all'art. 1379 c.c.: vi è incompatibilità, per il nostro ordinamento, fra segregazione sine die e necessaria temporaneità dei vincoli di natura obbligatoria.

Il quesito su cui riflettere è dunque se si possa ammettere nel nostro ordinamento un vincolo segregativo, come quello del trust, senza termine.

Nel nostro ordinamento solo la fondazione è in grado di realizzare questa segregazione patrimoniale stabile e senza limiti di tempo, ma è una persona giuridica, un soggetto di diritto autonomo e distinto dalla persona del fondatore.

Dal trust al contratto di affidamento fiduciario

In un'ottica di metabolizzazione del trust (a tal proposito si veda quanto esaminato nel primo focus pubblicato qui in data 2 novembre 2023), un relatore osserva come questo risultato possa essere raggiunto in due modi:

  1. mediante l'utilizzo dell'istituto previsto dalla Convenzione dell'Aja, così come mutuato dalla nostra dottrina, che ha dato luogo al c.d. trust amorfo o domestico. Il grande problema di questa tecnica di recepimento è l'imprescindibile riferimento ad una legge regolatrice straniera. Inoltre, il trust nasce in ordinamenti di equity, in cui sfugge il concetto di causa. Il rischio di questa tecnica, quindi, è il fallimento del tentativo di conciliare questo istituto con i principi fondamentali del nostro ordinamento e l'utilizzo del trust come strumento fraudolento, in quanto privo di causa;
  2. mediante l'utilizzo di uno strumento contrattuale interno, che porti in seno i tracciati modulari del trust, senza bisogno di rinviare ad una legge straniera. La proposta sarebbe quella di costruire un contratto che diventi tipizzato e dunque che consenta di non fare più ricorso al disposto dell'art. 1322 c. 2 c.c., che recepisca nel suo cuore un programma autonomamente funzionante, senza bisogno di ricorso all'autorità giudiziaria e che quindi abbia già al suo interno i dovuti strumenti di risoluzione dei problemi.

Ecco allora che la dottrina, ispirandosi a questa seconda proposta, si è molto interrogata sulla possibilità di utilizzare uno strumento di diritto interno per rispondere ai bisogni che hanno destato l'attenzione per l'istituto del trust.

La domanda di partenza è la seguente: può raggiungersi, in via contrattuale, l'assetto che realizza il trust?

La risposta sembra essere positiva. A questo punto ci si chiede quale possa essere lo strumento migliore a questo fine.

Abbiamo già esaminato nel precedente paragrafo l'inidoneità di istituti come il negozio fiduciario ed il vincolo di destinazione: il primo perché si basa sulla fiducia nel fiduciario e perché non attua una vera e propria segregazione patrimoniale, il secondo perché è temporaneo e non è incompatibile con la circolazione dei beni vincolati.

Viene quindi preso in considerazione dalla dottrina il contratto di affidamento fiduciario. Questo contratto, pur se nominato, non è tipizzato.

L'art. 1 c. 3 L. 112/2016, c.d. Dopo di noi, lo cita accanto al trust ed al vincolo di destinazione, con una formulazione che pare addirittura suggerire il suo utilizzo come strumento per porre in essere un trust od un vincolo di destinazione. Questa norma, tuttavia, dopo aver enunciato l'istituto, non lo disciplina.

L'art. 6 L. 112/2016, poi, non viene in soccorso a questi fini, dal momento che ne tratta solo il profilo fiscale.

L'auspicio, dunque, è di sviluppare questa figura contrattuale nei termini di cui al precedente punto 2), in modo da ottenere, al pari del trust, una standardizzazione che abbatta i costi transattivi della negoziazione e quindi un contratto tipico e disciplinato normativamente, che recepisca un programma e che appresti al suo interno tutti gli strumenti necessari per la sua realizzazione, senza ricorso al giudice né ad una legge regolatrice straniera.

Trust e diritto penale - In particolare: il reato di appropriazione indebita

Quali sono i possibili profili di violazione da parte del trust della legge penale?

Si osserva come il trust possa astrattamente essere uno strumento con cui commettere alcune fattispecie di reato, come l'appropriazione indebita da parte del trustee, la sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, il trasferimento fraudolento di valori, il riciclaggio, la ricettazione.

Si specifica che il trust non deve essere ritenuto di per sé illecito, ma che è compito del giudice penale indagarne di volta in volta la causa in concreto.

A tal proposito viene in rilievo la nozione di “trust sham”, ossia di un trust caratterizzato dalla divergenza fra l'intento dichiarato ed il fine effettivamente voluto e perseguito dalle parti.

Vengono citate diverse sentenze che affermano l'importanza dell'indagine in concreto da parte del giudice e dell'effettiva perdita di disponibilità dei beni da parte del disponente, per ottenere l'effetto segregativo voluto e per fugare i sospetti di illegittimità del trust. Se infatti il disponente non perde la disponibilità dei beni è probabile che ricorra la figura del trust sham, apparente e quindi elusivo (Cass. 7 novembre 2017 n. 20862, Cass. 27 febbraio 2014 n. 21621, Cass. 24 gennaio 2011 n. 13276, Cass. pen. 23 novembre 2004 n. 48708).

Fra le varie figure di reato viene in particolare analizzata la possibilità o meno di configurazione del reato di appropriazione indebita, in riferimento alla persona del trustee.

La risposta a questo dubbio ruota attorno a due parole chiave contenute nell'art. 646 c.p.: “cosa mobile” e “possesso”.

Viene osservato che alcuni istituti giuridici hanno nozioni diverse fra ambito civilistico e penalistico e ciò crea problemi di certezza del diritto e di chiarezza nell'applicazione della sanzione penale.

In particolare, per il tema oggetto della nostra trattazione, tanto la nozione di “cosa mobile” quanto quella di “possesso” differiscono tra ambito civilistico e penalistico.

In ambito penalistico la nozione di “cosa mobile” è più circoscritta di quella delineata dal diritto civile. Infatti, fuoriescono da tale nozione i beni mobili c.d. immateriali, come ad esempio le quote di partecipazione societarie.

Anche la nozione penalistica dipossesso” si discosta da quella propria del diritto civile: essa è più ampia e si sovrappone a quella di “detenzione”, che invece nel diritto civile è uno stato di fatto ben differente, al quale vengono riconnesse conseguenze giuridiche diverse rispetto a quelle che seguono all'inquadramento di una situazione di fatto come “possesso”.

Relativamente al trust si pone anche il problema di definire il regime proprietario di cui è titolare il trustee: si tratta, infatti, di una disponibilità di beni altrui o comunque per un fine altrui.

In definitiva, si conclude per la configurabilità del reato di appropriazione indebita, con esclusione tuttavia del trust avente ad oggetto, oltre che beni immobili, anche beni mobili immateriali.

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