Stress lavoro correlato: responsabilità datoriale per condotte vessatorie episodiche o mancanza di serenità dell’ambiente di lavoro

01 Febbraio 2024

La prevenzione e il contrasto dello stress lavorativo quale nuovo contenuto dei doveri di protezione prescritti dall'art. 2087 c.c. ha immediate ricadute pratiche in alcune recenti pronunce della giurisprudenza di merito, che ha riscontrato la responsabilità datoriale anche nel caso di isolate condotte vessatorie o della mancanza di serenità nell'ambiente di lavoro. 

La pronuncia della Corte d'Appello di Milano, sez. lav., 27 dicembre 2023, n. 969

La vicenda affrontata dalla pronuncia della Corte d'Appello di Milano, sez. lav., 27 dicembre 2023, n. 969 è un esempio paradigmatico di come, a seconda della prospettiva giuridica adottata, possano mutare anche radicalmente le soluzioni dei casi concreti. 

Si tratta nella specie del ricorso presentato da una lavoratrice per ottenere, tra le varie domande, anche la condanna del datore di lavoro al risarcimento dei danni da mobbing asseritamente subiti, sostanziatosi in alcune sporadiche condotte vessatorie e nella richiesta di dimissioni. In primo grado il Tribunale di Monza, sezione lavoro, con sentenza del 15 novembre 2021, n. 501 (già oggetto di commento su questa rivista, cfr. D. Tambasco, La giustizia “case-by-case” nell'accertamento delle condotte violente e moleste sul lavoro: analisi di tre recenti pronunce giurisprudenziali, in IUS Lavoro/IlGiuslavorista (ius.giuffrefl.it), rigettava la domanda della ricorrente, sul presupposto che mancassero i requisiti costitutivi della fattispecie giurisprudenziale del mobbing, in particolare sul piano della durata (tre mesi in luogo dei sei mesi dettati dal modello LIPT EGE a “sette parametri”) (1) e dell'elemento soggettivo (quest'ultimo escluso dalla sussistenza di difficoltà relazionali della lavoratrice).

La pronuncia veniva impugnata dinanzi alla Corte d'Appello di Milano che, con sentenza del 27 dicembre 2023, n. 969 (rel. Dossi), ribaltava completamente l'esito del giudizio rilevando la violazione dell'art. 2087 c.c. da parte della società datrice, sulla base di:

  • commenti sprezzanti (“non sa fare il suo lavoro”, quella andrebbe bene a pulire i cessi”, “dovrebbe essere licenziata”) pronunciati nei confronti della lavoratrice in alcune occasioni tanto dalla superiore gerarchica quanto dagli amministratori della società, espressi a voce alta con tono derisorio, in presenza di altri colleghi e in alcuni casi anche della ricorrente stessa;
  • colloqui stressogeni con gli amministratori e con la direzione risorse umane della società, nel corso dei quali veniva prospettata alla lavoratrice l'alternativa tra il demansionamento al ruolo di addetta alle pulizie (dall'originario inquadramento di contabile) e il licenziamento.

Conseguentemente, all'esito della CTU medico-legale, la società datrice veniva condannata al pagamento della somma pari a 12.946,00 euro a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale. 

La motivazione: responsabilità ex art. 2087 c.c. anche per un singolo o episodico fatto illecito

Ciò che interessa in questa sede è l'iter motivazionale che ha condotto il giudice del gravame all'accoglimento della domanda, motivazione che rispecchia un orientamento ormai consolidato tanto nella giurisprudenza di legittimità, (cfr. D. Tambasco, Ambiente di lavoro obiettivamente "stressogeno" e responsabilità datoriale: gli ultimi approdi della giurisprudenza di merito e di legittimità, in IUS Lavoro/IlGiuslavorista (ius.giuffrefl.it) quanto in quella di merito.  

La sentenza in commento considera corretta la decisione del tribunale monzese in ordine alla inconfigurabilità del mobbing nel caso di specie; infatti le condotte accertate, sebbene mortificanti per la lavoratrice, tuttavia sia per la ridotta durata (due mesi, a cavallo tra aprile e maggio 2019), sia per la mancanza di frequenza e sistematicità (pochi episodi, in misura di due volte o poco più), sia per l'assenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare i singoli fatti, non integrano in nessun modo la complessa fattispecie quadripartita delineata da una giurisprudenza tralatizia (cfr. Cass. 10 novembre 2017, n. 26684; Cass. 6 agosto 2014, n. 17698; Cass. 26 marzo 2010, n. 7382; Cass. 21 maggio 2011, n. 12048). È infatti macroscopica la distanza tra la fattispecie concreta oggetto del giudizio e quella tipizzata dal diritto vivente, secondo cui il mobbing è un fenomeno complesso, mutuato dall'etologia (2), consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (cfr. Corte Costituzionale, sentenza 10 dicembre 2003, n. 359).

Ad ogni modo, se anche i comportamenti denunciati dalla ricorrente non possano ricomporsi in un unicum persecutorio, ciò non esclude che tali condotte o alcune di esse, anche se finalisticamente non accomunate, possano risultare separatamente e distintamente lesive dei diritti fondamentali della lavoratrice. Principio, quello enunciato dal giudice del gravame, che pare saldarsi con quanto da tempo affermato dalla giurisprudenza di legittimità in materia di stress lavorativo, secondo cui in tema di responsabilità del datore di lavoro per danni alla salute del dipendente, anche ove non sia configurabile in concreto una condotta mobbizzante per l'insussistenza dell'intento persecutorio, è comunque ravvisabile la violazione dell'art. 2087 c.c. nel caso in cui il datore consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute del dipendente, ovvero ponga in essere comportamenti, anche in sé legittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o, invece, si connettano ad altri comportamenti inadempienti, contribuendo ad inasprirne gli effetti e la gravità del pregiudizio sofferto dal lavoratore (cfr. Cass., 18 ottobre 2023, n. 28923; Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692; Cass. 30 novembre 2022, n. 35235; Cass. 15 novembre 2022, n. 33639; Cass. 11 novembre 2022, n. 33428) (3).

In tale contesto, quindi, la parte datoriale non può limitarsi ad eccepire la mancata dimostrazione dell'elemento oggettivo o soggettivo della fattispecie del mobbing per ottenere l'esenzione da responsabilità per i danni lamentati dal dipendente (cfr. Cass., 18 ottobre 2023, n. 28923, cit.). E ciò, si badi bene, anche nel caso in cui l'originaria prospettazione della domanda giudiziale del dipendente sia stata svolta in termini di danno da mobbing, potendo pertanto il giudicante procedere all'autonoma riqualificazione giuridica dell'azione, “interpretando il titolo su cui si fonda la controversia ed anche applicando norme di legge diverse da quelle invocate dalle parti interessate, purché lasciando inalterati sia il petitum che la causa petendi e non attribuendo un bene diverso da quello domandato o introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto(cfr. Cass., 5 novembre 2012, n. 18927; conf. Cass. 7 febbraio 2023, n. 3692, cit.; Cass. 30 novembre 2022, n. 35235, cit.; Cass. 15 novembre 2022, n. 33639, cit.; Cass. 11 novembre 2022, n. 33428, cit.).

Secondo il collegio giudicante gli episodi accertati nel caso di specie, sebbene non sistematici e non protratti per un periodo di tempo molto prolungato, risulterebbero comunque vessatori e mortificanti per la lavoratrice. A tal proposito, devono considerarsi gravemente lesive della dignità personale e dell'immagine professionale della ricorrente le affermazioni della superiore gerarchica, pronunciate a voce alta, al cospetto dei colleghi e talvolta anche ridendo, relative al fatto che la dipendente non sapesse fare il suo lavoro, che sarebbe andata bene soltanto per “pulire i cessi” e che dovesse essere licenziata.

Pur facendo un fugace accenno al fenomeno dello straining per giustificare l'applicazione dell'art. 2087 c.c., la sentenza in commento richiama espressamente il principio fissato da una recentissima e importante pronuncia di legittimità, che ha riconosciuto la responsabilità datoriale anche nel caso di realizzazione di una singola ed episodica condotta illecita, poiché “al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing o straining, quello che conta in questa materia è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell'ordinamento (la sua integrità psicofisica, l'identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica (cfr. Cass. 19 ottobre 2023, n. 29101).     

La responsabilità per fatto altrui e “danni complementari” non indennizzati da INAIL

La sentenza in esame è di particolare interesse anche per la soluzione apprestata ad altre due questioni, relative rispettivamente alla responsabilità datoriale per il fatto illecito realizzato da un proprio dipendente e al criterio di liquidazione del quantum risarcitorio.

Con riguardo al primo profilo, i giudici milanesi si riconnettono alla giurisprudenza consolidata che ha sempre riconosciuto la responsabilità datoriale in concorso con il dipendente autore materiale delle condotte illecite, direttamente in via contrattuale ai sensi dell'art. 2087 c.c. (cfr. Cass. 4 dicembre 2020, n. 27913; Cass., 22 marzo 2018, n. 7097) o indirettamente in via aquiliana ex art. 2049 c.c. (cfr. Cass. 4 gennaio 2017, n. 74; Cass. 15 maggio 2015, n. 10037; Cass. 25 luglio 2013, n. 18093). In particolare:

- quanto al profilo di responsabilità contrattuale diretta ex art. 2087 c.c., esso è un portato della posizione di garanzia legalmente definita in capo al datore di lavoro, il quale non solo ha i) obblighi di non fare coincidenti con il cosiddetto neminem laedere, ovverosia con il dovere di astenersi dall'attuare direttamente condotte dannose, ma ha anche ii) obblighi di fare (o divieto di colpevole inerzia), dovendo intervenire proattivamente con forme di prevenzione (ex ante) o di impedimento/cessazione (in fieri) di situazioni potenzialmente lesive dell'integrità psico-fisica o della personalità morale del dipendente (cfr. Cass. 28 novembre 2022, n. 34968);

- quanto invece al profilo di responsabilità aquiliana indiretta ex art. 2049 c.c., si tratta di una fattispecie di responsabilità extracontrattuale che richiede i tre presupposti del i) rapporto di preposizione; del ii) fatto illecito e del iii ) nesso di occasionalità necessaria tra fatto illecito e rapporto di lavoro, essendo in quest'ultimo caso sufficiente che le mansioni affidate al dipendente abbiano reso possibile o comunque agevolato il comportamento lesivo (essendo al contrario irrilevante che il dipendente abbia superato i limiti delle mansioni affidategli o abbia agito con dolo o per finalità strettamente personali), cfr. Cass. 4 gennaio 2017, n. 74; Cass. 15 maggio 2015, n. 10037.     

Con riferimento invece alle conseguenze lesive - in particolar modo risarcitorie - delle condotte illecite accertate, la sentenza in commento dopo aver accertato all'esito della CTU medico-legale la sussistenza di un danno biologico, afferma l'operatività della copertura INAIL ex art. 10 D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1024 anche per lo straining, trattandosi di “malattia professionale non tabellata, coperta dall'assicurazione obbligatoria”. Infatti, “la tutela assicurativa INAIL va estesa ad ogni forma di tecnopatia, fisica o psichica, che possa ritenersi conseguenza dell'attività lavorativa, sia che riguardi la lavorazione che l'organizzazione del lavoro e le sue modalità di esplicazione, anche se non compresa tra le malattie tabellate o tra i rischi specificamente indicati in tabella…” (cfr. Cass. 5 marzo 2019, n. 6346).   

Tuttavia, trattandosi in concreto di danno biologico pari al 5% (ricadente quindi nell'area di franchigia operativa fino al 6% ex art. 13 d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38), la responsabilità datoriale per il risarcimento dei danni opera per intero, trattandosi di cd “danno complementare” (o danno differenziale qualitativo), che comprende il danno biologico da invalidità temporanea e il danno biologico da invalidità permanente inferiore al 6%, in quanto non coperti dall'assicurazione obbligatoria (cfr. Cass. 2 marzo 2018, n. 4972, che amplia il novero dei danni complementari al biologico temporaneo, al biologico permanente in franchigia, al patrimoniale in franchigia -fino al 15%-, al morale, ai pregiudizi esistenziali, al danno tanatologico o da morte iure proprio e jure successionis, alla personalizzazione e alle ricadute soggettive del danno biologico; contraCass. 24 ottobre 2022, n. 31332, che limita i danni complementari al solo danno biologico temporaneo, al danno biologico in franchigia e al danno morale).

L'applicazione delle Tabelle Milanesi alle quali viene riconosciuta efficacia para-normativa in quanto concretizzano il criterio della liquidazione equitativa di cui all'art. 1226 c.c. (cfr. Cass., sez. III, 6 maggio 2020, n. 8532; Cass., sez. III, 16 febbraio 2012, n. 2228; Cass., sez. III, 30 giugno 2011, n. 14402), consente al collegio giudicante di pervenire ad una quantificazione (12.946,00 euro) in linea con un'adeguata valutazione del caso concreto, che si attesta ben al di sotto della media risarcitoria in materia di mobbing (25.244,00 euro) rilevata da una recente ricerca promossa dall'Organizzazione Internazionale del Lavoro (4).    

La mancanza di serenità dell'ambiente di lavoro: la sentenza del Tribunale di Vibo Valentia, sez. lav., 26 ottobre 2023, n. 736   

Sulla stessa lunghezza d'onda si colloca anche la sentenza del Tribunale di Vibo Valentia, 26 ottobre 2023, n. 736 (est. Nasso) che nel riqualificare l'originaria domanda di mobbing presentata dal lavoratore, accerta la sussistenza della fattispecie dello straining condannando l'ente pubblico datore di lavoro al risarcimento del danno non patrimoniale (per l'importo di 49.496,00 euro, in ragione di un danno biologico permanente pari al 20%).

Anche in questo caso, di particolare interesse è il percorso logico-giuridico seguito dal giudice vibonese, che prende avvio dall'accertamento in concreto di un ambiente di lavoro “scadente e patogeno, sulla base:

- di un complessivo deterioramento delle relazioni verticali (tra dipendenti e superiori);

- del sistematico malvezzo della dirigenza di epitetare irriguardosamente i collaboratori in possesso di una qualifica inferiore;

- dell'impiego abituale di toni alterati e di espressioni irriguardose (quali, ad esempio, “è un malato di mente”);

- dell'adozione di forme di autocompiaciuto sarcasmo derisorio.

In tale contesto, devono considerarsi quali significativi antecedenti logici, fattuali ed eziologici dell'insorgenza delle tecnopatie lamentate dal lavoratore anche i) la sequela di episodi incresciosi; ii) la quantità e la frequenza dei procedimenti disciplinari, indipendentemente dalla loro legittimità, ben potendo risultare leciti se considerati isolatamente, ma causativi comunque di un danno, in quanto manifestazione di un ambiente di lavoro nocivo (cfr. Cass. 2 dicembre 2021, n. 38123;  Corte Cost., 19 dicembre 2003, n. 359; Cass. 12 dicembre 2018, n. 32151Cass. 10 novembre 2017, n. 26684Cass. 24 novembre 2016, n. 24029Cass. 6 agosto 2014, n. 17698) (5); iii) il contegno di sufficienza ed alterigia serbato dalla dirigenza -nei toni e nei modi- in sede di interazione con il personale, inficiando in questo modo la “serenità dello spazio lavorativo”.

Partendo da questi presupposti di fatto, la sentenza in commento perviene all'accertamento della responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c. facendo sostanzialmente ricorso alla categoria dello stress lavorativo, in conformità con l'ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità sopra esaminato (cfr. Cass., 18 ottobre 2023, n. 28923, cit.; Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692, cit.; Cass. 30 novembre 2022, n. 35235, cit.; Cass. 15 novembre 2022, n. 33639; Cass. 11 novembre 2022, n. 33428, cit.).

Stress e straining: un rapporto da genus  a species

Nel tirare le fila di questa breve rassegna di merito, possiamo fissare alcuni punti fermi.

In primo luogo, se fino a poco tempo fa l'analisi delle pronunce in materia di conflittualità lavorativa recava con sé la diagnosi del “panmobbismo” (6), oggi invece la situazione è radicalmente cambiata.

Cosciente del fatto che la categoria del mobbing, soprattutto a causa della complessità della fattispecie, si è mostrata inidonea a tutelare una pluralità di disfunzioni lavorative rimaste concretamente prive di protezione, la recente giurisprudenza ha intrapreso un nuovo percorso all'insegna della valorizzazione della dimensione organizzativa (7). Il che vuol dire, nello specifico ambito della conflittualità sul lavoro, analizzare le condotte umane dal punto di vista delle discrepanze dell'organizzazione lavorativa rispetto alla gestione delle relazioni interpersonali.

In concreto, questa nuova prospettiva consente al giudicante di svincolarsi dalla “camicia di forza” di uno scrutinio fattuale di natura para-penalistica (basato com'era sui soli comportamenti individuali nella loro duplice articolazione oggettiva e soggettiva) (8), per passare invece all'esame obiettivo della conformità dell'organizzazione lavorativa rispetto agli standard normativamente prescritti.

Ecco spiegato il ricorso del diritto vivente alla categoria polifunzionale dello stress lavorativo, con il suo riferimento alla violazione dell'art. 2087 c.c.nel caso in cui il datore consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori” o alternativamente a tutti quei  “comportamenti, anche in sé non illegittimi, ma tali da poter indurre disagi o stress, che si manifestino isolatamente o invece si connettano ad altri comportamenti inadempienti” (cfr. Cass. 7 febbraio 2023, n. 3692).

L'effetto pratico è immediato ed evidente, come si può notare anche dalle pronunce oggetto del presente commento: condotte isolate o episodiche ma lesive della dignità personale, ambienti lavorativi divenuti tossici e nocivi a causa di comportamenti irriguardosi o esasperanti nonché dannosi per l'integrità psico-fisica, oggi vedono accertata la responsabilità datoriale per il mancato adempimento dei doveri di protezione ex art. 2087 c.c., mentre un tempo si fermavano sulla soglia della mancata prova dell'elemento oggettivo o soggettivo del mobbing (9). Evoluzione, è il caso di aggiungere, che potrebbe essere stata favorita anche dalla maturazione, a livello giurisprudenziale, di una più matura nozione di salute sul lavoro che, a livello legislativo, da tempo è ormai passata a significare non solo la semplice assenza di malattia o infermità bensì uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” (cfr. art. 2, comma 1, lett. o d.lgs. 81/2008).

Residua tuttavia nel lessico giurisprudenziale una sovrapposizione terminologica tra stress e straining, che in numerose pronunce di merito e di legittimità sono utilizzati come sinonimi.

Una corretta tassonomia richiederebbe in realtà una netta distinzione tra lo stress (di derivazione biologica) (10) e lo straining (coniato dalla psicologia del lavoro) (11), sussistendo tra di essi un rapporto da contenitore a contenuto o, meglio, da genus a species . Se lo stress, infatti, è una categoria che nel mondo del diritto è idoneo ad assumere un ruolo “polifunzionale” (12), al contrario lo straining (forma di persecuzione lavorativa derivata dal mobbing) (13) ne è soltanto una parziale specificazione sul piano delle disfunzioni dell'organizzazione lavorativa nella gestione del personale: l'effetto di ogni condotta persecutoria (ivi compreso lo straining) (14), infatti, è sempre la realizzazione di una situazione stressogena.

Al termine di questo breve excursus giurisprudenziale si potrebbe obiettare che, di questo passo, ogni screzio o qualunque condotta semplicemente inurbana o qualsiasi comportamento neutro rivolto ad una persona ipersensibile (15) potrebbe cadere sotto la scure della responsabilità per stress lavorativo. Si tratta di un'obiezione non nuova, già presa in considerazione dalla giurisprudenza di legittimità che ha sostenuto come le forti divergenze sul lavoro e le tensioni nei rapporti interpersonali, fisiologiche nei rapporti lavorativi soprattutto se connotati da una relazione gerarchica continuativa e da situazioni di difficoltà amministrativa (cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 19 gennaio 2021, n. 591; Cons. Stato 4 febbraio 2015, n. 529; Cons. Stato, Sez. III, 12 gennaio 2015, n. 28), non possono però esorbitare “nei modi rispetto a quelli appropriati per il confronto umano”, diventando altrimenti “ragione di responsabilità ai sensi dell'art. 2087 c.c.” (cfr. Cass., sez. VI, 6 ottobre 2022, n. 29059) (16).

Si tratta certamente di un limite “elastico”, che lascia al giudicante la responsabilità di qualificare case by case l'illegittimità della condotta datoriale scrutinata (17), nell'alveo di un orientamento di legittimità (cfr. Cass., 12 luglio 2019, n. 18808) che già da tempo afferma come anche a fronte di atteggiamenti ostili del lavoratore, il datore di lavoro non sia certamente legittimato ad indursi a comportamenti vessatori o lesivi della dignità personale.

Allo stesso modo, anche la liquidazione del compendio risarcitorio è devoluta alla discrezionalità del giudice, il quale nell'equilibrato esercizio del proprio potere equitativo deve comunque tenere in debita considerazione il fatto che “la reiterazione, l'intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento” (Cass. 19 ottobre 2023, n. 29101, cit.). Lo spettro della quantificazione risarcitoria dovrà muoversi, pertanto, tra i due poli degli ii) illeciti derivanti da semplice negligenza e imperizia (quale ad esempio la colpevole inerzia) e le i) condotte persecutorie connotate da sistematicità ed intenzionalità (mobbing, straining, stalking), che segneranno rispettivamente il limite minimo e massimo.   

Note

(1) Cfr. EGE, La valutazione peritale del danno da mobbing e da straining, Milano, 2019, p. 67 e ss.

(2) Cfr. LORENZ, L'aggressività, Milano, ed. 2015 (1963), p. 35, in cui con il termine mobbing si indica l'accerchiamento del branco con lo scopo di aggredire un altro animale lasciato isolato: “Il mobbing è naturalmente molto efficace tra gli erbivori più grandi e agguerriti che, se sono in molti, assalgono persino grossi predatori. Secondo un rapporto attendibile sembra che le zebre diano fastidio persino al leopardo se lo pescano in una steppa povera di ripari. L'aggressione sociale al lupo è ancora talmente nel sangue dei nostri bovini e dei maiali domestici che ci si può esporre a rischi seri ad attraversare un pascolo popolato da una mandria relativamente grossa in compagnia d'un giovane cane spaurito, il quale, invece di abbaiare contro gli aggressori o di darsela a gambe per conto suo, cerca protezione tra le gambe del padrone. […] Io stesso una volta mi son dovuto gettare in un lago con la mia cagnetta Stasi per cercar salvezza a nuoto, perché una mandria di giovani bovini aveva formato un semicerchio intorno a noi e avanzava minacciosa.

(3) Cfr. ROSIELLO, TAMBASCO, Ambiente di lavoro obiettivamente “stressogeno” e responsabilità datoriale: gli ultimi approdi della giurisprudenza di merito e di legittimità, in IUS Lavoro/IlGiuslavorista (ius.giuffrefl.it), 3 novembre 2023.

(4) OIL, Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un'analisi della giurisprudenza del lavoro italiana, Roma, 2022, p. 7 e ss.

(5) Cfr. TAMBASCO, Mobbing: i provvedimenti disciplinari legittimi non ne escludono la sussistenza, in IUS Lavoro/IlGiuslavorista (ius.giuffrefl.it), 5 ottobre 2023.  

(6) EGE, TAMBASCO, Il processo di codificazione delle disposizioni in materia di mobbing, straining e molestie sul lavoro: breve viaggio tra dogmi, intuizioni del singolare e nuovi orizzonti internazionali, in Labor, 3/2021, pp. 279-28

(7) Cfr. Cass., 7 febbraio 2023, n. 3692, par. 4, che pone l'accento sull'inadempimento datoriale “ad obblighi di appropriatezza nella gestione del personale, già rilevante ai sensi dell'art. 2087 c.c.”, espressione della “mancanza di equilibrio tra organizzazione di lavoro e personale impiegato”.

(8) Sulla duplice componente oggettiva e soggettiva del mobbing, cfr. Cass. 7 agosto 2013, n. 18836.

(9) OIL, Violenza e molestie nel mondo del lavoro. Un'analisi della giurisprudenza del lavoro italiana, Roma, 2022, pp. 8-9.

(10)  Cfr. SELYE, Stress, Torino, 1957.

(11) Cfr. EGE, Oltre il mobbing. Straining, Stalking e altre forme di conflittualità sul posto di lavoro, Milano, 2005, p. 61 e ss.

(12) ROSIELLO, TAMBASCO, Il danno da stress lavorativo: una categoria polifunzionale all'orizzonte?, in IUS Lavoro/IlGiuslavorista (ius.giuffrefl.it), 8 novembre 2022.

(13) Sullo straining quale forma di “mobbing attenuato”, cfr. Cass., 10 luglio 2018, n. 18164; Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977; Cass. 4 novembre 2016, n. 3291.

(14) Sul fatto che anche lo straining, come il mobbing e il work stalking, sia una condotta persecutoria caratterizzata dall'intenzionalità (c.d. elemento soggettivo), cfr. EGE, TAMBASCO, Il lavoro molesto, Milano, 2021, p. 20-21. In quest'ottica, l'orientamento giurisprudenziale volto a trasformare la nozione di straining, dal “mobbing attenuato” allo “stress forzato” (cfr. ex multis, Cass. 29 marzo 2018, n. 7844; Cass., 4 ottobre 2019, n. 24883) deve intendersi come un primigenio tentativo di riconoscere rilievo alla carenza dei fattori organizzativi (e correlativamente agli ambienti di lavoro nocivi e stressogeni), espandendo il raggio applicativo dello straining che, anche sul piano lessicale, manifesta con lo stress la condivisione della medesima radice linguistica (str-) e semantica (entrambi significando sforzo, sollecitazione, tensione). In realtà, come detto, una corretta classificazione dei fenomeni richiede la delimitazione dello straining all'ambito delle sole condotte persecutorie, quale species dell'omnicomprensiva e polifunzionale categoria giuridica dello stress lavorativo.            

(15) Sulla percezione soggettiva della vittima quale fattore di esclusione della responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., cfr. Cass., 28 agosto 2013, n. 19814; nel merito, Trib. Ivrea, sez. lav., 30 agosto 2010, n. 94.

(16) Cfr. TAMBASCO, Le tensioni esorbitanti possono essere causa di mobbing o di straining: la Cassazione ridisegna i limiti della conflittualità lavorativa, in Labor, 15 ottobre 2022.

(17) Cfr. App. Milano, sez. lav., 14 dicembre 2022, n. 899, che ha accertato la responsabilità cumulativamente ex art. 2087 c.c. e 2049 c.c. del datore di lavoro (condannandolo a risarcire la somma di 500 euro) per la singola minaccia rivolta dal superiore gerarchico al dipendente di “tagliargli il codino” se non avesse fatto il suo dovere, in quanto pronunciata dinanzi ad altri colleghi e quindi lesiva della personalità morale e dell'immagine professionale del lavoratore, poiché metteva in discussione, con espressioni irriguardose, ruolo ed autorevolezza del dipendente stesso di fronte ai collaboratori e ai superiori.  

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