Ancora una pronuncia favorevole ai programmi riparativi con vittima “aspecifica”

Fabio Fiorentin
08 Febbraio 2024

Con l'ordinanza in rassegna, la Corte d'Assise di Monza ha disposto l'invio al Centro per la Giustizia Riparativa e la Mediazione penale del Comune di Milano, ai fini della verifica della fattibilità di un programma di giustizia riparativa, di un soggetto imputato di omicidio e soppressione di cadavere commesso nei confronti del padre.

Un orientamento in fase di consolidamento

Il caso appare, per molti versi, emblematico. Si tratta, infatti, di un processo per delitti di estrema gravità, connotati da efferatezza e da un rilevante allarme sociale, anche sollecitato dalle modalità particolarmente brutali con cui i delitti erano stati commessi.

Fin dalle indagini preliminari, tuttavia, l'indagato aveva pienamente collaborato con gli inquirenti, ammettendo gli addebiti e acconsentendo, tramite i propri difensori, all'acquisizione di tutti gli atti d'indagine. Inoltre, l'autore del reato aveva subito espresso il proprio pentimento e mostrato la volontà di risarcire materialmente il danno arrecato, rinunciando all'eredità prima che intervenisse la pronuncia di indegnità per consentire l'immediato subentro degli altri eredi della vittima, cercando forme di riconciliazione con i fratelli della vittima e manifestando la volontà di proseguire il percorso psicoterapico già intrapreso.

La decisione in commento conferma un indirizzo in fase di consolidamento, che si allinea al principio, codificato dalla riforma del 2022 (art. 44, comma 1, d.lgs. n. 150/2022) in forza del quale il titolo del reato per il quale si è avviato il procedimento penale non costituisce di per sé ostacolo all'avvio di un percorso di giustizia riparativa.

Dal punto di vista dell'affermarsi delle pratiche di restorative justice, costituisce, quindi, una buona notizia che una tale previsione trovi un sempre più ampio recepimento da parte della giurisprudenza, fatto quest'ultimo per nulla scontato, alla luce del clima largamente ostile maturato sui social media e nell'opinione pubblica, influenzata da messaggi di sfiducia nei confronti di un istituto – quello appunto della giustizia riparativa – visto come l'ennesima scappatoia da una “pena certa” approntata dal legislatore in favore degli autori di crimini anche gravi ed efferati.

I presupposti per l'invio delle parti ad un centro per la giustizia riparativa

Va premesso che, con riguardo al potere del giudice di disporre l'avvio dei programmi di giustizia riparativa, previsto dall'art. 129-bis, comma 1, c.p.p., la giurisprudenza di legittimità ha affermato che esso si configura quale potere discrezionale, che riflette valutazioni che attengono al reato, ai rapporti tra l'indagato e la vittima, all'idoneità del percorso riparativo a risolvere le questioni che hanno condotto alla commissione del fatto.

Pertanto – così afferma la Corte - il giudice può non avvalersi di tale prerogativa e neppure è tenuto a motivare la sua scelta, senza che in tal modo si verifichi alcuna nullità speciale, non essendo prevista dalla nuova disposizione, o di ordine generale, non essendo compromesso alcuno dei diritti e facoltà elencati all'art. 178, lett. c), c.p.p. (Cass. pen., sez. VI, 9 maggio 2023, n. 25367 – dep.13 giugno 2023).

Ciò posto, l'ordinanza dell'assise monzese contiene alcuni spunti interessanti quanto ai presupposti che devono sostenere, alla luce dell'art. 129-bis c.p.p., l'invio delle parti ad un centro per la giustizia riparativa.

In particolare, i giudici brianzoli si soffermano sull'assenza di ogni profilo di ostatività con riguardo all'obiettivo di accertamento dei fatti oggetto del procedimento penale in corso, dal momento che l'imputato ha ammesso gli stessi già in fase di indagine e in sede dibattimentale la difesa ha concordato l'acquisizione al fascicolo del dibattimento di tutti gli atti di indagine ex art. 493, comma 3, c.p.p., con conseguente elisione del pericolo di inquinamento probatorio.

I giudici accertano, inoltre, l'assenza di ogni rischio per l'imputato stesso e per le altre parti derivante dalla partecipazione all'eventuale programma di giustizia riparativa, anche per la sussistenza del titolo custodiale a carico dell'autore di reato.

Profili che, invece, attengono al profilo della fattibilità del programma riparativo e che – purtuttavia – sono stati richiamati nella motivazione dell'ordinanza in commento attengono all'emenda del reo, alla sua manifestata volontà di risarcire il danno, di intraprendere un percorso di riconciliazione con i parenti superstiti e di continuare a seguire il già avviato percorso psicoterapeutico. Si tratta, in effetti, di elementi che, afferendo al giudizio di fattibilità concreta del percorso riparativo, attengono alla competenza del mediatore esperto e restano (o dovrebbero restare) estranei al vaglio giudiziale espresso all'esito dell'udienza di cui all'art. 129-bis c.p.p.

L'ordinanza in esame argomenta, inoltre, in relazione all'utilità del programma di giustizia riparativa ai fini della “risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede” (art.129-bis c.p.p.), valorizzando il parere espresso da un mediatore circa la serietà e concretezza   del proposito espresso dall'imputato di riparare le conseguenze del reato nella prospettiva che, attraverso un percorso restorative, si possa giungere ad una ricomposizione della frattura con i familiari della vittima e, più in generale, con il tessuto sociale.

I giudici ascoltano anche la voce delle vittime

Il caso affrontato dalla corte brianzola riguarda – come si è accennato – l'istanza formulata dai difensori e procuratori speciali di un imputato del reato di cui agli artt. 81 cpv., 575, 577, comma 1, n. 1 e 4 (con riferimento all'art. 61, comma 1, n. 4), 411 e 61, comma 1, n. 2 c.p., per l'avvio di un percorso di giustizia riparativa.

La decisione è stata assunta dai giudici all'esito di un'udienza in cui sono stati sentiti l'imputato, i suoi difensori, i prossimi congiunti della persona offesa e il P.M.

Merita rilevare il dato che vede l'audizione anche dei soggetti danneggiati dal reato, dal momento che non si tratta di un obbligo del giudice bensì di una mera facoltà, esercitabile qualora ne sia ritenuta la “necessità” (art.129-bis c.p.p.). La non obbligatorietà di audire anche le vittime/persone offese costituisce, invero, un profilo della disciplina sulla giustizia riparativa introdotta dalla “riforma Cartabia” (d.lgs. n. 150/2022) che ha suscitato critiche in dottrina e deve essere, pertanto, salutata con favore la possibilità che è stata riconosciuta dall'assise monzese anche a tali soggetti di poter interloquire nell'udienza di decisione sull'istanza di invio dell'imputato al centro di giustizia riparativa.

La prassi adottata nel caso in analisi, infatti, appare meritevole di essere seguita soprattutto in vicende processuali particolarmente delicate in cui – per il bene giuridico leso e per le conseguenze sulle persone colpite dal reato commesso – appare opportuno che la dimensione pubblicistica che la disciplina italiana ha voluto attribuire alla restorative justice sia esaltata anche dando il giusto spazio alla voce delle vittime.

In questo caso – analogamente a quanto accaduto nella vicenda dell'omicidio di Carol Maltesi - i parenti della vittima, pur non opponendosi formalmente al programma riparativo, hanno manifestato la propria attuale indisponibilità a prendervi parte, riservandosi in futuro ogni ulteriore valutazione, così aprendo la strada ad un percorso riparativo con vittima “aspecifica”.

Una tale chiusura, quantomeno nell'immediato, dei congiunti della vittima alla prospettiva della giustizia riparativa non è stata ritenuta preclusiva all'avvio di un programma alla luce della previsione normativa per cui non è richiesto il consenso di tutte le parti interessate ed il percorso può essere intrapreso anche con vittima c.d. “aspecifica”, scopo dell'istituto essendo – chiosano i giudici monzesi – «il risanamento del conflitto – sia intrafamiliare sia sociale – generato dal commesso reato, anche in funzione di una maggiore futura sicurezza sociale tramite la procedura riconciliativa».

I programmi con vittima “aspecifica”

È ben nota agli operatori la difficoltà di agganciare le vittime dirette in percorsi di giustizia riparativa.  Anche per tale ragione, la riforma “Cartabia”, seguendo le indicazioni della legge-delega, accoglie la possibilità di percorsi con «vittima aspecifica», stabilendo espressamente che i programmi di giustizia riparativa possono essere partecipati anche da persona offesa di un reato diverso da quello per cui si procede (art. 53, comma 1, lett. a), d.lgs. n.150/2022).

Si tratta di una scelta sostenuta da un'autorevole posizione dottrinale a favore dell'utile attivazione di «un percorso di mediazione anche con una vittima aspecifica o surrogata. Questo consente all'autore di reato di avviare comunque un percorso di mediazione e non di rado porta benefici per entrambe le parti» (Mannozzi). Altra posizione adesiva alla scelta del legislatore delegato rileva che la possibilità di attivare programmi riparativi con vittima surrogata esprime un valore aggiunto nella peculiare e costante attenzione del disegno di riforma verso uno dei due poli centrali originati dal reato, con lo sguardo attento alle elaborazioni segnate dalla prassi mediativa (Maggio). 

La riforma “Cartabia”, dunque, apre alla possibilità di qualificare come espressione della giustizia riparativa programmi e misure che prescindono completamente dall'incontro e dal dialogo tra le parti. E poiché un incontro tra le parti è eventualità del tutto marginale ed eccezionale nella realtà, anche perché manca completamente il supporto alle vittime che possa valorizzarne la disponibilità, diventa estremamente complicato stabilire quali caratteristiche qualifichino come riparativi i programmi e le misure che vengono adottate nella giustizia penale.

I percorsi riparativi con vittima aspecifica — così afferma la Relazione illustrativa — non sconfessano il senso della restorative justice poiché «la vittima del reato differente non è un sostituto della vittima “diretta” e non è meno vittima di quest'ultima. Anche la vittima aspecifica, infatti, è vittima, ancorché vittima di un reato e non del reato». Volontà e consenso andrebbero, dunque, accertati non presso chi ha subito (effettivamente) l'offesa bensì acquisendo la disponibilità di altra vittima che diviene un surrogato della vittima reale e diretta.

Si realizza, in altri termini, una vera e propria sostituzione soggettiva che, stando alla già evocata Relazione illustrativa – costituirebbe «uno specifico valore aggiunto della giustizia riparativa rispetto a quella ‘convenzionale': un esempio per tutti è la possibilità di coinvolgere in programmi di giustizia riparativa la persona offesa di un reato che resta a carico di ignoti, persona alla quale, di tutta evidenza, la giustizia ‘classica' non ha nulla da offrire». 

Per altre opinioni, tuttavia, il rischio di una tale scelta è quello della perdita di centralità e concretezza della vittima (Bonini).

È ben vero, infatti, che, in alcuni casi, può essere nell'interesse della vittima (effettiva) un incontro/confronto con autori di reati simili a quelli subìti, di coloro da cui sono stati offesi, ma questo eventuale bisogno può essere assecondato senza che sia necessaria una specifica normazione, come dimostrano alcune prassi emerse a prescindere da una disciplina positiva.

Specularmente, qualora cioè sia la vittima ad essere surrogata, si attivano - come nel caso esaminato - programmi nei quali la vittima effettiva (specifica) rimane estranea al percorso «riparativo», che viene attivato e partecipato soltanto dall'autore di reato. In altri termini, nelle ipotesi di vittima aspecifica o surrogata, i programmi vengono definiti e trattati come “riparativi” benché prescindano completamente dall'incontro e dal dialogo tra gli effettivi protagonisti della vicenda criminosa.

Anche l'obiezione che, se venisse preclusa la possibilità di coinvolgimento di una vittima aspecifica si produrrebbero degli effetti discriminatori in danno di imputati o condannati per fattori non dipendenti dalla loro volontà, così privandoli di strumenti utili alla loro risocializzazione, non appare persuasiva, dal momento che vi sono tipologie di  programmi riparativi alternativi che consentono di evitare il potenziale effetto discriminatorio derivante dall'indisponibilità della vittima diretta.

La stessa giurisprudenza sembra nutrire qualche perplessità su tali tipologie di programmi. Nel celebre caso “Vallanzasca”, invero, la Cassazione, nel confermare la decisione del tribunale di sorveglianza di Milano che aveva respinto la domanda di liberazione condizionale nei confronti di un condannato per gravissimi reati, ha, invero, osservato che: « l'avviato percorso di mediazione penale ha un carattere piuttosto astratto e a-specifico, in quanto caratterizzato da manifestazioni formali e senza un reale, pur possibile, confronto con le vittime dei reati, che è stato raccolto dall'équipe con eccessiva accondiscendenza alla prospettazione del condannato che, in realtà, allo scopo di non confrontarsi con la dolorosa realtà del male arrecato, si è trincerato dietro il timore che la tardiva ricerca di un effettivo contatto con le persone offese potesse essere strumentalizzato» (Cass. civ. 12 luglio 2021, n. 19818, ric. Vallanzasca, CED).

Su analoghe posizioni è quella dottrina che osserva: «Non pare, però, che si possa parlare di giustizia riparativa per le vittime quando si faccia ricorso alle vittime c.d. aspecifiche o surrogate. Questi dispositivi ripropongono una dinamica «sostitutiva» tipica della giustizia tradizionale — dove il ruolo di offeso è sostituito dall'accusa pubblica — e rivelano una cultura fondamentalmente «reocentrica» che contrasta con la filosofia riparativa». E ancora, viene da riflettere sul fatto che «la vittima aspecifica o surrogata non fa che confermare la vittima nel suo ruolo più antico e tragico proprio della dinamica sostitutiva del sacrificio. Si prende una vittima disponibile — dunque sacrificabile e complice — per mettere a tacere il sentimento d'ingiustizia espresso dalla vittima reale e per permettere al responsabile di guadagnare il beneficio promesso dal dispositivo riparativo. Possiamo ancora riconoscere in una tale dinamica sostituiva una funzione riparativa? Può essere riparativo ciò che non è stato per nulla riparato? Una riparazione unilaterale non è un'aperta violazione del principio affermato in sede di definizione della giustizia riparativa?» (Bouchard).

Sotto altro aspetto, i programmi con vittima “surrogata” appaiono in contrasto con un principio-cardine della giustizia riparativa, affermato – tra l'altro – anche da una disposizione di diretta applicazione della direttiva 2012/29/UE (art. 12), ove si stabilisce che le misure che garantiscono la protezione delle vittime dalla vittimizzazione secondaria si applicano anche nel caso in cui la vittima scelga di partecipare a procedimenti di giustizia riparativa. Calata nel contesto della riforma “Cartabia”, tale garanzia impone che il mediatore non possa pretermettere l'interesse, la volontà e il consenso della vittima diretta.

La sostituzione, nel dialogo riparativo, del diretto interessato, della sua volontà e del suo consenso – al di fuori di eventuali casi di rappresentazione legale o giudiziale – costituisce, dunque, un atto autoritario, potenzialmente lesivo della vita privata (art. 8 CEDU), poiché il mancato rispetto dell'interesse della vittima diretta – e dunque l'omessa consultazione – ai fini di una mediazione con altra vittima, espone la prima ad un evidente rischio di seconda vittimizzazione che la direttiva 2012/29/UE impone di accertare e, soprattutto, di evitare.

Ancora, la direttiva 2012/29/UE precisa che una delle condizioni di accesso ai servizi di giustizia riparativa consiste proprio nel fatto che sia effettuato nell'interesse della vittima e sulla base del suo consenso libero e informato. Ma se manca il suo consenso siamo ancora nel campo della giustizia riparativa? È giustizia riparativa un percorso nel quale l'adesione della vittima non è stata ottenuta o, il che è lo stesso, sia frutto di una coercizione o di un vizio nella manifestazione della sua volontà? Occorre dunque riflettere sul rischio immanente di vittimizzazione secondaria che i programmi con vittima “surrogata” possono comportare che – giova ricordare – non sono esorcizzati dalla sola buona volontà di perseguire obiettivi di riscatto sociale ed appaiono francamente eccentrici rispetto agli obiettivi di responsabilizzazione e riconoscimento reciproco che dovrebbero fondare la restorative justice.

La problematica è ancora sul tappeto. In tema, si segnala la decisione con cui la Corte d'appello di Milano nell'ordinanza del 12 luglio 2023 ha rigettato l'istanza di ammissione a un programma di giustizia riparativa, presentata dalla persona indicata come autore dell'offesa, imputato ai sensi dell'art. 73 d.p.r. n. 309/1990. Il diniego è stato motivato in base alla circostanza che, nella fattispecie penale contestata, mancherebbe l'esistenza di una vittima, essendo lo spaccio di sostanze stupefacenti, di cui all'art. 73 della legge droga, “un reato privo di vittima”. La Corte rileva, in particolare, che «non è ontologicamente ipotizzabile un dialogo di alcun tipo, mancando la parte con cui intrattenere tale dialogo».

La giustizia riparativa senza i centri accreditati?

Sotto altro profilo, fin dalle prime sperimentazioni delle nuove procedure riparative, è emersa l'opportunità di adottare specifici protocolli operativi così da coordinare l'intervento delle numerose agenzie ed organi istituzionalmente preposti alla gestione dei percorsi di giustizia riparativa.

In tale contesto di primo avvio, si segnala lo “Schema operativo per l'applicazione degli istituti della giustizia riparativa” adottato il 3 agosto 2023 dalla Corte d'appello di Milano che si propone, appunto, di fissare prassi condivise tra i vari soggetti del procedimento penale al fine di “una diffusione ordinata ed uniforme dei nuovi istituti”. 

In particolare, si pone in rilievo l'opportunità di adottare prassi applicative differenziate tenuto conto della fase del procedimento (cognizione o esecuzione) e modalità di comunicazione che possano massimizzare la fruibilità dello strumento, “tenendo conto della limitatezza delle risorse.”

Un ulteriore punto di interesse del protocollo milanese è rappresentato dalla collaborazione che, in attesa della ricognizione dei Centri esistenti da opera della Conferenza locale (art. 42, comma 1, d.lgs. n. 150/2022), il sistema opererà con i Centri attualmente esistenti in attesa del loro ufficiale riconoscimento.

Lo schema operativo in esame, cui anche l'ordinanza monzese in analisi pare rifarsi, non pare, tuttavia, affrontare una criticità normativa che si era subito evidenziata fin dai primi commenti al d.lgs. n. 150/2022, relativa alla mancata previsione dell'obbligo per l'autorità giudiziaria di sentire, nel corso della fase di esecuzione, anche la vittima del reato prima di assumere la decisione sull'invio ad un Centro per la giustizia riparativa. Con una previsione di ordine generale, il ricordato atto prevede, infatti, che il giudice senta “tutte le parti”, anche nella forma cartolare, prima di adottare l'ordinanza con cui provvede ai sensi dell'art. 129-bis c.p.p.

Tuttavia, nel disciplinare la fase di esecuzione penale, il protocollo in esame stabilisce che il magistrato di sorveglianza possa inviare le parti al Centro per la giustizia riparativa “senza particolari formalità”, e che l'approvazione del programma di trattamento ai sensi dell'art. 69 ord. penit. legittimi l'Ufficio di sorveglianza a trasmettere il fascicolo al Centro per la giustizia riparativa.

Tale previsione appare in contrasto con la ratio sottesa alla disposizione dell'art. 129-bis c.p.p. e foriera di una deriva burocratica che rischia di innescare una “banalizzazione” dei percorsi riparativi, ai quali – se si dovesse seguire le indicazioni dello Schema operativo milanese – si darà accesso in modo indiscriminato senza una preventiva audizione delle parti.

Essa appare, inoltre, allo stato inattuabile per l'assenza dei Centri per la giustizia riparativa previsti dal d.lgs. n. 150/2022 e dunque, dall'eventuale attività di invio di condannati e internati a istituti che si occupano di mediazione non accreditati non potranno conseguire gli effetti favorevoli previsti dalla riforma.

In questo senso, del resto, si esprime la recente circolare del Capo Dipartimento della giustizia minorile e di comunità del 7 dicembre 2023, che espressamente vieta agli UEPE ogni coinvolgimento in protocolli o attività che riguardino la giustizia riparativa in assenza del completamento dell'iter di accreditamento dei mediatori esperti e dell'istituzione dei Centri.  

Una riflessione conclusiva

Il ricorso a programmi con vittima aspecifica è stato adottato in molti casi, benché sia difficile sottrarsi all'impressione che i programmi con vittima “surrogata”, consentendo la possibilità di accedere ad un programma di giustizia riparativa anche quando la vittima diretta non sia disponibile, sia contraria, sia deceduta, non sia stata reperita, si giustifichino essenzialmente nella prospettiva reocentrica del prevalente interesse dell'accusato/condannato.

Sotto altro profilo, l'avvio di programmi di giustizia riparativa nell'attuale fase in cui non sono operativi i Centri per la giustizia riparativa accreditati, pone in predicato la concreta utilità di tali percorsi ai fini dell'ottenimento dei vantaggi processuali riconosciuti dall'ordinamento in favore dell'imputato e del condannato.

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