Convivenza more uxorio e impresa familiare: le Sezioni Unite sollevano questione di legittimità costituzionale
23 Gennaio 2024
Le Sezioni Unite Civili hanno dichiarato rilevante e non manifestamente infondata – in riferimento agli artt. 2,3,4,35 e 36 Cost., all'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea ed all'art. 117, comma 1, Cost., in riferimento agli artt. 8 e 12 Cedu – la questione di legittimità costituzionale dell'art. 230-bis c.c. La norma, al primo comma, dispone infatti che «il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato» e, al terzo comma, indica che «ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo», ma non include nel novero dei familiari il convivente more uxorio. Il Tribunale rigettava le domande svolte da una donna, che assumeva di essere stata stabile convivente di un uomo deceduto nel 2012, nei confronti dei figli nonché coeredi di quest'ultimo, volte ad accertare l'esistenza di un'impresa familiare e, di conseguenza, ad ottenere la condanna dei suddetti eredi alla liquidazione della quota a lei spettante quale partecipe dell'impresa, pari quantomeno al 50% del valore dei beni acquistati e degli utili conseguiti, compresi gli incrementi patrimoniali avutisi nel corso del tempo. La Corte d'Appello aveva confermato la sentenza di primo grado. Nel giudizio di cassazione la ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 230-bis e 230-ter c.c. e dell'art. 11 delle Preleggi, osservando che la mutata sensibilità sociale ha trovato riscontro nella l. n. 76/2016 sulle unioni civili, la quale ha introdotto l'art. 230-ter che disciplina i diritti del convivente nell'impresa familiare sotto il profilo della partecipazione agli utili e agli incrementi dell'azienda commisurata al lavoro prestato. La Corte di Cassazione rimetteva alle Sezioni Unite la soluzione della questione, ritenuta di particolare importanza, se l'art. 230-bis, comma 3, c.c. possa essere evolutivamente interpretato (in considerazione dell'evoluzione dei costumi nonché della giurisprudenza costituzionale e della legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone dello stesso sesso) in chiave di esegesi orientata sia agli artt. 2,3,4 e 35 Cost., sia all'art. 8 CEDU come inteso dalla Corte di Strasburgo, nel senso di prevedere l'applicabilità della relativa disciplina anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di fatto sia caratterizzata da un grado accertato di stabilità. L'art. 230-ter c.c., introdotto dall'art. 1, comma 46, l. 20 maggio 2016 n. 76, ha previsto esplicitamente che sia tutelata la posizione del convivente more uxorio che presti stabilmente la propria opera all'interno dell'impresa del partner, riconoscendo al primo «una partecipazione agli utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato», con la precisazione che un siffatto diritto «non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto di società o di lavoro subordinato». Ben prima dell'innovazione apportata dalla l. 76/2016, gli interpreti si sono chiesti se, ai fini dell'applicazione della disciplina di cui all'art. 230-bis c.c., nel novero dei familiari che prestano in modo continuativo la loro attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare possa rientrare anche il convivente more uxorio (stando al comma 3 dell'art. 230 bis c.c., nel contesto di tale norma la qualifica di “familiare” spetta al coniuge, ai parenti entro il terzo grado e agli affini entro il secondo; in virtù dei commi 13 e 20 dell'art. 1 l. 76/16, l'area si allarga fino a coprire le parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso). In una prima occasione, la Corte di Cassazione ha dato risposta negativa all'interrogativo, sul presupposto che la menzionata disposizione codicistica costituisce norma eccezionale ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica; nella stessa circostanza, fu anche dichiarata la manifesta infondatezza, in riferimento agli art. 2,3 e 36 Cost., della questione di legittimità costituzionale dell'art. 230-bis c.c., nella parte in cui non estende alla famiglia di fatto la disciplina dell'impresa familiare (Cass. 2 maggio 1994, n. 4204; orientamento confermato da Cass. 29 novembre 2004, n. 22405, richiamando il carattere di eccezionalità della norma). La Corte costituzionale ha riconosciuto rilevanza alla convivenza more uxorio: dichiarando incostituzionale l'art. 33, comma 3, l. 5 febbraio 1992 n. 104, come modificato dall'art. 24, comma 1, lett. a), l. 4 novembre 2010 n. 183, nella parte in cui non include il convivente (nei sensi di cui in motivazione) tra i soggetti legittimati a fruire del permesso mensile retribuito per l'assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità, in alternativa al coniuge, parente o affine entro il secondo grado (Corte cost. 23 settembre 2016, n. 213); ovvero ha dichiarato incostituzionale l'art. 18, commi 1 e 2, l. reg. Piemonte 10 dicembre 1984 n. 64, nella parte in cui non prevede la cessazione della stabile convivenza come causa di successione nell'assegnazione dell'alloggio di edilizia residenziale pubblica ovvero come presupposto della voltura della convenzione a favore del convivente dell'originario assegnatario dell'alloggio, che sia affidatario della prole naturale (Corte Cost., 20 dicembre 1989, n. 559). Le Sezioni Unite penali hanno stabilito che la causa di esclusione della colpevolezza di cui all'art. 384, comma 1, c.p. è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore: quest'ultimo, ancorché non menzionato dall'art. 307 c.p. tra i “prossimi congiunti”, nozione alla quale fa riferimento l'art. 384 c.p., sfugge alla punibilità non diversamente da questi ultimi (Cass., SU, 26 novembre 2020, n. 10381, Fialova). Deve altresì osservarsi che secondo l'interpretazione fornita dalla Corte EDU alle norme sovranazionali (art. 8 CEDU), la tutela la vita familiare deve estendersi alla famiglia di fatto (Corte Edu, 14 dicembre 2017, Orlandi; 21 luglio 2015, Oliari, relativa alla tutela delle coppie omosessuali. Né può obliterarsi l'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, dove al diritto di sposarsi viene giustapposto quello di costituire una famiglia, che dunque si configura come autonomo rispetto al vincolo matrimoniale stricto sensu inteso. Per la pronuncia in commento, muovendo dalla preliminare considerazione riguardante l'inapplicabilità ratione temporis dell'art. 230-ter c.c., peraltro insuscettibile di applicazione o di interpretazione retroattiva, il dubbio di legittimità costituzionale concerne la potenziale irragionevolezza del trattamento differenziato del lavoro prestato nell'impresa dal convivente rispetto a quello del familiare, che non può essere superato dalla S.C. mediante un'interpretazione estensiva – e conforme alla Costituzione, alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e ai principî enunciati dalla Corte EDU – dell'art. 230-bis c.c. in ragione dell'insuperabile testo della disposizione e dei rischi di distonia del sistema ingenerati da una siffatta lettura. Fonte: dirittoegiustizia.it |