La Corte costituzionale ammette i colloqui “intimi” in carcere
29 Gennaio 2024
La questione di legittimità costituzionale A seguito del reclamo presentato da un detenuto avverso il diniego oppostogli dalla direzione della casa circondariale di Terni circa lo svolgimento di colloqui intimi e riservati con la compagna e la figlia in tenera età, il magistrato di sorveglianza di Spoleto ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, commi 1 e 4, 27, comma 3, 29, 30, 31, 32 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 CEDU, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 18 ord. penit., «nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia». La Corte costituzionale ha concluso per l'illegittimità costituzionale dell'art. 18 ord. penit., «nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa, nei termini di cui in motivazione, a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell'unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell'ordine e della disciplina, né, riguardo all'imputato, ragioni giudiziarie». Le motivazioni 2. In ragione della rilevante portata della sentenza e degli effetti che ne deriveranno nella prassi, è quanto mai opportuno ricavare dalle motivazioni formulate dalla Corte costituzionale le condizioni poste per l'operatività dei colloqui c.d. intimi anche a carattere sessuale. Innanzitutto, la Corte prende le distanze dalla sua precedente decisione (sentenza n. 301/2012) con la quale sono state dichiarate inammissibili questioni analoghe a quelle ora oggetto di giudizio – pur segnalando al legislatore come il tema dell'affettività intramuraria del detenuto rappresentasse «un problema che merita ogni attenzione» - evidenziando il differente quadro normativo di riferimento (art. 1, commi 20 e 38, l. 76 del 2016; art. 11, comma 1, lett. g), n. 3), d.lgs. n. 123/2018; art. 19, comma 3, d.lgs. n. 121/2018). In relazione alla vicenda giudiziaria ove è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale, la Corte rileva l'inadeguatezza dell'attuale situazione normativa per il detenuto in attesa di giudizio, al quale è preclusa l'affettività extra moenia a causa dell'impossibilità di fruire di permessi premio ed è altresì preclusa l'affettività intramuraria per effetto dell'art. 18 ord. penit., tutto ad onta della presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva, di cui all'art. 27, secondo comma, Cost. Viene così confermato che la disciplina dei permessi premio non è allo stato idonea a risolvere il problema dell'affettività del detenuto e che esso ha pertanto una necessaria dimensione intramuraria, profilo che assicura la rilevanza delle questioni sollevate dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto. La fondatezza delle questioni sollevate parte da una premessa volta a precisare il valore e la portata dell'affettività: secondo la Corte, la tutela delle relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono comporta che “lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società. La questione dell'affettività intramuraria concerne dunque l'individuazione del limite concreto entro il quale lo stato detentivo è in grado di giustificare una compressione della libertà di esprimere affetto, anche nella dimensione intima; limite oltre il quale il sacrificio della libertà stessa si rivela costituzionalmente ingiustificabile, risolvendosi in una lesione della dignità della persona”. Il contrasto di rilievo costituzionale attiene all'assolutezza della prescrizione del controllo visivo sui colloqui familiari del detenuto e la conseguente preclusione dell'esercizio dell'affettività intramuraria, anche sessuale. “Nel presidiare la regolarità dell'incontro, il controllo a vista sullo svolgimento del colloquio obiettivamente restringe lo spazio di espressione dell'affettività, per la naturale intimità che questa presuppone, in ogni sua manifestazione, non necessariamente sessuale”. Nel richiamare i contenuti della propria elaborazione giurisprudenziale in materia di volto costituzionale della pena, la Corte sostiene che “la prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento del colloquio del detenuto con le persone a lui legate da stabile relazione affettiva, in quanto disposta in termini assoluti e inderogabili, si risolve in una compressione sproporzionata e in un sacrificio irragionevole della dignità della persona, quindi in una violazione dell'art. 3 Cost., sempre che, tenuto conto del comportamento del detenuto in carcere, non ricorrano in concreto ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell'ordine e della disciplina, né sussistano, rispetto all'imputato, specifiche finalità giudiziarie”. Una particolare attenzione, a questo proposito, viene dedicata alle persone estranee al reato e alla condanna. “Un ulteriore profilo di irragionevolezza delle restrizioni imposte all'espressione dell'affettività, quali conseguono all'inderogabilità del controllo a vista sui colloqui familiari, riguarda il loro riverberarsi sulle persone che, legate al detenuto da stabile relazione affettiva, vengono limitate nella possibilità di coltivare il rapporto, anche per anni”. “Per quanto in certa misura sia inevitabile che le persone affettivamente legate al detenuto patiscano le conseguenze fattuali delle restrizioni carcerarie a lui imposte, tale riflesso soggettivo diviene incongruo quando la restrizione stessa non sia necessaria, e pertanto, nella specie, quando il colloquio possa essere svolto in condizioni di intimità senza che abbiano a patirne le esigenze di sicurezza”. Ne deriva il contrasto con l'art. 27 Cost., in quanto “l'intimità degli affetti non può essere sacrificata dall'esecuzione penale oltre la misura del necessario, venendo altrimenti percepita la sanzione come esageratamente afflittiva, sì da non poter tendere all'obiettivo della risocializzazione”. Altro contrasto è ravvisato anche con l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 8 CEDU, in quanto “Il carattere assoluto e indiscriminato del divieto di esercizio dell'affettività intramuraria, quale deriva dall'inderogabilità della prescrizione del controllo a vista sullo svolgimento dei colloqui, pone l'art. 18 ord. penit. in contrasto con l'art. 8 CEDU, sotto il profilo del difetto di proporzionalità tra tale radicale divieto e le sue, pur legittime, finalità. In particolare, il diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dal paragrafo 1 dell'art. 8 CEDU, viene compresso senza che sia verificabile in concreto, agli effetti del successivo paragrafo 2, la necessità della misura restrittiva per esigenze di difesa dell'ordine e prevenzione dei reati”. Le riflessioni finali della Corte Vanno opportunamente segnalate anche le riflessioni finali della Corte in ordine alle conseguenze della sentenza additiva adottata. Colpisce, innanzitutto, la consapevolezza della Corte in ordine all'impatto che “l'odierna sentenza è destinata a produrre sulla gestione degli istituti penitenziari, come anche dello sforzo organizzativo che sarà necessario per adeguare ad una nuova esigenza relazionale strutture già gravate da persistenti problemi di sovraffollamento”. In ragione del lungo tempo trascorso dalla sentenza n. 301 del 2012, e dalla segnalazione che essa rivolgeva all'attenzione del legislatore, secondo la Corte ora si “impone tuttavia di ricondurre a legittimità costituzionale una norma irragionevole nella sua assolutezza e lesiva della dignità delle persone”. Proprio per la complessità dei problemi operativi che ne scaturiscono, la Corte non rinuncia, ancora una volta, a sollecitare “la responsabilità del legislatore, ove esso intenda approntare in materia un quadro normativo di livello primario”. Per il conseguimento di tale finalità, si propone un decalogo operativo:
A proposito delle condizioni ostative, la Corte rileva che, tenuto conto del comportamento del detenuto in carcere, lo svolgimento del colloquio intimo sia precluso non solo quando sussistano ragioni di sicurezza, ma anche quando esistano esigenze di mantenimento dell'ordine e della disciplina, ovvero anche, riguardo all'imputato, motivi di carattere giudiziario. In conclusione, la Corte esclude che quanto deciso con questa storica sentenza operi pure in occasione di regimi detentivi speciali: non riguarda, pertanto, coloro che sono sottoposti al regime speciale di detenzione di cui all'art. 41-bis ord. penit., né i detenuti sottoposti alla sorveglianza particolare di cui all'art. 14-bis ord. penit. Non manca, altresì, un ultimo richiamo alle prerogative del legislatore: la Corte ammette la possibilità che il legislatore disciplini in un prossimo futuro la materia stabilendo termini e condizioni diversi da quelli sopra enunciati, “purché idonei a garantire l'esercizio dell'affettività dei detenuti, nel senso fatto proprio dalla presente pronuncia”. Tanto meno si esime dal sottolineare che per conseguire un'ordinata attuazione dell'odierna decisione – almeno nelle more dell'intervento del legislatore – è imprescindibile il contributo dell'amministrazione della giustizia, “in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, non esclusi i direttori dei singoli istituti”. In altre parole, a seguito di questa “storica” sentenza, sarà indispensabile l'azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell'amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze, per portare a compimento “una tappa importante del percorso di inveramento del volto costituzionale della pena”. *Fonte: DirittoeGiustizia |