Intercettazioni senza autorizzazione del Senato
05 Gennaio 2024
La decisione Nell'ambito del giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato – promosso dal Senato della Repubblica a seguito dell'acquisizione e dell'utilizzo di intercettazioni telefoniche del senatore Stefano Esposito da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Torino, nonché del Giudice per le indagini preliminari e del Giudice dell'udienza preliminare presso il medesimo Tribunale – la Corte costituzionale (con la sentenza n. 227/2023) ha stabilito che non spettava alle autorità procedenti «disporre, effettuare e utilizzare le intercettazioni che hanno coinvolto Stefano Esposito, nel periodo in cui questi ricopriva l'incarico di senatore della Repubblica, nell'ambito dei procedimenti penali confluiti in quello iscritto al n. 24047/2015 R.G.N.R., e acquisire quali elementi di prova i messaggi WhatsApp scambiati tra il senatore Esposito e G. M., prelevati il 19 marzo 2018 tramite copia forense dei dati contenuti nello smartphone in uso a quest'ultimo nell'ambito del procedimento penale n. 85108/2014 R.G.N.R., in violazione dell'art. 4 (per le intercettazioni effettuate dal 3 agosto 2015 al 22 marzo 2018 e per l'acquisizione dei messaggi WhatsApp) e dell'art. 6 (per le intercettazioni antecedenti al 3 agosto 2015) della legge n. 140 del 2003». Di conseguenza, la Corte ha annullato, limitatamente alla posizione di Stefano Esposito, tanto la richiesta di rinvio a giudizio formulata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino, quanto il decreto che dispone il giudizio, adottato dal Giudice dell'udienza preliminare. Le questioni preliminari Le argomentazioni formulate dalla Corte costituzionale muovono da una puntuale ricostruzione della vicenda giudiziaria per risalire al quadro normativo di riferimento e alle distinte tipologie di attività captative attuabili, anche alla luce delle precedenti elaborazioni giurisprudenziali prodotte sulla tematica oggetto del conflitto. In via preliminare, la Corte è intervenuta su alcune questioni di carattere processuale. Da un lato, pur ribadendo che nei giudizi per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, di regola, non è ammesso l'intervento di soggetti diversi da quelli legittimati a promuovere il conflitto e a resistervi, la Corte ha evidenziato l'inoperatività della stessa qualora l'interveniente, come nel caso di specie, sia parte di un giudizio, i cui esiti o i cui effetti la pronuncia in sede di conflitto sia in grado di condizionare (sentenze n. 157/2023, n. 259/2019, n. 169/2018 e n. 107/2015). Dall'altro, la Corte si è pronunciata sul possibile venir meno dello stesso conflitto a seguito della decisione con la quale la Corte di cassazione ha dichiarato la competenza territoriale del Tribunale di Roma, in luogo di quello di Torino, in relazione ad alcuni capi di imputazione per i quali è chiamato a rispondere lo stesso Esposito. Secondo la Corte, il perdurante interesse alla soluzione del conflitto è confermato dalla constatazione che la devoluzione della competenza ad altro giudice, e la connessa, eventuale, regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari, non sono state dichiarate «per motivi che attengono alle attribuzioni rivendicate con il conflitto» (sentenza n. 170/2023), rinvenendo la loro ragione giustificativa unicamente in aspetti endoprocessuali legati allo svolgimento delle indagini e della fase antecedente al dibattimento. La Corte ha pure superato un'altra questione originata dalla non perfetta identificazione tra i motivi di ricorso, incentrato sulla qualificazione delle intercettazioni in questione come “indirette” e sulla connessa violazione del regime autorizzatorio contenuto nell'art. 4 della legge n. 140 del 2003, e quanto risultante negli atti parlamentari con cui il Senato della Repubblica ha deliberato la sollevazione del conflitto. Per la Corte è sufficiente quanto rivendicato nel ricorso: l'aver privato il Senato del potere di effettuare il vaglio assicurato dall'art. 68, comma 3, Cost., sia pure nelle distinte forme introdotte dagli artt. 4 e 6 della legge n. 140 del 2003, a seconda che l'intercettazione sia indiretta o casuale, costituisce, in realtà, la vera e propria «anomalia decisionale e operativa» che il ricorrente ha individuato come sostanzialmente lesiva delle proprie attribuzioni, tenuto conto che il Senato rivendica che «il potere di valutare la fortuità o meno di captazioni su utenze di terzi spetti inequivocabilmente alla Camera competente». La garanzia costituzionale violata Il vulnus denunciato dal Senato attiene alla garanzia consacrata nell'art. 68, comma 3, Cost. A questo proposito, la Corte ha ricordato la propria interpretazione, secondo la quale la garanzia «non mira a tutelare un diritto individuale, ma a proteggere la libertà della funzione che il soggetto esercita, in conformità alla natura stessa delle immunità parlamentari, volte primariamente alla protezione dell'autonomia e dell'indipendenza decisionale delle Camere rispetto ad indebite invadenze di altri poteri, e solo strumentalmente destinate a riverberare i propri effetti a favore delle persone investite della funzione (sentenza n. 9/1970)» (sentenze n. 157/2023 e n. 38/2019; ordinanza n. 129/2020). Premesso che l'individuazione degli ambiti di applicazione dell'uno e dell'altro regime autorizzatorio in materia di intercettazioni discende dalla ratio di garanzia dell'art. 68, terzo comma, Cost., la Corte ha ribadito che l'autorizzazione preventiva va richiesta «non solo se l'atto d'indagine sia disposto direttamente nei confronti di utenze intestate al parlamentare o nella sua disponibilità (intercettazioni cosiddette “dirette”), ma anche tutte le volte in cui la captazione si riferisca a utenze di interlocutori abituali del parlamentare, o sia effettuata in luoghi presumibilmente da questo frequentati, al precipuo scopo di conoscere il contenuto delle conversazioni e delle comunicazioni del parlamentare stesso. Ai fini della richiesta preventiva dell'autorizzazione, ciò che conta, in altre parole, non è la titolarità dell'utenza o del luogo, ma la direzione dell'atto d'indagine (sentenza n. 390/2007)» (sentenza n. 38/2019). La Corte non ha mancato di evidenziare la peculiarità della vicenda giudiziaria, «consistente nell'anomala effettuazione e acquisizione agli atti del procedimento di un numero assai cospicuo di intercettazioni che vedono coinvolto un parlamentare in carica, nel corso di un'attività di indagine che si è dispiegata, nell'ambito di una pluralità di procedimenti tra loro variamente collegati, per più anni, senza che sia stata richiesta alcuna autorizzazione». Dall'esame della complessa e articolata attività di indagine dell'autorità giudiziaria resistente, la Corte ha dedotto senza alcun dubbio come «l'attività di intercettazione che ha coinvolto l'allora senatore Esposito fosse univocamente diretta a captare le sue comunicazioni, quanto meno a far data dall'informativa di polizia giudiziaria del 3 agosto 2015». È proprio la Corte ad evidenziare le strategie investigative attivate dalla Procura procedente: la volontà di verificare la sussistenza di indizi di reità a carico del parlamentare attraverso la captazione delle conversazioni sull'utenza intestata al principale indagato risulta sostanzialmente ammessa nell'atto di costituzione a seguito del ricorso proposto dal Senato, ove si afferma che dovrebbero essere sottoposte ad autorizzazione preventiva solo le intercettazioni direttamente volte a captare le conversazioni del parlamentare, «ma giammai quelle attività che, senza accedere indebitamente “nella sfera delle comunicazioni del parlamentare”, sono comunque dirette ad accertare (anche) le eventuali responsabilità del parlamentare». Identico vulnus è stato ravvisato in merito alle all'acquisizione delle comunicazioni via WhatsApp, tra l'altro in un momento in cui erano noti alle autorità inquirenti sia l'abitualità dei rapporti tra il parlamentare con l'indagato, sia, soprattutto, il pieno coinvolgimento del primo nelle indagini. *Fonte: DirittoeGiustizia |