Diritto all’aborto: il divieto d’IVG per anomalie fetali costituisce un’ingerenza nell'esercizio del diritto della donna alla vita privata e familiare ex art. 8 CEDU

La Redazione
10 Gennaio 2024

Con sentenza del 14 dicembre 2023 (n. 40119/21), la Corte EDU ha ritenuto sussistente la violazione del diritto di una donna alla vita privata e familiare da parte di un tribunale polacco, essendole stato vietato l'accesso a un aborto legale fondato sull'esistenza di anomalie fetali, dopo l'entrata in vigore della riforma legislativa successiva ad una sentenza emessa dalla Corte costituzionale polacca nel 2020. Per la Corte, tale riforma, che ha costretto la ricorrente a recarsi all'estero per abortire, ha avuto su di essa importanti conseguenze psicologiche costituendo un' ingerenza nell'esercizio dei suoi diritti, e più in particolare in un intervento medico per il quale l'interessata soddisfaceva le condizioni richieste e la cui attuazione era già avviata, generando una situazione che l'ha privata delle adeguate garanzie contro l'arbitrarietà. Invero, tale ingerenza non è stata effettuata da un organo compatibile con le esigenze  di preminenza del diritto. Inoltre, la formazione della Corte costituzionale che ha pronunciato la sentenza che ha gravato sui diritti della ricorrente si componeva di giudici che erano stati nominati nell'ambito di un precedente procedimento viziato da gravi irregolarità.

Nella sua istanza alla CEDU, la ricorrente affermava che nel 2020 si era sottoposta a degli esami che, a circa 14 settimane di gravidanza, avevano rivelato che il suo feto era affetto dalla sindrome di Down, condizione cromosomica che comporta diversi problemi congeniti e legati all' apprendimento.

Il medico curante informò la ricorrente che, tenuto conto delle modifiche apportate al diritto interno, non poteva più abortire né all'ospedale di Varsavia né in un altro istituto medico in Polonia. L'aborto programmato della ricorrente era stato pertanto annullato, dovendo la stessa recarsi nei Paesi Bassi dove subì un'interruzione di gravidanza in una clinica privata il 29 gennaio 2021.

Le condizioni che devono essere soddisfatte affinché un aborto possa essere praticato legalmente in Polonia sono enunciate nella legge sulla pianificazione familiare, la protezione del feto umano e le condizioni che consentono l'interruzione della gravidanza (Ustawa o planowaniu rodziny, ochronie płodu ludzkiego i warunkach dopuszczalności przerywania ciąży – « la legge del 1993 »).

Originariamente, la legge del 1993 prevedeva tre situazioni in cui un aborto poteva essere praticato legalmente: quando la gravidanza metteva in pericolo la vita o la salute della madre, quando esisteva un elevato rischio di anomalie fetali o quando vi era motivo di ritenere che la gravidanza fosse il risultato di uno stupro o di un incesto. Nel 1997 la legge fu modificata per consentire l'aborto per ragioni legate a condizioni di vita o situazioni personali difficili.

Tuttavia, poco dopo, la Corte costituzionale rese una sentenza in cui dichiarava questa modifica incompatibile con la Costituzione.

Tale situazione è rimasta invariata fino a una sentenza della Corte costituzionale del 22 ottobre 2020, a seguito di una richiesta presentata da 104 parlamentari.

In particolare, la Corte costituzionale ha stabilito, con sentenza con effetto a partire dal 27 gennaio 2021, che gli articoli 4a(1)2 e 4a (2) della legge del 1993, relativi all'aborto legale a causa di anomalie fetali, erano incompatibili con la Costituzione, stabilendo un divieto quasi totale di aborto.

La Corte EDU, pronunciandosi sul ricorso, ha stabilito che le censure della ricorrente dovessero essere esaminate unicamente sotto il profilo degli artt. 3 e 8 della Convenzione.

A maggioranza, essa dichiara irricevibile la censura basata sull'art. 3 CEDU. Pur riconoscendo che la ricorrente ha sofferto sofferenze morali e psichiche, constata che la soglia di gravità richiesta per far rientrare la sua censura nel campo di applicazione dell'art. 3 non è stata raggiunta.

I giudici di Strasburgo ritengono tuttavia che il divieto in Polonia dell'aborto a causa di anomalie fetali, quando tale intervento è richiesto per ragioni di salute e di benessere, rientri nel diritto dell'interessata al rispetto della sua vita privata, dichiarando ricevibile la censura relativa all'art. 8 CEDU. Essa ritiene che tale divieto si configuri come un'ingerenza nell'esercizio da parte della ricorrente del suo diritto al rispetto della vita privata. La sentenza della Corte costituzionale ha infatti comportato l'annullamento dell'appuntamento che l'ospedale aveva fissato alla ricorrente, la quale si è ritrovata quasi istantaneamente senza altra possibilità se non quella di recarsi all'estero per abortire.

La Corte ricorda che l'insieme della Convenzione europea si ispira al principio di preminenza del diritto. Pertanto, un'ingerenza nell'esercizio dei diritti garantiti dall'art. 8 deve provenire da un organo «legale», senza il quale essa è priva della legittimità richiesta in una società democratica.

Orbene, la Corte constata che la formazione della Corte costituzionale che ha pronunciato la sentenza che ha inciso sui diritti della ricorrente comprendeva dei giudici che erano stati nominati nell'ambito di un procedimento che essa ha giudicato contrario alla Convenzione, nel 2012, dove aveva ritenuto che la procedura di elezione dei giudici della Corte costituzionale fosse stata inficiata da gravi irregolarità.

Così, nel dicembre 2015, il presidente della Polonia aveva rifiutato il giuramento di tre giudici che erano stati legalmente eletti alla Corte costituzionale dall'ex Dieta (il Sejm, cioè la camera bassa del Parlamento). La nuova Dieta aveva poi eletto tre nuovi giudici a dei posti che erano già assegnati. Uno di questi nuovi giudici e i sostituti degli altri due (nel frattempo deceduti) facevano parte della formazione della Corte costituzionale che, nella sua sentenza del 2020, aveva dichiarato che le disposizioni relative all'aborto legale a causa di anomalie fetali erano incompatibili con la Costituzione.

Pertanto, la Corte conclude che l'ingerenza nell'esercizio da parte della ricorrente dei suoi diritti non era legittima ai sensi dell'art. 8 della Convenzione in quanto non è stata effettuata da un organo compatibile con le esigenze preminenza del diritto.

Inoltre, la sentenza della Corte costituzionale si configura come un'ingerenza nell'intervento per il quale la ricorrente soddisfaceva le condizioni richieste e la cui attuazione era già avviata, creando così una situazione che ha privato l'interessata di adeguate garanzie contro l'arbitrarietà.

In conclusione, l'ingerenza nell'esercizio dei diritti della ricorrente non era «prevista dalla legge» e, pertanto, vi è stata violazione dell'art. 8 CEDU.

Nella medesima data, la Corte EDU ha dichiarato irricevibile, all'unanimità, una causa riguardante 927 donne in età riproduttiva che si dichiaravano potenziali vittime di una violazione dei loro diritti in quanto la riforma legislativa in questione le obbligava a portare a termine una gravidanza anche in caso di anomalie fetali.

Come nella sentenza di principio, la Corte constata che tali ricorrenti non hanno fornito alcun elemento che potesse dimostrare un rischio reale di essere direttamente colpite dalla riforma legislativa. Esse non possono quindi pretendere in modo difendibile la qualità di «vittima» ai sensi della Convenzione europea.