Frode all’IVA: il dipendente che emette fatture false è debitore dell’IVA se il datore di lavoro dimostra di avere agito in buona fede controllandone la condotta

La Redazione
05 Febbraio 2024

La CGUE (30 gennaio 2024, C-442/22), nel caso di una dipendente che ha utilizzato i dati del suo datore di lavoro per emettere fatture fraudolente, ha affermato che l'IVA non può essere dovuta dall'emittente apparente di una falsa fattura quando questi sia in buona fede e l'amministrazione tributaria conosca l'identità della persona che ha realmente emesso la fattura. In tale situazione, è quest'ultima persona ad essere debitrice, ai sensi della Direttiva 2006/112/CE sull'IVA. Ciò vale a condizione che il datore di lavoro, soggetto passivo di tale imposta, abbia dato prova di avere agito con la diligenza ragionevolmente dovuta nel controllare le condotte del dipendente. In assenza di tale prova, il datore di lavoro deve essere considerato quale persona obbligata a pagare l'IVA indicata nelle fatture fraudolente. Spetta all'amministrazione tributaria oppure al giudice nazionale valutare, alla luce dell'insieme degli elementi pertinenti, se il datore di lavoro abbia dato prova di aver agito con diligenza.

Tra il gennaio 2010 e l'aprile 2014, la dipendente di una società situata in Polonia che gestisce una stazione di servizio ha emesso 1679 fatture, non corrispondenti a reali vendite di beni, per un valore totale (espresso in zloty polacchi) di circa 320.000 euro. A tal fine, essa ha utilizzato i dati del suo datore di lavoro, soggetto all'imposta sul valore aggiunto (IVA), a sua insaputa e senza il suo consenso. Le fratture fraudolente non sono state contabilizzate nelle dichiarazioni fiscali di tale società. Esse sono state utilizzate per ottenere il rimborso indebito dell'IVA da parte dei suoi destinatari, senza che l'imposta corrispondente fosse stata versata all'Erario.

In seguito ad un controllo fiscale, le autorità competenti hanno emanato una decisione che ha determinato l'importo dell'IVA dovuta dalla società. Secondo l'amministrazione tributaria, le condotte fraudolente sono state rese possibili dalla mancanza di vigilanza e di adeguata organizzazione nell'ambito della società che aveva assunto la dipendente. 

La società ha contestato tale decisione dinanzi al giudice nazionale il quale, a sua volta, ha adito la Corte di giustizia. Il giudice nazionale desidera accertare chi, tra la società i cui dati sono stati illecitamente utilizzati nella fattura, e la dipendente che si è servita di tali dati per emettere fatture false, sia la persona che indica l'IVA in una fattura, ai sensi della direttiva sull'IVA (art. 203 della Direttiva 2006/112/CE del Consiglio relativa al sistema comune d'imposta sul valore aggiunto), e che ne è quindi debitrice.

La Corte dichiara che l'IVA non può essere dovuta dall'emittente apparente di una falsa fattura quando questi sia in buona fede e l'amministrazione tributaria conosca l'identità della persona che ha realmente emesso la fattura di cui trattasi. In una situazione del genere, è quest'ultima persona ad essere debitrice dell'IVA. Una diversa interpretazione sarebbe in contrasto con l'obiettivo della direttiva IVA consistente nel combattere la frode e nell'evitare che i singoli possano avvalersi in modo fraudolento delle norme del diritto dell'Unione.

Per essere considerato in buona fede, il datore di lavoro è tenuto a dar prova della diligenza ragionevolmente dovuta nel controllare le condotte del suo dipendente e, così facendo, nell'evitare che i suoi dati siano utilizzati per emettere fatture false. In assenza di una tale prova, il datore di lavoro deve essere considerato quale persona obbligata a pagare l'IVA indicata nelle fatture fraudolente. Spetta all'amministrazione tributaria oppure al giudice nazionale valutare, alla luce dell'insieme degli elementi pertinenti, se il datore di lavoro abbia dato prova di aver agito con una tale diligenza.