Il divieto del velo islamico nei luoghi pubblici. La sentenza della Grande Sezione

19 Gennaio 2024

La Corte di giustizia torna ad occuparsi del velo islamico in una fattispecie nella quale il divieto proviene da un Comune. La sentenza si pone in linea di continuità con i suoi precedenti resi nel settore privato. Restano, però, aperte una serie di questioni che la sentenza non ha ritenuto di approfondire.

The Court of Justice once again examined the issue of the Islamic headscarf in a case in which the ban comes from a municipality. The ruling stands in continuity with its precedents rendered in the private sector. There are, however, a number of open questions that the ruling did not see fit to explore.

Premessa

La questione oggetto della recente sentenza della Corte di giustizia del 28 novembre 2023 C-148/22 è molto delicata in quanto richiede alla Corte di conciliare il diritto fondamentale alla libertà di religione con altre libertà e principi, quali la libertà d'impresa, i principi di laicità, neutralità e imparzialità e la protezione dei diritti e delle libertà altrui.

La particolarità della fattispecie consiste nel fatto che il divieto di indossare segni religiosi sul luogo di lavoro non proviene da un datore di lavoro privato, ma da un datore di lavoro pubblico.

Prima di tutto, il caso.

L'11 aprile 2016, O.P., giurista di formazione, è stata assunta con un contratto a tempo determinato dal Comune di Ans (Belgio) come agente a contratto. L'11 ottobre successivo è stata promossa alla posizione di responsabile dell'ufficio e il suo contratto è stato convertito in un contratto a tempo indeterminato. Il suo compito era quello di gestire gli appalti pubblici del Comune.

L'8 febbraio 2021, O.P., che è di fede musulmana, ha comunicato ufficialmente al Comune la sua intenzione di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro a partire dal 22 febbraio successivo.

Il 18 febbraio 2021, il Comune ha adottato una prima decisione che vietava a O.P. di indossare «segni di convinzioni personali» nell'esercizio della sua attività professionale «sino all'adozione di

un regolamento generale sull'uso dei segni di convinzioni personali all'interno dell'amministrazione».

Il 26 febbraio 2021, dopo aver sentito O.P., assistita dal suo consulente, il Comune ha adottato una seconda decisione, che sostituisce la prima e conferma il divieto in essa contenuto.

Il 29 marzo 2021, il Comune ha modificato l'art. 9 del suo regolamento di lavoro.

Nella sua nuova versione prevede, in particolare, quanto segue:

«Il lavoratore ha libertà di espressione nel rispetto del principio di neutralità, del proprio obbligo di riservatezza e del proprio dovere di lealtà.

Il lavoratore è tenuto a rispettare il principio di neutralità, il che implica il dovere di astenersi da qualsiasi forma di proselitismo e il divieto di esibire qualsiasi segno vistoso che possa rivelare la sua

appartenenza ideologica o filosofica o le sue convinzioni politiche o religiose. Tale regola si applica al lavoratore sia nell'ambito dei suoi contatti con il pubblico sia nei suoi rapporti con i suoi superiori e i suoi colleghi. [...]».

Successivamente, O.P. ha avviato diversi procedimenti dinanzi ai giudici nazionali, in particolare al fine di far constatare la violazione della sua libertà di religione da parte del Comune e per ottenere la sospensione e l'annullamento delle decisioni di quest'ultimo del 18 e del 26 febbraio 2021.

Il 26 maggio 2021, O.P. ha adito il Tribunale del lavoro di Liegi con un'azione inibitoria, chiedendo, in particolare, di constatare l'esistenza di una discriminazione nei suoi confronti fondata sulla religione e sul genere e la nullità delle decisioni del Comune del 18 e del 26 febbraio 2021.

Il giudice belga ipotizza che il divieto imposto a O.P. integri una «discriminazione diretta». Infatti, secondo tale giudice, sebbene si possa ammettere che esisteva una regola non scritta all'interno dell'amministrazione comunale che vietava di indossare qualsiasi segno «molto vistoso, se non addirittura ostentativo» di convinzioni personali, come il velo islamico, da diverse fotografie prodotte da O.P. risulta che l'uso di segni discreti di convinzioni personali era tollerato. Tale distinzione diretta non risulterebbe giustificata da requisiti professionali essenziali e determinanti, dal momento che O.P. esercita prevalentemente le sue funzioni senza essere a contatto con gli utenti del servizio pubblico. Né essa sarebbe oggettivamente giustificata da una finalità legittima i cui mezzi di attuazione sarebbero appropriati e necessari.

Il giudice belga ritiene, peraltro, che la disposizione impugnata ha una «portata collettiva», relativa a qualsiasi segno vistoso di convinzioni personali e che, adottandola, il Comune ha scelto la «neutralità esclusiva».

Il giudice ritiene che, ove non si configuri una discriminazione diretta, la disposizione comunale integri una discriminazione indiretta fondata su tali criteri, osservando in particolare che – a meno che non si reputi che «la neutralità esclusiva sia un principio fondamentale e incontestabile dello Stato di diritto [in Belgio] e debba essere rigorosamente rispettata da tutti» – la distinzione operata non sembra essere giustificata da una finalità legittima, dal momento che O.P. svolge principalmente le sue funzioni senza essere in contatto con gli utenti del servizio pubblico. Inoltre, sembrerebbe che il Comune pratichi una neutralità «a geometria variabile», ossia esclusiva nei confronti di O.P. e più inclusiva nei confronti dei suoi colleghi con altre convinzioni filosofiche o religiose. Di conseguenza, il giudice belga ha autorizzato provvisoriamente O.P. a indossare un segno visibile di convinzioni personali, tranne quando è a contatto con gli utenti del servizio pubblico o quando esercita funzioni di autorità.

In questo contesto, il giudice belga chiede se l'imposizione di una neutralità «esclusiva e assoluta» a tutti i dipendenti di un servizio pubblico, inclusi coloro che non hanno un contatto diretto con gli utenti del servizio pubblico, costituisca una finalità legittima e se i mezzi impiegati per il suo conseguimento, ossia il divieto di indossare qualsiasi segno di convinzioni personali, siano appropriati e necessari.

In tale contesto, il Tribunale del lavoro di Liegi ha sollevato le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se l'articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della Direttiva [2000/78/CE] possa essere interpretato nel senso che autorizza una pubblica amministrazione a organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro e a vietare pertanto a tutti i membri del personale, a prescindere dal fatto che siano o meno a diretto contatto con il pubblico, di indossare segni di convinzioni personali.

2) Se l'articolo 2, paragrafo 2, lettere a) e b), della Direttiva [2000/78/CE] possa essere interpretato nel senso che autorizza una pubblica amministrazione a organizzare un ambiente amministrativo totalmente neutro e a vietare pertanto a tutti i membri del personale, a prescindere dal fatto che siano o meno a diretto contatto con il pubblico, di indossare segni di convinzioni personali, benché tale divieto neutro sembri colpire in maggioranza le donne, potendo dunque costituire una discriminazione dissimulata fondata sul genere» [1].

Uno sguardo sui precedenti

Le questioni oggetto della causa C-148/22 si pongono sul solco delle sentenze C-344/20 [2] (decise il 13 ottobre 2022), WABE (cause riunite C-804/18 e C-341/19) [3] e delle due sentenze del 2017 G4S Secure Solutions e Bougnaoui e ADDH [4].

Le sentenze del 2017 si riferiscono a fattispecie simili ma non identiche.

Le questioni possono essere sintetizzate in due domande:

a) se un datore di lavoro privato possa vietare ad una dipendente di fede musulmana di indossare un velo sul luogo di lavoro;

b) se il datore di lavoro possa licenziarla qualora la dipendente rifiuti di togliere il velo sul luogo di lavoro.

Chiamata a decidere se il divieto imposto dalle aziende costituisse un'illegittima discriminazione indiretta a danno delle fedeli mussulmane, ovvero, essendo giustificato dalla libertà d'impresa, potesse ritenersi una previsione legittima nell'ottica della direttiva antidiscriminatoria, la Corte ha ritenuto adeguato il «perseguimento, da parte del datore di lavoro, di una politica di neutralità politica, filosofica e religiosa nei rapporti con i clienti» idonea a fungere da finalità legittima per una restrizione della libertà religiosa delle dipendenti, in quanto tale intenzione rientra nell'ambito della libertà d'impresa.

La Corte di giustizia lascia al giudice del rinvio di valutare «che i mezzi impiegati per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari» [5].

Le questioni di questo tipo sono sempre più frequenti, anche in Italia.

Si ricorda, ad esempio, la sentenza della Corte d'Appello di Milano del 4 maggio 2016, che ha riformato la sentenza del Tribunale di Lodi del 3 luglio 2014 [6].

Le questioni pregiudiziali relative alla religione sono state, peraltro, oggetto di due importanti pronunce della Corte di Lussemburgo nel 2018 (CGUE 17 aprile 2018, C-414/16 e CGUE 11 settembre 2018, C-68/17). In un caso un ente religioso aveva rifiutato di prendere in considerazione la candidatura di una signora che nel suo curriculum aveva dichiarato di essere atea; nel secondo un ospedale cattolico aveva licenziato un primario di fede cattolica, sposato con rito religioso, che aveva divorziato e si era risposato con matrimonio civile. La Corte ha interpretato l'art. 4, par. 2, della Direttiva 2000/78/CE nel senso che nel caso di attività professionali di chiese o di altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, una differenza di trattamento basata su tali fattori non costituisce discriminazione laddove questi ultimi rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell'attività, tenuto conto dell'etica dell'organizzazione.

La Corte ha, altresì, affermato che, nel caso in cui la disparità di trattamento per motivi religiosi non possa essere giustificata in base a criteri posti dalla Direttiva 2000/78/CE, la tutela effettiva del divieto di ogni discriminazione fondata sulla religione o convinzione personale potrà comunque essere invocata direttamente dai singoli sulla base degli articoli 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che sanciscono, rispettivamente, il divieto di discriminazione per motivi religiosi e il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva, in quanto tali diritti sono idonei a produrre effetti diretti e non necessitano di essere precisati mediante disposizioni di diritto dell'Unione o del diritto nazionale [7].

La Corte di giustizia, nella sentenza Cresco Investigation (CGUE 22 gennaio 2019, C-193/17), si è, infine, occupata del trattamento ricevuto in Austria dagli appartenenti ad alcuni gruppi religiosi che godevano di un giorno di festività in più, anche retribuito in aggiunta, rispetto agli appartenenti ad altre fedi religiose o ai non credenti. La Corte di giustizia ha ritenuto che una normativa nazionale in virtù della quale il venerdì santo sia un giorno festivo solo per i lavoratori appartenenti a talune chiese cristiane e solo tali lavoratori abbiano diritto, se chiamati a lavorare in tale giorno festivo, ad un'indennità complementare alla retribuzione percepita per le prestazioni svolte in tale giorno, costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione, in quanto tale previsione non costituisce una misura necessaria alla preservazione dei diritti e delle libertà altrui, ai sensi dell'art. 2, par. 5, della direttiva, né una misura specifica destinata a compensare svantaggi correlati alla religione, ai sensi dell'art. 7, par. 1 [8].

la Corte di giustizia nella sentenza del 13 ottobre 2022 (C-344/20) non riprende soltanto (integrandole) le affermazioni contenute nei suoi precedenti.

In realtà, la sentenza va oltre.

Per un verso, fornisce importanti chiarimenti sull'ambito di applicazione della Direttiva 2000/78/CE (con un impatto potenzialmente rilevante sulla giurisprudenza, anche di legittimità italiana), affermando che i termini «religione» e «convinzioni personali» vanno trattati come due facce «dello stesso e unico motivo di discriminazione». Sotto questo aspetto si pone il problema se le affermazioni della Corte comportano un superamento dell'orientamento giurisprudenziale italiano, anche di legittimità, in tema di discriminazioni per ragioni sindacali [9].

Per altro verso, la Corte affronta il delicato tema del bilanciamento tra la libertà di religione e altri diritti fondamentali.

In questo contesto, la Corte si sforza di trovare un equilibrio tra un'interpretazione uniforme del principio di non discriminazione, nel contesto dell'applicazione della Direttiva 2000/78/CE e l'esigenza di lasciare un margine di discrezionalità agli Stati membri, tenuto conto della diversità del loro approccio al ruolo della religione in una società democratica.

In particolare, la controversia ha imposto un approfondito esame del potere discrezionale di cui dispongono gli Stati membri, ai sensi dell'art. 8 della Direttiva 2000/78/CE, di adottare disposizioni più favorevoli alla tutela del principio di parità di trattamento rispetto a quelle previste da tale direttiva, in particolare considerando la religione e le convinzioni religiose come un motivo autonomo di discriminazione [10].

La sentenza in oggetto si pone sul solco di queste sentenze, formulando alcune importanti precisazioni, considerato che il divieto di esibizione di simboli religiosi avviene nell'ambito di un Comune.

Sulla distinzione tra discriminazione diretta e indiretta

Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l'art. 2, par. 2, lett. a) e b), della Direttiva 2000/78/CE debba essere interpretato nel senso che una norma interna di un'amministrazione comunale che vieta, in maniera generale e indiscriminata, ai membri del personale di tale amministrazione di indossare in modo visibile , sul luogo di lavoro, qualsiasi segno che rilevi, in particolare, convinzioni filosofiche o religiose, possa essere giustificata dalla volontà di detta amministrazione di creare un ambiente amministrativamente totalmente neutro.

La Corte, preliminarmente, ribadisce due considerazioni.

In primo luogo, la questione rientra nell'ambito di applicazione della Direttiva 2000/78/CE. Per due ragioni. Da un lato, come risulta dal suo art. 3, par. 1, tale direttiva si applica sia al settore pubblico che al settore privato. Dall'altro lato, perché una norma che vieta di portare segni visibili di convinzioni segnatamente filosofiche o religiose, nell'ambito dell'attività lavorativa dev'essere considerata come rientrante nell'ambito dell'«occupazione e [delle] condizioni di lavoro» ai sensi della lettera c) di tale disposizione (punto 23 della motivazione).

In secondo luogo, la nozione di «religione» di cui all'art. 1 della Direttiva 2000/78/CE deve essere interpretata nel senso che ricomprende sia il forum internum, ossia il fatto di avere convinzioni religiose, sia il forum externum, ossia la manifestazione in pubblico della fede religiosa [11].

Ciò premesso, la Corte esamina il merito della questione.

Il giudice belga, facendo riferimento alla sentenza G4S Secure Solutions, ritiene che la norma di cui trattasi nel procedimento principale non costituisca una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. Esso chiede tuttavia alla Corte di pronunciarsi su tale punto. Nella causa che ha dato origine a tale sentenza, alla Corte di giustizia è stata posta la questione se una norma interna di un'impresa privata che vieta in generale di indossare in modo visibile qualsiasi segno politico, filosofico o religioso sul luogo di lavoro costituisca una discriminazione diretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali ai sensi dell'art. 2, par. 2, lett. a), della Direttiva 2000/78/CE.

In tale sentenza, la Corte ha dichiarato che una norma del genere non istituisce una siffatta discriminazione ove riguardi indifferentemente qualsiasi manifestazione di tali convinzioni e tratti in maniera identica tutti i dipendenti dell'impresa, imponendo loro, in maniera generale e indiscriminata, segnatamente una neutralità di abbigliamento che osta al fatto di indossare tali segni.

La Corte ha confermato tale approccio nella sentenza WABE e MH Müller Handel e nella sentenza S.C.R.L. La Corte ribadendo, ulteriormente, tale orientamento (punti 26 26) rimette, comunque, al giudice del rinvio la decisione finale (punto 28) [12] considerato che da diverse fotografie prodotte da O.P. risulta che l'uso di segni discreti di convinzioni personali era tollerato. Circostanza di fatto che spetta al giudice nazionale di accertare.

La questione viene, quindi esaminata sotto il profilo della discriminazione indiretta.

Il giudice belga ritiene che la norma di cui trattasi nel procedimento principale crei una discriminazione indiretta fondata sulla religione o sulle convinzioni personali. La Corte di giustizia, richiamando una giurisprudenza consolidata (punto 29 della motivazione), afferma che una norma interna come quella di cui trattasi nel procedimento principale può istituire una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, ai sensi dell'art. 2, par. 2, lett. b), della Direttiva 2000/78/CE, qualora venga dimostrato che l'obbligo apparentemente neutro che essa contiene comporta, di fatto, un particolare svantaggio per le persone che aderiscono ad una determinata religione o ideologia.

L'accertamento, ovviamente, viene rimesso al giudice nazionale.

Ma la Corte di giustizia fornisce al giudice nazionale preziose indicazioni.

In primo luogo, sull'esistenza di una “finalità legittima” alla base del divieto.

La Corte ricorda che la direttiva stabilisce solo un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro che lascia ampia discrezionalità agli Stati membri.

Sono gli Stati membri a dover procedere a una conciliazione tra la libertà di pensiero, di convinzione e di religione e «le finalità legittime che possono essere invocate a giustificazione di una disparità di trattamento» (punto 35 della motivazione).

Sulla base di tale premessa (punto 36 della motivazione) la Corte afferma che «si può ritenere che una disposizione come l'art. 9 del regolamento (in esame) persegua una finalità legittima».

La questione più delicata, in realtà verte sull'esistenza di una giustificazione oggettiva e sul carattere appropriato e necessario del divieto.

Sul carattere appropriato e necessario del divieto

La Corte, da questo punto di vista, ha esaminato se la volontà del Comune di condurre una politica di neutralità fosse in grado di giustificare in maniera oggettiva una potenziale differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali.

Sotto questo profilo, occorre ricordare che la giurisprudenza della Corte, sviluppata in relazione al settore privato, ha precisato [13] che «la volontà di un datore di lavoro di mostrare, nei rapporti con i clienti sia pubblici che privati, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa può essere considerata legittima. Infatti, la volontà di un datore di lavoro di dare ai clienti un'immagine di neutralità rientra nella libertà d'impresa, riconosciuta dall'articolo 16 della Carta, ed ha, in linea di principio, carattere legittimo, in particolare qualora il datore di lavoro coinvolga nel perseguimento di tale obiettivo soltanto i dipendenti che si suppone entrino in contatto con i clienti del medesimo».

Tuttavia, precisa la Corte: «La semplice volontà di un datore di lavoro di condurre una politica di neutralità, sebbene costituisca, di per sé, una finalità legittima, non è sufficiente, in quanto tale, a giustificare in modo oggettivo una differenza di trattamento indirettamente fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, dato che il carattere oggettivo di una siffatta giustificazione può ravvisarsi solo a fronte di un'esigenza reale di tale datore di lavoro, che spetta a quest'ultimo dimostrare».

La Corte di giustizia, in questo contesto, ha cura di precisare che la volontà di un datore di lavoro di mostrare, nei rapporti con i clienti sia pubblici che privati, una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa può essere considerata legittima, «in particolare qualora il datore di lavoro coinvolga nel perseguimento di tale obiettivo soltanto i dipendenti che si suppone entrino in contatto con i clienti del medesimo».

Infatti, afferma la Corte nella sentenza WABE, la volontà di un datore di lavoro di dare ai clienti un'immagine di neutralità rientra nella libertà d'impresa [14], riconosciuta dall'art. 16 della Carta, ed ha, in linea di principio, carattere legittimo [15].

Affermazione che si pone in linea con la giurisprudenza della CEDU [16].

Una prassi che imponga ai dipendenti di indossare una uniforme o un determinato tipo di abbigliamento, infatti, rientra, secondo la giurisprudenza di Strasburgo [17], nella nozione di «finalità legittima».

La Corte, richiamando la sentenza Wabe e MH Muller Handel [18], invita il giudice nazionale a verificare, in questo contesto, due circostanze di fatto.

a) Se l'obiettivo della neutralità esclusiva che il comune si è prefissato «sia realmente perseguito in modo coerente e sistematico».

b) Se tale divieto «si limiti allo stretto necessario» considerato che l'obiettivo di un ambiente amministrativo totalmente neutro «può essere perseguita efficacemente solo se non è ammessa alcuna manifestazione visibile di convinzioni personali, in particolare filosofiche e religiose, quando i lavoratori sono a contatto con gli utenti del servizio pubblico o sono a contatto tra loro» (punto 39 della decisione).

Sotto questo profilo, occorre bilanciare il diritto del lavoratore di indossare simboli religiosi con la facoltà, per il datore di lavoro, di imporre restrizioni. Da questo punto di vista, non basta il requisito soggettivo (la volontà del datore di lavoro). Occorre, secondo la Corte, qualcosa di più: un'esigenza reale.

Per la prova di tale esigenza reale si può, in primo luogo, tener conto, in particolare, dei diritti e delle legittime aspettative dei clienti o degli utenti.

Ma non basta.

Occorre (anche) la prova: a) «del fatto che, in assenza di una tale politica di neutralità politica, filosofica e religiosa, sarebbe violata la sua libertà di impresa, riconosciuta all'articolo 16 della Carta, dal momento che, tenuto conto della natura delle sue attività o del contesto in cui esse si inscrivono, egli subirebbe conseguenze sfavorevoli»; b) che la politica di neutralità «sia realmente perseguita in modo coerente e sistematico, e che il divieto di indossare qualsiasi segno visibile di convinzioni politiche, filosofiche e religiose, che tale norma comporta, si limiti allo stretto necessario [...] alla luce delle conseguenze sfavorevoli che il datore di lavoro intende evitare mediante un tale divieto».

Insomma, la volontà di un datore di lavoro di condurre una politica di neutralità non è sufficiente per rendere legittima la sua condotta. Occorre la prova, che incombe sul datore di lavoro, di una esigenza reale che supporti il divieto.

Un ulteriore elemento probatorio che svolge un ruolo essenziale nel bilanciamento dei diritti in gioco.

Questioni aperte

La Corte di giustizia, nella sentenza in esame, non ha ritenuto di esaminare alcune questioni che erano emerse nel corso del procedimento.

Il governo francese, in ordine alla discrezionalità di cui godono gli Stati membri, aveva rilevato, in particolare, che lo stesso doveva considerarsi ancora più ampio quando sono in gioco principi che possono riguardare l'identità nazionale degli Stati membri ai sensi dell'art. 4, paragrafo 2, TUE [19].

L'identità nazionale consente di «limitare l'impatto del diritto dell'unione in settori ritenuti essenziali per gli Stati membri» [20] e deve essere presa debitamente in considerazione «dalle istituzioni, dagli organi e dagli organismi dell'Unione in sede di interpretazione e applicazione del diritto dell'Unione» [21].

L'avvocato generale Collins, nelle sue conclusioni del 4 maggio 2023 relative alla causa in oggetto, ha, però, affermato, in linea con le conclusioni dell'avvocato generale Emiliou [22], che «non spetta all'Unione determinare, per ciascun stato membro, gli elementi che fanno parte del nucleo dell'identità nazionale di cui all'art. 4, paragrafo 2, TUE» ribadendo, però, «che la concezione dell'identità nazionale invocata da uno Stato membro deve essere conforme ai valori fondamentali dell'Unione».

Sul tema, la Cote di giustizia, nella sentenza in esame, non ha ritenuto di prendere posizione.

Una seconda questione, evocata dall'avvocato generale Collins nelle sue conclusioni sulla causa in oggetto, riguarda la possibilità di ravvisare una discriminazione diretta nell'ipotesi in cui «la norma di cui trattasi nel procedimento principale dovesse essere intesa come riguardante solo l'uso di segni vistosi di grandi dimensioni di convinzioni segnatamente filosofiche o religiose, tra i quali, a mio avviso, potrebbe rientrare il velo islamico» (punto 54).

La Corte di giustizia, nella sentenza esaminata, afferma che «dalla decisione di rinvio non risulta che la norma di cui trattasi nel procedimento principale rientri in una fattispecie di tale tipo» (punto 25).

Affermare, come ribadisce la Corte di giustizia, che rappresenta una discriminazione diretta solo un simbolo religioso di grandi dimensioni può, però, essere opinabile.

Probabilmente, anche il divieto di indossare un simbolo religioso piccolo (ad esempio una collanina con un piccolo crocifisso) in un luogo di lavoro in cui si professa una religione musulmana potrebbe comportare una discriminazione diretta [23].

Ma sul tema, la Corte ha ribadito il suo orientamento.

Una terza questione, che la Corte di giustizia accenna soltanto (punto 32) è se il principio di neutralità del servizio pubblico trovi un fondamento giuridico negli artt. 10 e 11 della Costituzione belga.

La questione è importante (e il giudice belga non potrà non esaminarla) considerato che si discute se il principio di neutralità «sia sancito come tale dalla Costituzione belga, ad eccezione del settore molto specifico dell'istruzione, e, soprattutto, che la sua portata e il suo ambito non siano definiti in modo chiaro e uniforme nell'ordinamento giuridico belga» [24].

La prudenza con cui la Corte di giustizia ha esaminato la questione è pienamente condivisibile.

Note

[1] La questione è stata dichiarata “irricevibile” per due ragioni.

In primo luogo, perché «per quanto riguarda l'esistenza di un'eventuale discriminazione indiretta fondata sul sesso […] occorre ricordare che tale motivo rientra nell'ambito di applicazione della Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l'attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego […] che, all'articolo 2, paragrafo 1, lettera b), definisce espressamente la nozione di discriminazione indiretta fondata sul sesso, e non nell'ambito di applicazione della Direttiva 2000/78, che è l'unico atto menzionato da detta questione.

In secondo luogo, perché la decisione di rinvio non contiene indicazioni che consentano di determinare l'ipotesi di fatto su cui si fonda la seconda questione nonché i motivi per i quali una risposta a tale questione, in aggiunta alla risposta alla prima questione, sarebbe necessaria per la soluzione della controversia principale».

Per una critica a tale soluzione si veda I. ANRO', Il divieto di simboli religiosi negli uffici del Comune e la libertà di religione dei dipendenti pubblici: il punto di vista dell'Avvocato Collins nel caso OP c. Commune d'Ans, in Quaderni AISDUE, 19 luglio 2023.

[2] Sul tema si veda R. COSIO-R. COSIO, Il velo islamico negli orientamenti della corte di giustizia. Alla ricerca del c.d. diritto mite, in R. COSIO (a cura di), Il diritto del lavoro nell'ordinamento complesso, Milano, 2023, 97 ss.

[3] Sul tema si veda V.A. POSO, La neutralità (politica, filosofica e religiosa) del datore di lavoro deve, quindi, prevalere sulla libertà dei lavoratori di indossare abiti o simboli evidenti delle proprie convinzioni religiose sui luoghi di lavoro?, in labor.it, 23 luglio 2021, R. COSIO, Il velo islamico. La gerarchia mobile tra la libertà religiosa e altri diritti, in Mass. giur. Lav., n. 3, 2021; G. MIANO, Il simbolismo religioso sul luogo di lavoro: l'omologazione a discapito della libertà religiosa, in Lav. giur., n. 2/2022, 145151. Sul tema, più in generale, si veda G. AMOROSO, Libertà di culto e principio di “neutralità” nella prestazione di lavoro, in Foro it., n. 5/2017, IV, cc. 254 ss.; A. BERTI SUMAN, La Corte Ue ritiene non discriminatorio il divieto di indossare il velo islamico sul luogo di lavoro, in Nuova giur. civ. comm., 10/2017, I, 1344 ss.; A. BORGHI, Sulla libertà di manifestare le proprie opinioni religiose nel luogo di lavoro: brevi note in merito ai casi Achbita e Bougnaoui, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 29/2016, 1 ss.; R. COSIO, Le sentenze della Corte di giustizia sul velo islamico, in Lav. giur., n. 5/2017, 450 ss.; N. COLAIANNI, Il velo delle donne musulmane tra libertà di religione e libertà d'impresa. Prime osservazioni alla sentenza della Corte di giustizia sul divieto di indossare il velo sul luogo di lavoro, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, n. 11/2017, 1 ss.; P. DIGENNARO, Il difficile equilibrio tra libertà religiosa e libertà di impresa, in Riv. giur. lav., n. 3/2017, II, 370 ss.; C. ELEFANTE, Velo islamico e divieti di discriminazione religiosa in ambito occupazionale e lavorativo: l'interpretazione della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, in Dir. e religioni, 2/2017, I, 273 ss.; A. GUAZZAROTTI, Bandire il velo dal posto di lavoro o prendere sul serio la dimensione pubblica dell'identità religiosa?, in Quad. cost., 2/2017, 420 ss.; V. NUZZO, La Corte di Giustizia e il velo islamico, in Riv. it. dir. lav., n. 2/2017, II, 436 ss.; G. PACELLA, Velo islamico della lavoratrice e corporate image: Corte Europea e bilanciamento degli interessi, in Dir. lav. mercati, n. 3, 2017, 645 ss.; T. PAGOTTO-E. ERVAS, Achbita v. Eweida: libertà d'impresa e libertà religiosa a confronto, in Federalismi.it, Focus Human Rights, n. 2/2017, 1 ss.; B. PROFUMO, Libertà religiosa e di impresa: la CGUE detta i criteri per il bilanciamento, in DPCE online, n. 3/2017, 751 ss.; V. PROTOPAPA, I casi “Achbita” e “Bougnaoui”. Il velo islamico tra divieto di discriminazione, libertà religiosa ed esigenze dell'impresa, in Arg. dir. lav., n. 4-5/2017, II, 1079 ss.; S. SCARPONI, L'appartenenza confessionale delle donne lavoratrici davanti alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea, in Quad. dir. pol. eccl., 2018, n. spec., 221 ss.; D. SCHIUMA, Tutela della libertà religiosa dei lavoratori e politiche aziendali di neutralità: il velo islamico nei luoghi di lavoro, in Giust. civ. comm., n. 6/2017.

[4] CGUE, 14 marzo 2017, C-157/15 e C-188/15, entrambe edite su Lav. giur., n. 5/2017, con nota di R. COSIO e in labor.it, 24 marzo 2017, con nota di V.A. POSO.

[5] Per una valutazione, anche critica, delle sentenze si veda E. HOWARD, Islamiche eadscarves and the Cjeu: Achbita and Bougnaoui, in Maastricht Journal and Comparative Law, 2017, vol. 24, 348-366; J.H.H. WEILER, Je suis Achbita:à propos d'un arret de la Cour de justice de l'Union europèenne sul le hijab musulman, in Revue trimestrielle de droit europèen, 2019, 85-104.

[6] Su tali sentenze si veda il commento di E. TARQUINI, Il velo islamico e il principio paritario: la giurisprudenza di merito si confronta con i divieti di discriminazione, in labor.it, 4 maggio 2016. Per un commento alla sentenza della Corte d'Appello di Milano, 4 maggio 2016 si veda M. PERUZZI, Il prezzo del velo: ragioni di mercato, discriminazione religiosa e quantificazione del danno patrimoniale, in Riv. it. dir. lav., 2016, n. 5-6. Sul diritto al riposo tra religione ed organizzazione del lavoro, si veda Cass. 22 febbraio 2016, n. 3416, in Lav. giur., n. 6/2016, 565-572 con nota di V. AMATO.

[7] Sul tema si veda M. RANIERI, Il primo incontro della Corte di giustizia con le organizzazioni orientate: tra slanci e qualche timidezza, in Arg. dir. lav., n. 4/2018, 1127 ss.

[8] Per una panoramica delle sentenze europee (specie del Tribunale del lavoro di Liegi e di Bruxelles) si veda A. LICASTRO, La questione del velo in azienda e le politiche di neutralità per la prevenzione dei conflitti ideologici tra i lavoratori, in consultaonline, 14 dicembre 2022.

[9] Sul tema si veda R. COSIO-R. COSIO, Il velo islamico negli orientamenti della corte di giustizia, cit., 102-106.

[10] Sul tema si veda R. COSIO-R. COSIO, op. cit., 110-113.

[11] CGUE 14 marzo 2017, C-157/15.

[12] Nella decisione di rinvio il giudice belga rileva che il Comune «pratica una neutralità a geometria variabile nello spazio e nel tempo, esclusiva nei confronti di O.P., e meno esclusiva, o più inclusiva, per i suoi colleghi con altre convinzioni personali».

[13] CGUE 15 luglio 2021, C‑804/18 e C‑341/19, WABE e MH Müller Handel, punto 63.

Su questa pronunzia si veda, nella dottrina straniera, A. DJELASSI-R. MERTENS-S. WATTIER, Principe de neutralité dans les entreprises privées: la Cour de justice étoffe sa jurisprudence relative à l'interdiction des signes religieux, in Revue trimestrielle des droits de l'homme, 2022, 373 ss.; E. HOWARD, Headscarves and the CJEU: Protecting fundamental rights and pandering to prejudice, the CJEU does both, in Maastricht Journal of European and Comparative Law, n. 2/2022, 245 ss.; D.A. ZUTHER, The Headscarf Debate Returns to Luxembourg: A Second Chance for Religious Freedom?, in LSE Law Review, 2021, 86 ss. Nella dottrina italiana, si veda R. BENIGNI, Tutela dell'identità religiosa e neutralità aziendale. Il garantismo della giurisprudenza nazionale (Francia, Belgio e Germania) e le nuove indicazioni della Corte UE, in Quad. dir. pol. eccl., n. 3/2021, 791 ss.; ID., L'equilibrio tra libertà religiosa e d'impresa nel quadro dell'integrazione europea e le prospettive di una tutela uniforme delle convinzioni del lavoratore, in Osservatorio costituzionale, n. 1/2022, 211 ss.; R. COSIO, Il velo islamico. La gerarchia tra libertà religiosa e altri diritti fondamentali, cit., 742 ss.; G. MIANO, Il simbolismo religioso sul luogo di lavoro: l'omologazione a discapito della libertà religiosa, in Lav. giur., n. 2/2022, 145 ss.; E. PAGANO, La tutela della libertà religiosa nell'Unione europea nella recente giurisprudenza della Corte di giustizia, in Dir. comun. e scambi intern., n. 1-2/2021, 135 ss.; V. PINTO, Corte di giustizia e velo islamico. Il punto su discriminazione e politiche aziendali di neutralità religiosa, in Riv. it. dir. lav., n. 4/2021, 801 ss.

[14] La tutela conferita da tale articolo implica la libertà di esercitare un'attività economica o commerciale (CGUE 16 luglio 2020, C-686/18, punto 82).

[15] In linea con quanto affermato nella sentenza CGUE 14 marzo 2017, C-157/15, G4S Secure Solutions, punti 37 e 38.

[16] Sul tema dell'utilizzo del velo islamico con riferimento alla legge francese, si veda la sentenza della Corte EDU 1° luglio 2014, n. 43835/11, S.A.S. c. Francia.

[17] Si veda la sentenza della Corte EDU del 15 gennaio 2013, Eweida e a. c. Regno Unito. Sul tema, si veda E. SORDA, Lavoro e fede nella Corte di Strasburgo. Note a margine della sentenza Eweida e altri c. Regno Unito, in forumcostituzionale.it.

[18] CGUE 15 luglio 2021, C-804/18 e C-341/19.

[19] Sul tema si veda CGUE 7 settembre 2022, C-391/20, punto 83.

[20] Cfr. Conclusioni dell'avvocato generale Kokott nella causa C-490/20, Stolichna obshtina.

[21] Cfr. Conclusioni dell'avvocato generale Kokott nella causa C-157/15, paragrafo 32.

[22] Nella causa C-391/20, paragrafo 86.

[23] Sul tema si veda R. COSIO-R. COSIO, Il velo islamico negli orientamenti della corte di giustizia, cit., 105.

[24] Conclusioni dell'avvocato generale Collins del 4 maggio 2023, punto 71 nella causa in esame.

Sul tema, si rimanda a Simboli religiosi sul luogo di lavoro: una P.A. può vietare ai dipendenti di indossarli per la finalità legittima di creare un ambiente amministrativo neutro