Cartella clinica: compilazione, conservazione e valore probatorio nel giudizio di responsabilità sanitaria
13 Febbraio 2024
1. Introduzione Nel giudizio di responsabilità sanitaria la cartella clinica costituisce un documento pressoché indefettibile ai fini di una completa ricostruzione della degenza e, conseguentemente, di una corretta valutazione dell’operato dei professionisti coinvolti nel trattamento. D’altro canto, risulterebbe alquanto riduttivo guardare al documento come ad una mera ricognizione del ricovero, atteso che la cartella clinica viene formata non ex post ma già nel corso della degenza, restituendo un flusso continuamente aggiornato di informazioni che consentono ai professionisti coinvolti nel trattamento di individuare, di volta in volta, le più idonee misure da intraprendere nell’interesse del paziente. Date tali premesse, potrà dunque apparire sorprendente come – a tutt’oggi – il legislatore non sia giammai intervenuto per definire compiutamente il contenuto del documento nonché per declinare più specifiche regole di compilazione e di conservazione dello stesso. Ed infatti, con l’eccezione di alcune sporadiche disposizioni (tanto generiche quanto disorganiche), lo “statuto” della cartella clinica è andato via via definendosi grazie all’irrinunciabile contributo della giurisprudenza che, chiamata di volta in volta a pronunciarsi sulla responsabilità civile e penale del professionista sanitario, ha col tempo enucleato una serie di principi che governano la produzione del documento nonché il suo impiego all’interno del processo. Obiettivo del presente contributo è, dunque, quello di “mappare” tale statuto e di individuare i profili di maggiore criticità connessi all’eventuale violazione delle regole enucleate dalla giurisprudenza ai fini di una corretta tenuta della cartella clinica. 2. La compilazione della cartella clinica Quella che, ancora oggi, può essere ritenuta l’unica definizione normativa della cartella clinica è contenuta nell’art. 24 c. 1 DM 5 agosto 1977 in cui si dispone che “in ogni casa di cura privata è prescritta, per ogni ricoverato, la compilazione della cartella clinica, da cui risultino le generalità complete, la diagnosi di entrata, l'anamnesi familiare e personale, l'esame obiettivo, gli esami di laboratorio e specialistici, la diagnosi, la terapia, gli esiti e i postumi”. Per quanto la disposizione faccia espresso riferimento alle case di cura private, le informazioni contemplate dalla norma costituiscono di fatto il contenuto tipico della cartella clinica e, pertanto, la definizione di cui sopra può essere estesa senza alcuna riserva anche al documento redatto all’interno di una struttura sanitaria pubblica (l’unica differenza attiene non al contenuto bensì al valore probatorio del documento, ma sul punto torneremo più avanti).
Sono sempre la pratiche della miglior scienza medica (così come confluite nel codice deontologico) a fornirci più specifiche indicazioni per una corretta compilazione della cartella clinica. In tale prospettiva viene appunto in rilievo l’art. 26 codice deontologico secondo cui il medico:
La disposizione, per come formulata, coglie puntualmente la duplice funzione del documento che è stata già evidenziata in apertura del presente contributo: ed infatti, se da un lato chiarezza e completezza costituiscono requisiti imprescindibili affinché la cartella clinica consenta di ricostruire ex post quanto avvenuto nel corso della degenza, dall’altro il principio di contestualità della compilazione risponde all’esigenza che i professionisti coinvolti dispongano sempre di un quadro clinico aggiornato e, dunque, possano assumere le iniziative terapeutiche più appropriate nell’interesse del paziente. L’assoluta rilevanza di tale ultimo principio è altresì confermata dalla giurisprudenza penale che più volte ha avuto modo di chiarire come:
Si consideri, peraltro, come tale principio sia stato più recentemente ribadito anche con riguardo ad una fattispecie in cui l’alterazione della cartella clinica era consistita nell’annotazione di un’attività effettivamente svolta ma in data antecedente rispetto a quella riportata nel documento: ebbene, con riguardo a tale ipotesi, la Corte ha tenuto a sottolineare come sia del tutto irrilevante il fatto che “il soggetto agisca per ristabilire la verità effettuale, in quanto la cartella clinica acquista carattere definitivo in relazione ad ogni singola annotazione ed esce dalla sfera di disponibilità del suo autore nel momento stesso in cui la singola annotazione viene registrata, trattandosi di atto avente funzione di diario della malattia e di altri fatti clinici rilevanti, la cui annotazione deve avvenire contestualmente al loro verificarsi” (Cass. pen. 22 ottobre 2018 n. 55385). Più avanti avremo modo di verificare come, invero, solo la cartella clinica redatta presso una struttura sanitaria pubblica o privata convenzionata possa assumere il valore dell’atto pubblico (con conseguente irrogazione, per l’ipotesi di falso, delle sanzioni previste dagli art. 476 e s. c.p.): nondimeno, il principio espresso dalla Corte (financo con riguardo ad annotazioni postume che siano rispondenti al vero) dimostra quanto il rispetto del principio della contestualità costituisca condizione imprescindibile affinché la cartella possa assolvere alla funzione di orientare i professionisti sanitari già nel corso della degenza e, dunque, contribuire alla realizzazione della sicurezza della cure che, non casualmente, viene eletta a obiettivo programmatico dall’art. 1 della L. 24/2017 (c.d. Legge Gelli). In tal prospettiva dovremmo peraltro considerare come l’art. 47-bis c. 1 DL 5/2012 (convertito con L. 35/2012) abbia “avviato” il processo di digitalizzazione della cartella clinica, prevedendo che “nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, nei piani di sanità nazionali e regionali si privilegia la gestione elettronica delle pratiche cliniche, attraverso l'utilizzo della cartella clinica elettronica”: ebbene, trattasi all’evidenza di una norma di carattere programmatico, la cui effettiva attuazione è di fatto rimessa alle istituzioni sanitarie; d’altro canto, non vi è dubbio che l’adozione di specifici software (i quali consentano la generazione della cartella clinica quale documento informatico e ne garantiscano l’immodificabilità secondo le Linee Guida approvate dall’Agenzia per l’Italia Digitale in attuazione dell’art. 71 D.Lgs. 82/2005 – c.d. CAD) ben potrebbe costituire il primo presidio, prima ancora della sanzione penale, contro eventuali abusi che possano alterare la genuinità del documento.
3. I soggetti tenuti alla compilazione Occorre a questo punto individuare, all'interno della struttura pubblica o privata, quali siano i soggetti tenuti alla compilazione della cartella clinica. Ebbene, con specifico riguardo alle strutture sanitarie pubbliche, l'art. 7 c. 3 DPR 128/1969 dispone che “il primario è responsabile della regolare compilazione delle cartelle cliniche, dei registri nosologici e della loro conservazione, fino alla consegna all'archivio centrale”. Con riguardo, invece, alle strutture private, l'art. 24 DM 5 agosto 1977 dispone più che “le cartelle cliniche [devono essere] firmate dal medico curante, dovranno portare un numero progressivo ed essere conservate a cura della direzione sanitaria”. Ci troviamo al cospetto, dunque, di una disciplina disorganica che parrebbe differenziare il trattamento tra i professionisti che operano all'interno delle strutture pubbliche e quelli che operano all'interno delle strutture private. Tale apparente discrasia, nondimeno, è stata in parte risolta dalla Cassazione che - proprio di recente - ha ritenuto di applicare l'art. 7 c. 3 DPR 128/1969 anche al primario che operi all'interno di una struttura privata (Cass. 13 luglio 2018 n. 18567) e, in effetti, tale conclusione può certamente essere condivisa, dal momento che non sussistono validi motivi per discriminare tra strutture pubbliche e strutture private (ciò a maggior ragione ove si consideri come il Servizio Sanitario Nazionale sia fortemente integrato da enti privati convenzionati). Piuttosto, occorre indagare l'effettiva portata del principio espresso dalla Cassazione laddove afferma che “ai sensi dell'art. 7 DPR 128/1969 responsabile della tenuta della cartella clinica è il medico (in particolare, il responsabile dell'unità operativa ove è ricoverato il paziente)”. Ebbene, per tutte le ragioni di cui è detto in precedenza, pare evidente che la cartella clinica, dovendo assolvere alla funzione di diario del ricovero, debba essere compilata e costantemente aggiornata dal professionista alle cui cure è stato materialmente affidato il paziente all'interno del reparto. Nulla esclude, ovviamente, che il primario medesimo possa praticare (così come espressamente previsto dal medesimo art. 7 DPR 128/1969) “gli interventi diagnostici e curativi che ritenga di non affidare ai suoi collaboratori” e, dunque, annotare egli stesso le attività svolte; d'altro canto, è evidente che – fatta eccezione per tale ipotesi – il primario non è direttamente coinvolto nelle cure del paziente e, conseguentemente, nella redazione del documento. Già solo per questo, pare a chi scrive che l'art. 7 DPR 128/1969 (nella parte in cui dispone che “il primario è responsabile della regolare compilazione delle cartelle cliniche”) debba essere intepretata nel senso che il primario, nel suo ruolo apicale, è tenuto a “vigilare” sulla corretta tenuta delle cartelle cliniche da parte dei medici del proprio reparto. Tale soluzione, del resto, è imposta proprio dal principio di contestualità delle annotazioni (così come enucleato dalla giurisprudenza penale – supra 2), che non potrebbe essere giammai ossequiato ove l'incombente dovesse essere assolto da un unico soggetto (il primario appunto) per tutti i degenti (sul punto sia consentito rinviare a CHIRIATTI G., La cartella clinica, Milano, 2019, pagg. 14 e ss.). La responsabilità cui si riferisce la norma, dunque, rileva esclusivamente sotto il profilo organizzativo e, in quanto tale, potrà essere foriera di conseguenze disciplinari e/o amministrative per il primario (oltretutto, vedremo più avanti come l'inadeguata tenuta della cartella clinica, di per sé, non possa neppure integrare un illecito civile, ma tuttalpiù può pregiudicare la posizione della struttura e/o dei medici convenuti nel giudizio di responsabilità sanitaria, esponendoli al rischio di non poter compiutamente resistere alla domanda formulata dal paziente che lamenti un danno in conseguenza del ricovero - infra 6.1). 4. Conservazione della cartella clinica Per le medesime ragioni, non solo la regolare tenuta della cartella in corso di ricovero, ma anche la sua successiva conservazione costituisce un'attività imprescindibile ai fini di un pieno esercizio del diritto di difesa da parte della struttura e/o dei medici convenuti nel giudizio di responsabilità sanitaria. D'altro canto, almeno per quel che attiene alla conservazione della cartella, tanto la legge quanto la giurusprudenza risultano piuttosto chiare nell'affermare che:
Anche con riguardo a tale specifica attività dovremmo ovviamente ritenere che la responsabilità delle funzioni aziendali sopra richiamate rilevi prevalentemente sotto il profilo organizzativo. D'altro canto, occorre tener conto che nell'attività di conservazione potrebbero annidarsi alcuni specifici rischi che si aggiungono a quelli più squisatamente processuali di cui si è anticipato nel paragrafo precede e che attengono al trattamento dei dati personali relativi alla salute dei pazienti (art. 9 GDPR): è per tale ragione, dunque, che nella conservazione della cartella clinica viene in rilievo un'ulteriore funzione aziendale e cioè il Data Protection Officer (c.d. DPO) che - ai sensi dell'art. 39 GDPR (lett. b) - ha il compito “sorvegliare l'osservanza del presente regolamento, di altre disposizioni dell'Unione o degli Stati membri relative alla protezione dei dati nonché delle politiche del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento in materia di protezione dei dati personali, compresi l'attribuzione delle responsabilità, la sensibilizzazione e la formazione del personale che partecipa ai trattamenti e alle connesse attività di controllo”. Oltretutto, occorre considerare che – mentre la corretta tenuta della cartella si atteggia, di fatto, come un onere per la struttura sanitaria e per il medico che voglia resistere con successo ad eventuali rimostranze del paziente – la conservazione costituisce invece un vero e proprio obbligo: in particolare, la Circolare del Ministero della Sanità n. 61 del 19 dicembre 1986 dispone che “le cartelle cliniche, unitamente ai relativi referti, vanno conservate illimitatamente poiché rappresentano un atto ufficiale, indispensabile a garantire la certezza del diritto, oltre a costituire preziosa fonte documentaria per le ricerche di carattere storico sanitario”. E ancora, si consideri come all'obbligo di conservazione della cartella clinica corrisponda altresì quello di garantirne l'accesso agli interessati: tra questi, peraltro, non solo il paziente che lamenti un danno in conseguenza del trattamento sanitario ricevuto presso la struttura (e, dunque, voglia meglio valutare il corretto operato dei professionisti coinvolti), ma altresì colui che abbia subito il ricovero a causa del fatto illecito del terzo e, dunque, intenda richiedere a quest'ultimo il risarcimento del danno biologico patito (oppure intenda richiedere al proprio assicuratore l'indennizzo dovutogli in forza di polizza infortuni ecc.). Ebbene, l'art. 4 L. 24/2017 (c.d. Legge Gelli) dispone che “la direzione sanitaria della struttura pubblica o privata, entro sette giorni dalla presentazione della richiesta da parte degli interessati aventi diritto, in conformità alla disciplina sull'accesso ai documenti amministrativi e a quanto previsto dal codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, fornisce la documentazione sanitaria disponibile relativa al paziente, preferibilmente in formato elettronico”.
5. Il valore della cartella clinica Dopo aver analizzato, sia pur in termini generali, il contenuto e le regole di compilazione della cartella clinica, occorre a questo comprendere il ruolo svolto dal documento all'interno del giudizio di responsabilità sanitaria. Ebbene, in giurisprudenza costituisce affermazione diffusa quella secondo cui le “le omissioni imputabili al medico nella redazione della cartella clinica rilevano come figura sintomatica di inesatto adempimento, per difetto di diligenza, in relazione alla previsione generale contenuta nell'art. 1176 c. 2 c.c.” (ex multis Cass. 26 gennaio 2010 n. 1538) e, in effetti, si è già avuto modo di anticipare come l'indisponibilità della cartella (vuoi perché incompleta, vuoi perché smarrita) possa recare con sé delle rilevantissime ricadute processuali nel giudizio di responsabilità sanitaria. E ciò – si badi - non solo ai danni della struttura e/o dei medici convenuti (che in difetto del documento potrebbero ritrovarsi impossibilitati a provare di aver correttamente curato il paziente) ma, paradossalmente, per il medesimo danneggiato (che in difetto di cartella clinica non sarebbe neppure in grado di poter valutare preventivamente l'operato dei sanitari ed eventualmente individuare loro eventuali negligenze).
È dunque in questi termini che la cartella clinica assurge a “pietra angolare del giudizio di responsabilità” (così OCCORSIO V., Cartella clinica e responsabilità medica, Milano, 2011, pag. 1). D’altro canto, trattandosi di un documento redatto proprio da uno degli attori potenzialmente coinvolti nell’eventuale giudizio di responsabilità, occorre comprendere, anche al filtro dei principi generali che governano la prova nel processo civile, se ed entro quali limiti la cartella clinica possa effettivamente esplicare una funzione istruttoria. Ma procediamo con ordine.
5.1 LA CARTELLA CLINICA REDATTA PRESSO UNA STRUTTURA PUBBLICA O PRIVATA CONVENZIONATA Occorre sin da subito rilevare come, per giurisprudenza pressoché consolidata, le attestazioni contenute in una cartella clinica redatta da un'azienda ospedaliera pubblica o da una struttura privata convenzionata col Servizio Sanitario Nazionale abbiano natura di certificazione amministrativa cui è applicabile lo speciale regime di cui agli art. 2699 c.c. e s. (ex multis Cass. 20 novembre 2017 n. 27471). È stato altresì chiarito come l'efficacia probatoria tipica dell'atto pubblico possa essere riferita alle sole trascrizioni delle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento, dovendo, invece, escludersi che siano coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa espresse (Cass. 20 novembre 2017 n. 27471).
D'altro canto, pur al netto di tale specificazione, ben potrebbe obiettarsi che l'orientamento sopra riportato non collimi con altro principio secondo cui secondo cui “un documento proveniente dalla parte che voglia giovarsene non può costituire prova in favore della stessa” (così Cass. 5 agosto 2011 n. 17050). La ratio di tale principio risponde alla più evidente necessità di impedire a chi voglia far valere in giudizio un diritto (o voglia resistere ad una pretesa azionata da altri) di precostituire a proprio piacimento la prova del fatto costitutivo (o di quello modificativo o estintivo) della domanda giudiziale. Proprio in tal senso, il Tribunale di Bologna ha rilevato come il presupposto del carattere vincolante dell'atto pubblico sia la “terzietà” del pubblico ufficiale nella sua funzione certificante con effetti probatori; nondimeno, “tale requisito non può sussistere quando si ponga in discussione la responsabilità della persona medesima che ha redatto l'atto, non essendo concepibile che il soggetto sia la fonte di una prova a suo favore con carattere vincolante” (così Trib. Bologna 6 ottobre 2010). Oltretutto, aggiunge la pronuncia, “tale valore può essere posto in discussione non solo agendo direttamente nei confronti del pubblico ufficiale, ma anche agendo nei confronti di altro soggetto che deve rispondere per i fatti del soggetto certificante riportati nell'atto pubblico. Anche in questo caso, infatti, il giudizio ha come presupposto l'accertamento della responsabilità del pubblico ufficiale che ha redatto l'atto” (come a dire che la terzietà viene meno anche nell'ipotesi in cui sia la struttura – che risponde del fatto del medico ausiliario ai sensi dell'art. 1228 c.c. - ad invocare il contenuto della cartella redatta da quest'ultimo).
Ora, a fronte di tali puntualissime (e alquanto suggestive) considerazioni, occorre intanto evidenziare come la natura di atto pubblico (così come riconosciuta alla cartella clinica dalla Cassazione) derivi direttamente dall'art. 2700 c.c. secondo cui “l'atto pubblico fa piena prova dei fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”. E ancora, in una prospettiva di sistema, non potremmo omettere di considerare come la fede privilegiata riconosciuta alla cartella clinica sia comunque presidiata dalla previsione di una sanzione penale per il medico che dovesse falsificare il documento (sanzione che peraltro si aggiunge al rimedio della querela di falso ai sensi dell'art. 221 c.p.c.) Per l'effetto, la posizione di apparente favore riservata alla struttura sanitaria (e al medico redigente) è comunque bilanciata dalla facoltà, per il paziente, di confutare la genuinità della cartella clinica nonché dal rischio, per il medico, di essere sanzionato penalmente.
6. Le responsabilità connesse alla tenuta della cartella clinica Si è già avuto modo di rilevare come il compito di redigere la cartella clinica sia affidato al medico curante, ovvero al professionista cui sono state affidate le cure del paziente; e ancora, che la responsabilità per la custodia del documento incomba sul primario fino al momento della consegna del documento all'archivio centrale (che è invece sottoposto alla vigilanza della Direzione Sanitaria). Occorre dunque comprendere quali siano le conseguenze processuali connesse all'incompletezza e allo smarrimento della cartella clinica. 6.1. L'INCOMPLETEZZA DELLA CARTELLA CLINICA Nella giurisprudenza della Suprema Corte costituisce affermazione ricorrente quella secondo cui l'eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l'esistenza di un valido legame causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente quando tale incompletezza abbia reso impossibile l'accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare la lesione (ex multisCass. 18 febbraio 2021 n. 4424). In applicazione di tale principio, è stata così accolta la domanda di un paziente che lamentava di aver patito un danno a seguito di un intervento chirurgico, allegando che i sanitari non avessero correttamente posizionato il danneggiato sul letto operatorio: in particolare, l'espletata CTU medico-legale aveva confermato che tale errore era astrattamente idoneo a procurare il danno patito dal paziente e che non risultavano “annotati in cartella dettagli … che avrebbero consentito di escludere che la lesione possa essere da errato posizionamento” (Trib. Como 23 aprile 2018). D'altro canto, potrebbe anche accadere che nella cartella clinica non risulti annotato il compimento di attività diagnostiche che avrebbero dovuto essere svolte dal medico a fronte del quadro clinico desumibile dal medesimo documento e che, in ipotesi, avrebbero potuto prevenire l'insorgere del danno. In tal senso, la Suprema Corte ha cassato la decisione di un giudice di merito che aveva escluso la responsabilità dei medici convenuti per i gravissimi danni patiti da un infante (nella specie tetraparesi e grave insufficienza mentale da asfissia perinatale), sebbene dalla CTU espletata fosse emerso che “le difficoltà presentate dalla neonata al momento del parto comportavano la necessità di un attento monitoraggio post-natale, al fine di cogliere tempestivamente eventuali peggioramenti delle condizioni e di assicurare un immediato intervento” e che sulla cartella clinica non risultavano annotazioni per ben sei ore (Cass. 31 marzo 2016 n. 6209). Occorre rimarcare, invero, come il principio espresso dalla Corte trovi applicazione nei limiti in cui dalla cartella clinica sia comunque desumibile una condotta astrattamente idonea a procurare il danno lamentato e anzi, proprio in tale prospettiva, diremmo che l'orientamento sopra riportato faccia da pendant ad altro principio consolidato presso la giurisprudenza della Suprema Corte e cioè a quello già sopra richiamato secondo cui il paziente (che agisca nei confronti della struttura) è comunque tenuto ad allegare un “inadempimento qualificato” (così Cass. SU 11 gennaio 2008 n. 577). Peraltro, la Cassazione ha comunque chiarito che la struttura e/o il medico possano essere chiamati a rispondere anche ove sussistano concrete possibilità che l'evento lesivo sia intervenuto per altre ipotetiche cause patologiche, diverse da quelle diagnosticate ed inadeguatamente trattate, “che non sia stato tuttavia possibile accertare neppure dopo il decesso in ragione della difettosa tenuta della cartella clinica o della mancanza di adeguati riscontri diagnostici” (Cass. 13 settembre 2000 n. 12103). Proprio in tal senso, il Tribunale di Palermo ha ritenuto la struttura sanitaria responsabile del danno cerebrale patito da un neonato a causa di ritardo nell'esecuzione del parto cesareo, atteso che dalla cartella clinica non emergeva che i sanitari avessero effettuato - subito dopo il parto - più attente analisi (descrizione liquido, prelievo sangue, della placenta, del funicolo e delle membrane) che deponessero per la sussistenza di alterazioni ovvero di anomalie nella condizione della partoriente ovvero per la sussistenza di condizioni genetiche del feto o, ancora, di altre cause naturali del danno cerebrale (Trib. Palermo 5 luglio 2017). 6.2. MANCATA ASSUNZIONE DEL CONSENSO Abbiamo già avuto modo di anticipare che all'interno della cartella clinica dev'essere inserita la dichiarazione di consenso resa dal paziente quale indefettibile presupposto per la liceità del trattamento sanitario e, ancora, che la mera sottoscrizione di un modulo non è sufficiente ad integrare tale condizione se non accompagnata da un'informativa adeguata ed esaustiva circa la natura della cura prospettata, dei relativi rischi e delle possibilità di successo (supra al paragrafo 2). Ebbene, per lungo tempo il diritto a ricevere un'adeguata e corretta informazione al fine di poter liberamente scegliere se sottoporsi o meno alle cure ha ricevuto tutela risarcitoria nei limiti in cui dal trattamento (eseguito dal medico senza aver preventivamente acquisito il consenso del paziente) fosse derivato a quest'ultimo un pregiudizio alla salute (ex multisCass. 24 settembre 1997 n. 9374); d'altro canto, è noto come nel tempo si sia fatto strada un diverso orientamento che riconosce autonomia risarcitoria al danno da lesione del diritto all'autodeterminazione (ex multis Cass. 13 febbraio 2015 n. 2854) e che è poi culminato in una delle pronunce che compongono il c.d. Decalogo di San Martino 2019. In particolare, ci riferiamo alla sentenza Cass. 11 novembre 2019 n. 28985 con cui la Corte di Cassazione ha affermato che "la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni:
In definitiva, diremmo che la mancata acquisizione del consenso (e, quindi, il suo mancato inserimento nella cartella clinica) possa determinare conseguenze ancor più gravi rispetto a quelle derivanti dalla mera incompletezza del documento (supra 6.1), atteso che struttura e/o medico convenuti si ritroverebbero esposti al rischio di dover risarcire il paziente anche nel caso in cui non vi sia evidenza di alcuna condotta/omissione idonea a procurare un danno biologico (ipotesi C) e, ancora, nel caso in cui il paziente non abbia subito alcuna effettiva compromissione del bene salute (ipotesi E), fermo restando - com’è ovvio - l’onere per il paziente di provare che, ove adeguatamente informato, avrebbe comunque rifiutato il trattamento (cfr. Cass. 11 novembre 2019 n. 28985). 7. Smarrimento della cartella clinica Non meno complessa potrebbe poi risultare la condizione processuale di medico e/o struttura in caso di smarrimento della cartella clinica, atteso che - in un simile scenario – non disporrebbero di alcun appiglio anche solo per provare a resistere alla pretesa del paziente/danneggiato. D'altro canto, tale conclusione – che almeno in termini generali potrebbe risultare ovvia - merita di essere attentamente specificata, differenziando la posizione del medico rispetto a quella della struttura. In primo luogo, occorre intanto considerare che il medico è sì tenuto alla compilazione della cartella clinica, ma non anche alla conservazione della stessa (che compete, invece, alla Direzione Sanitaria – supra 4): in altri termini, in caso di smarrimento della cartella clinica da parte della struttura, il medico si ritroverebbe nell'indisponibilità del documento per un fatto a lui non imputabile. Tant'è che la Cassazione, nel tentativo di trovare una soluzione di compromesso, ha chiarito che il medico (ove convenuto in giudizio) deve intanto farsi parte diligente richiedendo egli stesso copia della cartella clinica alla struttura e che, in caso di smarrimento (anche solo parziale) della cartella, potrà “pretendere che che siano imputate alla struttura sanitaria eventuali lacune della copia della cartella clinica” (Cass. 13 luglio 2018 n. 18567). In definitiva, per eludere il rischio di condanna in caso di smarrimento di cartella clinica, il medico convenuto ha l'onere di richiedere e di provare di aver richiesto per tempo (ma senza successo) la cartella clinica alla struttura.
In secondo luogo, non possiamo ignorare come lo smarrimento della cartella clinica possa prima ancora risolversi in danno del medesimo paziente, il quale - come già evidenziato in precedenza - si ritroverebbe di fatto impossibilitato a valutare l’operato dei sanitari e, conseguentemente, a muovere loro eventuali addebiti. A ben vedere, nel caso da cui è originata la pronuncia sopra richiamata, risultavano comunque acquisite alcune parti della cartella clinica sulla base delle quali il paziente danneggiato aveva comunque potuto invocare a suo favore l’incompletezza del documento nei termini di cui si è detto nel paragrafo 6.1 (in altri termini, sulla base di quanto emergeva dalla copia parziale del documento, era comunque possibile affermare un inadempimento qualificato del medico). In ogni caso, dalla fattispecie esaminata può trarsi un’ulteriore conferma di quanto l’adozione di elevati standard di gestione e conservazione della cartella clinica (specie in formato elettronico) risponda all’interesse di tutti i protagonisti del contenzioso di responsabilità sanitaria (supra 4). 8. Omessa consultazione della cartella clinica Nei paragrafi che precedono abbiamo analizzato due ipotesi in cui la cartella clinica (vuoi perché incompleta vuoi perché smarrita) non può assolvere a quella che – come detto in principio del nostro contributo - costituisce una delle due funzioni proprie del documento e cioè permettere all’operatore (consulente tecnico, avvocato e giudice) di ricostruire ex post il decorso della degenza. Nondimeno (e qui si chiude lo statuto che abbiamo cercato di “mappare” col presente contributo), la cartella clinica assolve ad un’ulteriore (e non meno rilevante) funzione e cioè quella di orientare l’operato dei sanitari nel corso del ricovero, restituendo loro un quadro clinico costantemente aggiornato che consenta di individuare, di volta in volta, la scelta terapeutica migliore nell’interesse del paziente. Ciò a maggior ragione ove si consideri come la degenza possa coinvolgere, a diverso titolo, più professionisti sanitari. In primo luogo, potrebbe infatti accadere che il medico “subentri” ad un collega per mere ragioni di turno. Ebbene, con riguardo a tale ipotesi la Cassazione ha affermato che il medico subentrante assume nei confronti dei pazienti ricoverati la medesima posizione di garanzia di cui era titolare il medico sostituito e ciò lo obbliga ad informarsi circa le condizioni di salute dei pazienti medesimi e delle particolari cure di cui necessitano (Cass. pen. 11 luglio 2017 n. 44622).
In secondo luogo, potrebbe poi accadere che più professionisti siano chiamati a operare in equipe (ad esempio per effettuare un intervento chirurgico sulla persona del paziente). Ebbene, con riguardo a tale seconda fattispecie, è stato affermato che rientra tra gli obblighi di ogni singolo componente di una equipe chirurgica - sia esso in posizione sovra o sotto ordinata - anche quello di prendere visione, prima dell'operazione, della cartella clinica contenente tutti i dati per verificare la necessità di adottare particolari precauzioni imposte dalla specifica condizione del paziente ed eventualmente segnalare (anche senza particolari formalità) il suo motivato dissenso rispetto alle scelte chirurgiche effettuate ed alla scelta stessa di procedere all'operazione, potendo solo in tal caso esimersi dalla concorrente responsabilità dei membri dell'equipe nell'inadempimento della prestazione sanitaria (Cass. 29 gennaio 2018 n. 2060).
Occorre nondimeno evidenziare come, in altra pronuncia, la Corte abbia comunque escluso che il principio di cui sopra possa operare in quelle fasi dell'intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, “dovendo trovare applicazione il diverso principio dell'affidamento per cui può rispondere dell'errore o dell'omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell'intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l'onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui” (Cass. pen. 31 maggio 2017 n. 27314).
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