Decreto legislativo - 12/01/2019 - n. 14 art. 256 - Societa' con soci a responsabilita' illimitata

Aldo Ceniccola

Società con soci a responsabilità illimitata

 1. La sentenza che dichiara l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale nei confronti di una società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo V del libro quinto del codice civile produce l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale anche nei confronti dei soci, pur se non persone fisiche, illimitatamente responsabili.

2. La liquidazione giudiziale nei confronti dei soci di cui al comma 1 non può essere disposta decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata anche in caso di trasformazione, fusione o scissione, se sono state osservate le formalità per renderle note ai terzi. La liquidazione giudiziale è possibile solo se l'insolvenza della società attenga, in tutto o in parte, a debiti esistenti alla data della cessazione della responsabilità illimitata.

3. Il tribunale, prima di disporre la liquidazione giudiziale nei confronti dei soci illimitatamente responsabili, ne ordina la convocazione a norma dell'articolo 41.

4. Se dopo l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale della società risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili, il tribunale, su istanza del curatore, di un creditore, di un socio nei confronti del quale la procedura è già stata aperta o del pubblico ministero, dispone l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale nei confronti dei medesimi. L'istanza può essere proposta anche dai soci e dai loro creditori personali.

5. Allo stesso modo si procede quando, dopo l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale nei confronti di un imprenditore individuale o di una società, risulta che l'impresa è riferibile ad una società di cui l'imprenditore o la società è socio illimitatamente responsabile.

6. Contro la sentenza del tribunale è ammesso reclamo a norma dell'articolo 51. Al giudizio di reclamo deve partecipare il curatore, il creditore, il socio o il pubblico ministero che proposto la domanda di estensione, nonché il creditore che ha proposto il ricorso per l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale.

7. In caso di rigetto della domanda, contro il decreto del tribunale l'istante può proporre reclamo alla corte di appello a norma dell'articolo 50.

Inquadramento

La norma riproduce, con qualche significativa modifica, il dettato del vecchio art. 147 l. fall.: essa disciplina e delimita l’estensione della sentenza di apertura della liquidazione giudiziale nei riguardi dei soci illimitatamente responsabili, estensione che si verifica in modo automatico a prescindere dalla verifica dell’insolvenza personale del socio e semplicemente in base al possesso dei requisiti soggettivi ed oggettivi necessari per la liquidazione giudiziale della società.

Così in primo luogo la norma dispone che la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale di una società di persone si estende automaticamente anche ai soci illimitatamente responsabili, siano essi persone fisiche o persone giuridiche (onde il fallimento in estensione potrà essere dichiarato anche nei riguardi di una s.r.l. o di una s.p.a. ove assuma la veste di socio illimitatamente responsabile di una società di persone).

Inoltre, attesa la necessità di contemperare l’affidamento dei creditori e l’eventuale aspirazione del socio a sciogliere il rapporto sociale, il secondo comma pone un limite alla liquidazione in estensione nei confronti di chi non possegga più la qualità di socio, ponendo la triplice condizione che non sia decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale o dalla cessazione della responsabilità illimitata, che risultino osservate le formalità pubblicitarie necessarie per rendere opponibile il fatto ai terzi e che l’insolvenza, che ha determinato la liquidazione giudiziale della società, attenga in tutto o in parte a debiti già esistenti alla data della cessazione della responsabilità limitata.

I commi 4 e 5 consentono, poi, rispettivamente l’estensione della liquidazione giudiziale al socio occulto di società palese e l’estensione alla società occulta: particolarmente significativa è la disposizione contenuta nel comma 5 che consente l’estensione alla società occulta della liquidazione giudiziale di una società che risulti socia della prima (c.d. supersocietà di fatto).

I commi 3, 6 e 7 disciplinano poi le modalità procedurali dell’estensione, valorizzando la necessità di garantire il diritto di difesa nelle forme dell’art. 41 c.c.i.i., la reclamabilità della sentenza dichiarativa ai sensi dell’art. 51 c.c.i.i. e del decreto di rigetto della domanda di estensione ai sensi dell’art. 50 c.c.i.i.

Estensione ai soci illimitatamente responsabili

Dalla lettura del primo comma si ricava innanzitutto l'assoggettabilità alla liquidazione giudiziale, quale conseguenza immediata ed automatica della liquidazione giudiziale della società, dei soci della società in nome collettivo (ancorché non iscritta nel registro delle imprese ex art. 2297 c.c.), ai sensi dell'art. 2291 c.c., e dei soci accomandatari nell'accomandita semplice e per azioni (cfr. rispettivamente gli artt. 2313 e 2452 c.c.), anche se le obbligazioni sociali, generative dell'insolvenza, erano anteriori all'acquisto della qualità di socio (art. 2269 c.c.).

L'esplicito riferimento ai modelli societari regolati nei capi III, IV e VI del titolo V induce tuttavia ad escludere la possibilità di estendere la liquidazione al socio unico azionista ed al socio unico quotista, ancorché illimitatamente responsabili per le obbligazioni sociali, rispettivamente ai sensi degli artt. 2325, comma 2, e 2462, comma 2, c.c.

La liquidazione giudiziale della società di capitali, poi, non ne comporta l'estensione nei confronti dei soci limitatamente responsabili per i quali l'unico effetto sarà quello previsto dall'art. 260 c.c.i.i. secondo il quale il giudice delegato, su proposta del curatore, può ingiungere con decreto di eseguire i versamenti ancora dovuti, ancorché non sia scaduto il termine stabilito per il pagamento.

Problematica è l'applicazione della norma al socio accomandante che abbia violato il divieto di ingerenza di cui all'art. 2320, comma 1, c.c. e che abbia acconsentito all'inserimento del proprio nome nella ragione sociale, ai sensi dell'art. 2314, comma 2, c.c. e dunque assuma la responsabilità personale ed illimitata per le obbligazioni sociali: la circostanza che l'accomandante risponda in tali casi solidalmente ed illimitatamente per tutte le obbligazioni sociali e non soltanto per quelle derivanti dalle specifiche operazioni nelle quali si è ingerito, induce a ritenere preferibile la soluzione affermativa.

Nel senso della non fallibilità dei soci illimitatamente responsabili delle società di capitali si è pronunciata anche la giurisprudenza di legittimità che ha rimarcato come l'art. 147 legge fall., nel testo risultante dalla novella di cui al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, preveda per le sole società in nome collettivo e quelle in accomandita (semplice o per azioni) l'estensione del fallimento al socio illimitatamente responsabile; esso, pertanto, implicitamente ribadisce l'incompatibilità del fallimento del socio con il principio, connaturato alle società di capitali, della limitazione della sua responsabilità, anche con riferimento ai casi in cui, per vicende particolari, detta limitazione possa venir meno, ma al contempo non esclude – al contrario affermandola, trattandosi di socio illimitatamente responsabile ex art. 2320, comma 1, c.c. – la fallibilità del socio accomandante che si sia ingerito nell'amministrazione della società (Cass. n. 21470/13 e Cass. n. 22256/2012).

Circa il problema dell'estensione del fallimento all'accomandante che abbia violato il divieto di cui all'art. 2320, la giurisprudenza ha accolto la soluzione positiva, rilevando che il socio accomandante cui sia stata conferita una procura institoria e che abbia compiuto atti di gestione nell'esercizio della stessa assume responsabilità illimitata, ai sensi dell'art. 2320 c.c., per tutte le obbligazioni sociali, e, pertanto, in caso di fallimento della società, fallisce anch'egli in estensione ai sensi dell'art. 147 l. fall. (Cass. n. 5069/2017).

Nello stesso senso Cass. n. 6771 del 2022 secondo cui <<La dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile resta assoggettata esclusivamente al termine previsto dal secondo comma dell'art. 147 l. fall. decorrente dall'iscrizione nel registro delle imprese di una vicenda, personale o societaria, che abbia determinato il venir meno della responsabilità illimitata, e tale disciplina trova applicazione anche al fallimento in estensione del socio accomandante di una società in accomandita semplice che, in quanto ingeritosi nella gestione, sia tenuto a rispondere illimitatamente per le obbligazioni sociali>>.

 La dottrina ha variamente giustificato il fenomeno dell'automatica estensione della procedura ai soci illimitatamente responsabili. Secondo la dottrina tradizionale l'estensione si giustificherebbe sulla base dello scopo, perseguito dal legislatore, di spronare i soci ad accorrere in aiuto della società per evitarne, ove possibile, la procedura concorsuale, senza trascurare l'ulteriore rilievo che l'inerzia dei soci di fronte alla minaccia del fallimento indica per lo più che tale dissesto è anche relativo al loro patrimonio e giova dunque tener riuniti in una sola procedura dei fallimenti che hanno così stretta attinenza e dipendenza tra loro (Bonelli, 232). Più di recente è stato evidenziato che le società caratterizzate dalla responsabilità illimitata di tutti o alcuni soci, che proprio per queste tipologie falliscono come conseguenza del fallimento della «loro» società, sono strumenti idonei a modulare in rapporto al mercato il massimo grado di responsabilità e conseguentemente, almeno sul piano teorico, il massimo grado di affidabilità, sicché le società personali proprio per la loro struttura e per i rischi diretti che il socio assume dovrebbero ingenerare nei rapporti commerciali e finanziari una fiducia massima, basata sull'assunto che il socio legherà indissolubilmente la sua vita imprenditoriale e personale a quella società (Tomasso, 1898).

Estensione alle persone giuridiche illimitatamente responsabili

L'art. 256 c.c.i.i. conferma la previsione, già contenuta nell'art. 147, comma 1, l.fall. riguardo all'estensione della procedura concorsuale anche ai soci non persone fisiche illimitatamente responsabili e dunque potranno soggiacere in estensione anche le società, di capitali o di persone, socie di società di persone ai sensi dell'art. 2361 c.c. che stabilisce che la «partecipazione in altre imprese» da parte di una società di capitali (arg. ex art. 111-duodecies disp. att. c.c.), ove comporti la «responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime», deve essere deliberata dall'assemblea, prevedendo che di tali partecipazioni gli amministratori diano specifica informazione nella nota integrativa del bilancio.

In tal modo la liquidazione giudiziale della società di persone si estenderà alla società di capitali che risponderà verso i creditori concorsuali della società di persone con tutto il proprio patrimonio; come pure nell'ipotesi in cui socio illimitatamente responsabile di una s.n.c. o di una s.a.s. sia altra società di persone, si potrà verificare una serie di procedure concorsuali in estensione collegate tra loro, tali da rappresentare il reale punto di emersione del fenomeno del gruppo di imprese.

La Cassazione ha precisato che «la partecipazione di una società a responsabilità limitata in una società di persone, anche di fatto, non esige il rispetto dell'art. 2361, comma 2, c.c., dettato per le società per azioni, e costituisce un atto gestorio proprio dell'organo amministrativo, il quale non richiede – almeno allorché l'assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell'oggetto sociale – la previa decisione autorizzativa dei soci, ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5, c.c.» (Cass. n. 10507/2016 e Cass. n. 1095/2016).

  Estensione al socio occulto di società palese

Il quarto comma dell'art. 256 c.c.i.i., riprendendo la disposizione già precedentemente contenuta nel testo anteriore alla riforma, consente l'estensione del fallimento al socio occulto di società palese.

Poiché la norma, come del resto anche la vecchia formulazione, non disciplina pure i presupposti per il riscontro in punto di fatto di tale fenomeno, è stato compito della giurisprudenza individuare gli indici rivelatori di tale figura.

Significativo è ad esempio quanto statuito da Cass. n. 6299/2007 secondo cui «l'esistenza del rapporto sociale, anche al fine della dichiarazione di fallimento del socio illimitatamente responsabile a norma dell'art. 147  l. fall., può risultare da indici rivelatori quali le fideiussioni e i finanziamenti in favore dell'imprenditore, allorquando essi – ancorché riguardanti il solo momento esecutivo dei rapporti obbligatori della società – siano, per la loro sistematicità e per ogni altro elemento concreto, ricollegabili ad una costante opera di sostegno dell'attività di impresa, qualificabile come collaborazione di un socio al raggiungimento degli scopi sociali».

In proposito Cass. n. 3271/2007 ha però evidenziato come tale sistematicità non debba essere intesa in senso meramente quantitativo, ben potendo un numero esiguo di interventi di finanziamento o di prestazione di garanzie costituire un idoneo indice rivelatore del rapporto societario in presenza di altre circostanze come, ad esempio, l'essere tali episodi collegati a momenti decisivi per lo sviluppo dell'impresa o per evitarne la crisi (nella specie, relativa a socio occulto che aveva rilasciato una sola fideiussione, la Corte ha confermato la decisione di merito, che aveva desunto la sussistenza del rapporto societario non solo da un'unica fideiussione, ma da un più ampio accertamento del complesso progetto imprenditoriale in cui essa si iscriveva come elemento determinante per l'inizio dell'attività).

In tema di società in accomandita semplice, poi, è stato significativamente osservato che la situazione di socio occulto non è idonea a far presumere la qualità di accomandatario, essendo all'uopo necessario accertare, di volta in volta, la posizione in concreto assunta dal socio, il quale, dunque, assume la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali, ex art. 2320 c.c., solo allorché contravvenga al divieto di compiere atti di amministrazione o di trattare o concludere affari in nome della società, dovendosi dunque escludere una responsabilità illimitata per un socio accomandante occulto di una siffatta società (Cass. n. 23211/2012).

Quanto alla rilevanza dei rapporti familiari, Cass. n. 27541 del 2019 ha evidenziato che «In tema di estensione del fallimento del titolare dell'impresa individuale agli altri componenti della famiglia, l'esistenza del contratto sociale può essere desunta, oltre che da prove dirette specificamente riguardanti i suoi requisiti ("affectio societatis", costituzione di un fondo comune, partecipazione agli utili ed alle perdite), anche da manifestazioni esteriori che, pur giustificabili alla luce del rapporto di coniugio o di parentela, siano rivelatrici, per il loro carattere di sistematicità e concludenza, delle componenti del rapporto societario, tra le quali particolare significatività può riconoscersi ai rapporti di finanziamento e di garanzia che siano ricollegabili ad una costante opera di sostegno dell'attività dell'impresa per il raggiungimento degli scopi sociali. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, sulla base delle sole prove testimoniali raccolte tra i dipendenti, aveva negato l'esistenza di una società di fatto in cui il coniuge e un figlio avevano sostenuto in modo continuativo l'attività di impresa mediante il rilascio sistematico di fideiussioni, garanzie ipotecarie e finanziamenti, nonché con l'incasso di assegni e l'utilizzazione di altre forme di liquidità d'impresa)».

Sul problema dell'applicabilità del termine decadenziale annuale di cui agli artt. 10 e 147, comma 2, l. fall. al socio occulto, Cass. n. 15488/2013 ha precisato che «l'art.  10, primo comma, l. fall., il quale – a seguito delle modifiche apportate con le riforme del 2006 e del 2007 – prevede che gli imprenditori individuali e collettivi possano essere dichiarati falliti entro il termine di un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, così realizzando un bilanciamento di valori tra il principio dell'affidamento dei terzi tutelato dalle iscrizioni nel registro dell'imprese e quelli della certezza delle situazioni giuridiche e della tutela dell'imprenditore, non è applicabile al socio occulto, che, per sua scelta, non è iscritto nel registro delle imprese e che conseguentemente non può pretendere l'osservanza del limite annuale per la sua dichiarazione di fallimento»; secondo tale pronuncia occorre evidenziare «come il legislatore abbia inteso adeguarsi ai principii affermati dalla Corte Costituzionale con le ordinanze n.  321 del 2002 e n.  36 del 2003, che già nel vigore della normativa precedente alla riforma del 2006-2007 aveva ritenuto che il termine annuale per la dichiarazione di fallimento entro l'anno dalla cessazione dell'impresa previsto dall'art. 10 l. fall. trovasse applicazione solo in riferimento alle società regolari ed ai soci regolari delle stesse». Tali considerazioni, dunque, rendono inattuali quei precedenti arresti giurisprudenziali che imponevano di accertare, ai fini della decorrenza del termine annuale per il socio occulto, il momento in cui lo scioglimento del rapporto fosse stato portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, dovendosi in concreto tenere conto in quella logica, del momento in cui i creditori ne avessero avuto conoscenza o lo avessero colpevolmente ignorato.

La giurisprudenza successiva ha dato continuità a tale indirizzo, affermando che «in caso di estensione del fallimento al socio occulto, non trova applicazione il termine annuale ai fini della dichiarazione di fallimento di cui all'art. 10 l.fall., in quanto si tratta di beneficio riservato soltanto a coloro che abbiano assolto all'adempimento formale dell'iscrizione, vale a dire a quei soli soggetti cui la norma si riferisce» (Cass. n. 6029/2021).

Anche la dottrina è sostanzialmente concorde con tale soluzione, osservandosi come il socio occulto possa essere dichiarato fallito in ogni tempo, evidenziandosi come risulterebbe quantomeno contraddittoria «l'idea di far decorrere il termine annuale dalla £esteriorizzazione” del venir meno di una situazione di fatto (la partecipazione sociale e la conseguente responsabilità illimitata) rimasta ignota ai terzi. La conseguenza è che l'ex socio occulto finisce in concreto per essere esposto sine die alla liquidazione giudiziale per effetto dell'apertura della procedura di insolvenza a carico della società un tempo partecipata» (Marzo, 2021).

Estensione e perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile

Mentre in base al primo comma della disposizione in commento l'estensione riguarda tutti coloro che posseggano la qualità di socio al momento della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale della società, il secondo comma precisa che l'estensione può colpire anche coloro che non posseggano più tale qualità purché non sia decorso un anno dallo scioglimento del rapporto sociale e sempre che l'insolvenza attenga, in tutto o in parte, a debiti esistenti al momento della cessazione della responsabilità illimitata.

La riforma recepisce le indicazioni fornite dalla Corte Costituzionale che, con sentenza n. 319/2000, aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale del previgente art. 147, comma 1, nella parte in cui prevedeva che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata di società fallita potesse essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata.

I fatti idonei a determinare la perdita della qualità di socio e rilevanti nell'ottica della disposizione in oggetto consistono nel recesso (art. 2285 c.c.), nell'esclusione (art. 2286 c.c.), nella cessione della quota della partecipazione a terzi, oppure nella cessazione della responsabilità illimitata per trasformazione (art. 2498 ss. c.c.), fusione (art. 2501 ss. c.c.) o scissione della società (art. 1506 ss. c.c.), ai quali va aggiunta la morte del socio (art. 2284 c.c.), nonché la perdita della carica di socio accomandatario e l'assunzione della qualità di accomandante.

La decorrenza del termine annuale va tuttavia ancorata non al momento in cui uno dei predetti fatti si sia verificato, dovendosi invece avere riguardo al momento in cui sono state osservate le formalità necessarie per rendere opponibile l'atto ai terzi e dunque, per le società regolari, al momento dell'iscrizione nel registro delle imprese.

A tale ultimo riguardo è stato precisato che «In tema di società di persone, il rapporto sociale tra la società e il socio illimitatamente responsabile, anche di fatto o occulto, non si scioglie in seguito alla cessazione dell'attività d'impresa della società non seguìta dalla cancellazione di quest'ultima dal registro delle imprese, con la conseguenza che il termine annuale previsto dall'art. 147, comma 2, l.fall., oltre il quale il socio non può più essere dichiarato fallito in conseguenza della dichiarazione di fallimento della società, decorre solo dall'iscrizione nel registro delle imprese dei fatti determinanti la perdita della qualità di socio illimitatamente responsabile e non dall'eventuale cessazione dell'attività d'impresa» (Cass. n. 22661/2021).

Anche il recesso del socio di società di persone, di cui non sia stata data pubblicità, ai sensi dell'art. 2290, comma 2, c.c., «non è opponibile ai terzi, non producendo esso i suoi effetti al di fuori dell'ambito societario; conseguentemente, il recesso non adeguatamente pubblicizzato non è idoneo ad escludere l'estensione del fallimento al socio ai sensi dell'art. 147 della legge fall., né assume rilievo il fatto che il recesso sia avvenuto oltre un anno prima della sentenza dichiarativa di fallimento, posto che il rapporto societario, per quanto concerne i terzi, a quel momento è ancora in atto. In particolare, non costituisce mezzo idoneo a portare il predetto recesso a conoscenza dei terzi il mero mutamento della ragione sociale della società di persone, con la eliminazione da essa del nome del socio receduto, potendo tale mutamento giustificarsi con altre ragioni» (Cass. n. 4865/2010).

Si sofferma, invece, sul problema dell'applicabilità del termine annuale all'estensione del fallimento al socio accomandante ingeritosi nell'amministrazione della società altra decisione (Cass. n. 22246/2012), secondo cui «la responsabilità illimitata del socio accomandante ingeritosi nell'amministrazione della società, sancita dall'art. 2320 c.c. che, a tal fine, lo equipara all'accomandatario, non è collegata a vicende personali o societarie suscettibili di pubblicizzazione nelle forme prescritte dalla legge, ma deriva dal dato meramente fattuale di tale ingerenza e non è destinata a venir meno per effetto della sola cessazione di quest'ultima, prescindendo la suddetta equiparazione da qualsiasi distinzione tra debiti sorti in epoca anteriore o successiva alla descritta ingerenza, ovvero dipendenti o meno da essa. Pertanto, l'estensione, in siffatte ipotesi ed alla stregua dell'art.  147 l. fall., del fallimento della società in accomandita semplice al socio accomandante non è soggetta ad altro termine di decadenza che non sia l'anno dalla iscrizione nel registro delle imprese di una vicenda, personale (ad esempio il recesso) o societaria (ad esempio la trasformazione della società), che abbia comportato il venir meno della sua responsabilità illimitata, escludendosi, invece, la possibilità di ancorare la decorrenza di detto termine alla mera cessazione dell'ingerenza nell'amministrazione».

Qualora la perdita della qualità di socio sia avvenuta per cessione di quote sociali di una s.n.c. ed il contratto sia stato risolto, la S.C. (Cass. n. 16169/2014) ha evidenziato che sebbene la risoluzione del contratto abbia effetto retroattivo tra le parti, il cedente non può tuttavia essere considerato socio della società anche nel periodo nel quale le quote sono rimaste di fatto nella disponibilità del cessionario, atteso che, giusta la pubblicità di quel contratto effettuata sul registro delle imprese, i terzi che vengono in contatto con la società non potrebbero individuare come socio altri che il cessionario, così confidando sulla garanzia costituita dal suo patrimonio personale: decorso più di un anno dalla cessione, dunque, il fallimento non potrà essere più esteso al cedente.

Con riferimento alle società irregolari (di fatto) si è posto il problema se tra le formalità di cui all'art. 147, comma 2, possano essere ricompresi anche i «mezzi idonei» di cui all'art. 2290, comma 2, c.c., rimanendo incerto, dunque, se per tali società il limite del termine annuale debba essere valutato con riferimento al momento in cui lo scioglimento del vincolo sociale sia stato portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, ovvero quel limite sia radicalmente inoperante (Abete, 96).

Prevalente appare la prima soluzione, osservandosi al riguardo che l'art. 147, comma 2, laddove opera un riferimento all'osservanza delle formalità idonee a rendere noti i fatti ai terzi, non rinvia solo all'iscrizione di tali fatti nel registro delle imprese, rinvio operante solo nel caso delle società regolari, ma rimanda più ampiamente a tutti i mezzi idonei a garantire la conoscenza dei terzi come previsto dall'art. 2290, comma 2, norma che, riguardando anche le società non iscritte, consente al socio di dimostrare di aver portato a conoscenza dei terzi il proprio recesso e che da quel momento è decorso oltre un anno (Caridi, 904; Blatti, 1125).

Estensione della società occulta

Nella precedente legge fallimentare, il quinto comma dell'art. 147 consentiva l'estensione del fallimento dell'imprenditore individuale alla società occulta, intesa come società di persone irregolare, in cui il vincolo sociale tra l'imprenditore dichiarato fallito ed altri soggetti non è esteriorizzato.

Rispetto alla sua precedente formulazione quindi, l'art. 147 l.fall., se da un lato aveva definitivamente confermato la possibilità di estendere il fallimento dell'imprenditore individuale alla società occulta ed agli altri soci illimitatamente responsabili, lasciava aperto il problema se fosse possibile estendere il fallimento di una società, anche di capitali, ad altre società o persone fisiche costituenti con la prima una società di persone (cd. supersocietà di fatto).

La questione venne risolta affermativamente dalla giurisprudenza di legittimità sebbene ponendo determinate condizioni ed ulteriormente risolvendo il problema collegato al fatto che la partecipazione venisse assunta dall'amministratore senza una previa delibera assembleare e la indicazione nella nota integrativa al bilancio, come richiesto dall'art. 2361, comma 2, c.c.

Ponendosi in linea di continuità con tale indirizzo, il nuovo art. 256, comma 5, c.c.i.i., ha confermato in modo esplicito la possibilità di tale estensione, prevedendo che «allo stesso modo si procede quando, dopo l'apertura della procedura di liquidazione giudiziale nei confronti di (…) una società, risulta che l'impresa è riferibile ad una società di cui (…) la società è socio illimitatamente responsabile».

G   In tema di supersocietà di fatto, la Cassazione aveva già compiutamente precisato le condizioni per l'applicabilità dell'art. 147, comma 5, l. fall., chiarendo che la norma, in virtù di un'interpretazione estensiva, trova applicazione «anche laddove il socio già fallito sia una società, anche di capitali, che partecipi, con altre società o persone fisiche, ad una società di persone (cd. supersocietà di fatto) – non assoggettata ad altrui direzione e coordinamento – la cui sussistenza, però, postula la rigorosa dimostrazione del comune intento sociale perseguito, che dev'essere conforme, e non contrario, all'interesse dei soci, dovendosi ritenere che la circostanza che le singole società perseguano, invece, l'interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, anche solo di fatto, costituisca, piuttosto, una prova contraria all'esistenza della supersocietà di fatto e, viceversa, a favore dell'esistenza della holding di fatto, nei cui confronti il curatore potrà eventualmente agire in responsabilità e che potrà essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l'insolvenza a richiesta di un creditore» (Cass. n. 10507/2016).

Più nello specifico, quanto al problema dei requisiti imposti dall'art. 2361, comma 2, c.c. era stato stato precisato che «la partecipazione di una società a responsabilità limitata in una società di persone, anche di fatto, non esige il rispetto dell'art. 2361, comma 2, c.c., dettato per le società per azioni, e costituisce un atto gestorio proprio dell'organo amministrativo, il quale non richiede – almeno allorché l'assunzione della partecipazione non comporti un significativo mutamento dell'oggetto sociale (fattispecie estranea al caso di specie) – la previa decisione autorizzativa dei soci, ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5, c.c. Pertanto, accertata l'esistenza di una società di fatto insolvente della quale uno o più soci illimitatamente responsabili siano costituiti da società a responsabilità limitata, il fallimento in estensione di queste ultime costituisce una conseguenza ex lege prevista dall'art. 147, comma 1, l. fall., senza necessità dell'accertamento della loro specifica insolvenza».

Sulla questione era intervenuta anche la Corte Cost. con sentenza n. 255/2017 per dirimere i dubbi di legittimità costituzionale dell'art. 147, comma 5, l. fall., sollevati nell'ordinanza remittente, in quanto la norma «nel ricollegare alla dichiarazione del fallimento di un imprenditore individuale la possibilità del fallimento in estensione di altro soggetto (persona fisica o giuridica) che risulti socio (di fatto) dell'originario fallito» contrasterebbe con gli artt. 3 e 24 Cost. «nella parte in cui, nell'ipotesi di fallimento originariamente dichiarato nei confronti (come nella specie) di una società di capitali, non ne consentirebbe, invece, la estensione ad altri soci di fatto, siano essi persone fisiche o società. Con ciò, appunto, innescando una irragionevole disparità di trattamento tra impresa individuale e società di capitali agli effetti dell'estendibilità del rispettivo fallimento» e privando altresì i creditori della società di capitali del potere di soddisfarsi sul patrimonio dei soci di fatto della società fallita.

Nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale, la Corte espressamente richiamando gli orientamenti espressi dalla Cassazione (tramite le due pronunce sopra richiamate), ha ricordato come al riferimento alla nozione di imprenditore individuale, contenuto nella norma in esame, vada assegnata, ratione temporis, una valenza meramente indicativa dello stato dell'arte all'epoca in cui la norma è stata concepita e che non è di ostacolo all'accoglimento di un'interpretazione estensiva che, tenuto conto del mutato contesto nel quale attualmente trova applicazione, ne adegui la portata in senso evolutivo, includendovi fattispecie non ancora prospettabili alla data della sua emanazione, concludendo che «la disposizione denunciata già, dunque, vive e si riflette nell'interpretazione, costituzionalmente adeguata, che equipara la società di capitali all'impresa individuale ai fini della estendibilità del fallimento agli eventuali rispettivi soci di fatto».

Ulteriori precisazioni sono poi intervenute ad opera della giurisprudenza più recente. Così, quanto alla distinzione tra la supersocietà di fatto e la holding di fatto, è stato chiarito che «La supersocietà di fatto si differenzia dalla holding di fatto perché, mentre nella prima tutti i soci perseguono un comune intento sociale, nella seconda le singole società perseguono l'interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo, le quali, oltre a rispondere, ex art. 2497 c.c., dell'abuso di attività di direzione e coordinamento ai curatori dei fallimenti delle singole società sottoposte a tale attività, possono anche essere, a loro volta, dichiarate fallite, ove ne sia accertata l'insolvenza, a richiesta dei soggetti legittimati» (Cass. n. 4784/2023).

Quanto al controllo dell'insolvenza, la giurisprudenza ha precisato che «Ai fini della dichiarazione di fallimento della c.d. "supersocietà" di fatto è imprescindibile l'accertamento della sua specifica insolvenza, che è autonoma rispetto a quella di uno o più dei suoi soci, rappresentando quest'ultima una mera circostanza indiziante» (Cass. n. 6030/2021).

Quanto all'individuazione del tribunale competente, Cass. n. 4712/2021 ha affermato che «l'art. 147, comma 5, l.fall. trova applicazione anche qualora il socio già fallito sia una società partecipe con altre società o persone fisiche ad una società di persone (cd. "supersocietà di fatto"), nel qual caso, in deroga all'art. 9 l.fall., la competenza alla dichiarazione di fallimento in estensione si radica presso il tribunale ove risulta già pendente la procedura concorsuale riguardante il socio, venendo in rilievo il principio di prevenzione sancito dai commi 4 e 5 dell'art. 9 anzidetto e dall'art. 40 c.p.c. e costituendo il fallimento della società, che sia socia illimitatamente responsabile, l'occasione per accertare anche la distinta insolvenza della supersocietà di fatto».

D   Anche la dottrina più recente ha sostanzialmente condiviso la lettura estensiva dell'art. 147, comma 5, l. fall., rimarcando l'ulteriore rilievo, ben presente anche nella giurisprudenza di legittimità sopra riportata, secondo cui la circostanza che le singole società, organizzate verticalmente, perseguano l'interesse delle persone fisiche che ne hanno il controllo (anche solo di fatto) costituisce, tuttavia, prova contraria all'esistenza della supersocietà di fatto e, viceversa, prova a favore dell'esistenza di una holding di fatto, nei cui confronti il curatore potrà eventualmente agire in responsabilità e che potrà eventualmente essere dichiarata autonomamente fallita, ove ne sia accertata l'insolvenza a richiesta di un creditore (Fimmanò, 1197).

Sotto il regime del nuovo art. 256, comma 5, c.c.i.i., poi, altra parte della dottrina non ha mancato di sottolineare il mancato intervento del legislatore su alcuni problemi interpretativi posti dall'estensione, quali l'individuazione del tribunale competente, l'identificazione degli indici sintomatici che consentono di ritenere raggiunta la dimostrazione del comune intento sociale perseguito da parte dei soci (dovendosi evitare di confondere tali indici con i rapporti fisiologici che legano le società del gruppo) e la prova dello stato di insolvenza della supersocietà di fatto occulta (D'Attorre, 1263).

Profili processuali

L'art. 256 c.c.i.i. contiene (in linea di continuità con il precedente art. 147 l.fall.) tre disposizioni volte a disciplinare il procedimento di estensione del fallimento evidenziando: la necessità di disporre la convocazione dei soci illimitatamente responsabili ai sensi dell'art. 41 c.c.i.i.; la possibilità di proporre reclamo contro la sentenza che dichiara l'estensione ex art. 51 c.c.i.i.; l'esperibilità, ad opera dell'istante in caso di rigetto della domanda di estensione, del reclamo a norma dell'art. 50 c.c.i.i.

Quanto alla legittimazione attiva, il quarto comma del precedente art. 147 l.fall. richiamava la necessità dell'istanza del curatore, del creditore o di un socio fallito, residuando i dubbi se l'iniziativa del curatore dovesse essere sorretta dall'autorizzazione del giudice delegato e se la legittimazione a richiedere l'estensione potesse competere anche al pubblico ministero (dubbi risolti in dottrina, rispettivamente, in modo negativo ed affermativo). Il nuovo comma 4 dell'art. 256 c.c.i.i. è intervenuto per risolvere positivamente la questione della legittimazione del pubblico ministero.

Altro profilo, oggetto di attuale contrasto in giurisprudenza, è se i creditori che hanno proposto l'originario ricorso di fallimento siano o meno litisconsorti necessari nel procedimento di estensione promosso su iniziativa del curatore: su tale questione, il comma 6 dell'art. 256 c.c.i.i. è intervenuto per ammetterne la partecipazione quantomeno nel giudizio di reclamo contro la sentenza di estensione pronunciata dal tribunale.

Resta invece esclusa la possibilità di procedere d'ufficio alla dichiarazione di fallimento in estensione, salva l'ipotesi in cui l'esistenza di soci di fatto illimitatamente responsabili, sia palesi che occulti, venga accertata già nel corso del procedimento prefallimentare.

Quanto al reclamo contro la sentenza di estensione, a norma dell'art. 51 c.c.i.i., fermo restando che l'impugnazione del socio dichiarato fallito in estensione non può riguardare il fallimento della società, potendo le contestazioni afferire solo alla mancanza della sua qualità di socio o di socio illimitatamente responsabile, va condivisa l'opinione secondo cui la revoca del fallimento del socio illimitatamente responsabile non comporta alcun effetto sul fallimento della società o degli altri soci, che proseguirà regolarmente, mentre la revoca del fallimento della società determina la caducazione automatica del fallimento dichiarato in estensione, venendo in rilievo una procedura accessoria rispetto a quella principale.

Quanto al reclamo avverso il decreto di rigetto del tribunale, il decreto con il quale la corte di appello accolga o rigetti il reclamo non è impugnabile in sede di legittimità ex art. 111, comma 7, Cost. essendo privo dei caratteri della decisorietà e della definitività.

Sul problema del litisconsorzio necessario con i creditori originariamente ricorrenti per il fallimento della società, la soluzione affermativa era stata rimarcata da Cass. n. 4917/2017 secondo cui «I creditori che hanno proposto il ricorso di fallimento nei confronti dell'imprenditore apparentemente individuale sono litisconsorti necessari nel procedimento di estensione previsto dagli artt. 15 e 147, comma 5, l. fall., compresa la fase dell'eventuale reclamo, avendo l'interesse, non delegabile al curatore né ad altro legittimato che abbia assunto l'iniziativa, ad evitare che, sui beni del socio già dichiarato fallito, possano concorrere, ex art. 148 l. fall., i creditori della società occulta» (nello stesso senso v. Cass. n. 24112/2015 che ha escluso il litisconsorzio necessario nei soli confronti dell'accomandatario già fallito).

Una differente soluzione è stata invece prospettata da Cass. n. 21430/2016 la quale ha affermato che «i creditori che hanno proposto il ricorso di fallimento nei confronti di una società di persone o di un imprenditore apparentemente individuale non sono litisconsorti  necessari nel procedimento di fallimento in estensione previsto dagli artt. 15 e 147 legge fall. promosso ad istanza del curatore, neppure ai fini della condanna alle spese processuali, che il presunto socio potrebbe reclamare nei confronti dello stesso curatore». Tale pronuncia ha ulteriormente precisato che «i predetti creditori sono, invece, litisconsorti necessari nel giudizio di reclamo alla sentenza dichiarativa di fallimento proposto dal socio illimitatamente responsabile, cui il fallimento sia stato successivamente esteso, in ragione dei pregiudizi che la revoca del fallimento potrebbe arrecare alle loro pretese, che, a norma dell'art. 148 l. fall., si intendono dichiarate anche nel fallimento dei singoli soci» (nello stesso senso v. pure Cass. n. 10795/2014).

Del solo litisconsorzio nella fase di reclamo si è occupata, invece, Cass. n. 29288/2021, affermando che «Gli originari creditori istanti per il fallimento di una società di persone o di un imprenditore individuale assumono la posizione di litisconsorti necessari nel giudizio di reclamo proposto dal socio illimitatamente responsabile, attinto dalla dichiarazione di fallimento in estensione ai sensi dell'art. 147, commi 4 e 5, l.fall. (In applicazione del principio, la S.C. ha respinto il ricorso del socio dichiarato fallito in estensione contro la pronuncia di estinzione del reclamo ex art 18 l. fall. per mancata integrazione del contraddittorio, nel termine assegnato dal giudice, nei confronti di uno dei creditori che avevano richiesto il fallimento della società di persone)».

Tale ultima soluzione, come si è detto, è proprio quella accolta dal nuovo comma 6 dell'art. 256 c.c.i.i..

La non necessità dell'autorizzazione del giudice delegato ai sensi dell'art. 25, n. 6, l. fall., allorché la domanda di estensione venga proposta dal curatore, è rimarcata da Cass. n. 12947/2014 «atteso che, a seguito del notevole ridimensionamento del ruolo del giudice delegato operato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, la decisione di agire o di resistere in giudizio non può più configurarsi come frutto di una scelta sostanzialmente a questi spettante, ma deve, al contrario, ritenersi una scelta del curatore, rispetto alla quale l'autorizzazione del giudice testimonia l'avvenuto controllo della legittimità (e non anche del merito) dell'iniziativa, evidentemente non necessaria allorché detta iniziativa sia doverosa e la legittimazione del curatore sia già espressamente prevista dalla legge, come appunto nell'ipotesi disciplinata dall'art. 147, quarto comma, legge fall.».

Quanto ai poteri officiosi del tribunale, Cass. n. 22594/2015 ha evidenziato che «la dichiarazione di fallimento di una società di persone si estende automaticamente ai soci illimitatamente responsabili, ivi compresi i soci di fatto, sia palesi che occulti, tali dovendo essere qualificati gli eredi del socio che manifestino per facta concludentia la volontà di partecipare alla compagine sociale. Pertanto, laddove tale qualità venga accertata già nel corso del procedimento prefallimentare, è comunque possibile procedere alla dichiarazione di fallimento dei soci non risultanti dall'atto costitutivo (o da altro atto scritto comprovante l'acquisto della loro partecipazione), senza necessità che venga presentata un'apposita istanza di estensione ai sensi dell'art. 147, comma 4, l. fall.». L'orientamento ha successivamente trovato conferma in Cass. n. 5234 del 2019 secondo cui «laddove nel corso del procedimento prefallimentare venga accertata l'esistenza di soci non risultanti dall'atto costitutivo (o da altro scritto comprovante l'acquisto della partecipazione), è comunque possibile estendere nei loro confronti la dichiarazione di fallimento, senza necessità che venga presentata l'apposita istanza di estensione di cui all'art. 147, comma 4, l.fall. ».

Circa le contestazioni che il socio dichiarato fallito in estensione può muovere in sede di reclamo avverso la sentenza di fallimento in estensione, Cass. n. 7769/2017 ha confermato che questi non è legittimato a contestare il fondamento della dichiarazione di fallimento della società, in quanto «la sentenza dichiarativa di fallimento precedentemente pronunciata nei confronti della società fa stato erga omnes e, quindi, anche nei confronti del socio occulto o di fatto della società di persone che, nella qualità di interessato, aveva la facoltà di proporre reclamo, quale titolare di una posizione giuridica che poteva ricevere pregiudizio dalla pronuncia del fallimento sociale».

Sulla non ricorribilità per cassazione dei decreti emessi dalla Corte di appello in sede di reclamo, Cass. n. 19096/2007 ha statuito che «il decreto con cui la Corte d'appello accoglie, ai sensi degli artt. 22 terzo comma e 147 legge fallimentare, il reclamo avverso il provvedimento di rigetto di estensione del fallimento alla società di fatto ed ai soci non è impugnabile con ricorso per cassazione nemmeno a seguito della modifica dell'art. 360 c.p.c., di cui all'art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, difettando i requisiti, pur sempre necessari, della definitività e della decisorietà, in quanto l'incidenza sui diritti soggettivi delle parti coinvolte, deriva dalla successiva dichiarazione di fallimento, di cui il provvedimento della Corte d'appello costituisce un momento del relativo complesso procedimento».

Anche la dottrina ha per lo più condiviso l'idea sostenuta in giurisprudenza secondo cui la domanda di estensione proposta dal curatore non richieda l'autorizzazione del giudice delegato (Abete, 98), anche se non manca chi, in senso contrario, ha sottolineato come sembri più coerente con l'intero assetto normativo che il curatore prima di intraprendere l'iniziativa richieda al giudice delegato l'autorizzazione a promuovere la domanda di estensione (Fabiani, 1170 ss.).

Sulla legittimazione del pubblico ministero, la soluzione affermativa, poi confermata dal c.c.i.i., era stata già in precedenza argomentata in base al rilievo che come il fallimento della società, che determina il fallimento dei soci illimitatamente responsabili ai sensi dell'art. 147, comma 1, l. fall., può essere dichiarato anche su richiesta del pubblico ministero, a norma degli artt. 6 e 7 l. fall., analogamente non si vede in che modo tale ipotesi possa essere distinta da quella in cui il socio illimitatamente responsabile, palese (art. 147, comma 4, l. fall.) ovvero occulto (art. 147, comma 5, l. fall.) – che, se dichiarato fallito, risponde dei reati fallimentari al pari dell'imprenditore (artt. 222, 216 e 217 l. fall.) – sia risultato solo dopo la dichiarazione di fallimento della società (Dongiacomo, 918).

Bibliografia

Abete, Il fallimento di imprenditori collettivi, in Le riforme delle procedure concorsuali, a cura di Didone, Milano, 2016, II; Abete, Il fallimento della supersocietà (di fatto) occulta: «controindicazioni» applicative, in Soc. 2017, 169; Abete, Il fallimento delle società, in Fallimento e concordati, a cura di Celentano e Forgillo, Torino, 2008; Blatti, La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, a cura di Ferro, Padova, 2007; Bonelli, Del fallimento, Milano, 1938; Caridi, La riforma della legge fallimentare, a cura di Nigro e Sandulli, Torino, 2006; D’Attorre, La liquidazione giudiziale delle società e delle imprese collettive non societarie, in Fall., 2019, 1257 ss.; Dongiacomo, Sub art. 147 l. fall., in Codice della crisi di impresa, diretto da F. Di Marzio, Milano, 2017; Fabiani, Riflessi costituzionali del nuovo assetto degli organi giurisdizionali del fallimento e procedimento di estensione del fallimento del socio, in Fall. 2010, 1170; Fimmanò, Il fallimento ascendente della supersocietà di fatto in liquidazione per subornazione delle società dominate, in Fall. 2016, 1189; Marzo, Fallimento e liquidazione giudiziale delle società, Dalla legge fallimentare al codice della crisi, Milano, 2021; Tomasso, Sub art. 147, in Codice commentato del fallimento, diretto da Lo Cascio, Milano, 2015; Vassalli, La legge fallimentare dopo la riforma, a cura di Nigro, M. Sandulli e V. Santoro, Torino, 2010, II.

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