Appello tardivo depositato via PEC e privo di sottoscrizione: qual è il giudice competente a dichiarare l’inammissibilità?

19 Febbraio 2024

Il giudice a quo può rilevare la tardività dell'appello o tale competenza spetta solo al giudice ad quem?

Massima

“La competenza a rilevare l'inammissibilità dell'appello per la sua intempestiva presentazione non spetta al giudice che emette la sentenza appellata, bensì al giudice di appello, posto che l'art. 87-bis, comma 6, d.lgs. n. 150/2022 riserva il vaglio di inammissibilità dell'impugnazione al giudice a quo esclusivamente con riferimento ai requisiti elencati nel precedente comma 7 del medesimo articolo ossia quelli precipuamente attinenti all'utilizzo della sua trasmissione a mezzo PEC”.

Il caso

All'esito del giudizio abbreviato, un uomo viene condannato dal GUP del Tribunale di Terni in quanto ritenuto responsabile del delitto di spaccio di sostanze stupefacenti di lieve entità (art. 73, comma 5, D.P.R. n. 309/1990).

L'imputato interpone appello tramite PEC, con deposito inviato e accettato dal sistema alle ore 15.59 del 20 giugno 2023. L'impugnazione viene dichiarata, con ordinanza emessa de plano, inammissibile dallo stesso giudice che ha emesso il provvedimento appellato, ai sensi degli artt. 591 c.p.p. e 87-bis, comma 8, d.lgs. n. 150/2022 in quanto l'appello è stato trasmesso ad un indirizzo di posta elettronica certificata diverso (e non compreso) da quello indicato dal Direttore generale per i servizi informativi e automatizzati per il Tribunale di Terni. Il giudice a quo rileva inoltre: a) l'intempestività dell'impugnazione, in quanto depositata il giorno successivo alla scadenza del termine fissato per la sua presentazione; b) l'ulteriore causa di inammissibilità dell'appello mancando la sottoscrizione digitale del difensore, come richiesto dall'art. 87-bis, comma 3, della c.d. riforma Cartabia.

Avverso l'ordinanza ricorre in cassazione l'imputato eccependo l'erronea applicazione da parte del Tribunale dell'art. 87, comma 8, d.lgs. n. 150/2022 per il quale, «Nei casi previsti dal comma 7, il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato dichiara, anche d'ufficio, con ordinanza l'inammissibilità dell'impugnazione e dispone l'esecuzione del provvedimento impugnato». In ogni caso, non si è tenuto conto che l'art. 4-ter d.l. n. 51/2023 ha sospeso le disposizioni del decreto Cartabia menzionato.

Lamenta, altresì, l'erronea valutazione del giudice a quo della tardività dell'impugnazione in quanto il deposito va considerato tempestivo laddove eseguito entro le ore 24 del giorno di scadenza.

Infine, in considerazione del differimento dell'entrata in vigore del regime obbligatorio ed esclusivo delle disposizioni sui depositi telematici degli atti difensivi di cui al d.lgs. n. 149/2022 (cioè alla c.d. riforma Cartabia ‘civile'), alcuna rilevanza assume il difetto di sottoscrizione digitale dell'impugnazione da parte del difensore.

La questione

La competenza a rilevare l’inammissibilità dell’appello tardivo spetta solo al giudice dell’impugnazione o anche al giudice a quo?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte, nella sentenza n. 50474/2023, ritiene nel complesso infondato il ricorso, rigettandolo. Come vedremo, in realtà viene accolto il motivo di gravame sul difetto di competenza funzionale del giudice a quo a rilevare l'intempestività dell'impugnazione, con conseguente nullità assoluta dell'ordinanza ricorsa. Tuttavia, tale vizio non comporta il suo annullamento in quanto comunque l'appello è da considerarsi tardivo e mancante della firma digitale del giudice (causa di inammissibilità, quest'ultima, che va rilevata – come già avvenuto nella specie – dal giudice che ha emesso la sentenza impugnata).

Andando con ordine, viene dichiarato manifestamente infondato il primo motivo di ricorso in quanto l'art. 87-bis d.lgs. n. 150/2022 (introdotto dalla l. n. 199/2022), nell'attesa dell'entrata in vigore delle disposizioni previste dalla riforma Cartabia sul processo penale telematico – con particolare riferimento al rinvio dell'entrata in vigore del deposito telematico obbligatorio ex art. 111-bis c.p.p. – ha configurato un regime transitorio nel quale è consentito (come già in precedenza dalla legislazione emanata a seguito dell'emergenza pandemica) il deposito con valore legale di atti difensivi mediante invio all'indirizzo PEC dell'autorità giudiziaria cui sono diretti inserito nel registro generale degli indirizzi elettronici.

Qualora il difensore anziché avvalersi del deposito cartaceo dell'appello, decida di depositare il gravame via PEC è tenuto a rispettare le modalità prescritte nei commi 3 e 4 dello stesso art. 87-bis d.lgs. n. 150/2022, pena l'inammissibilità dell'impugnazione (nelle ipotesi descritte nel successivo comma 7), laddove:

a) l'atto non è sottoscritto digitalmente dall'avvocato;

b) l'atto è trasmesso ad un indirizzo PEC non presente nel registro appena indicato.

In entrambe le cause di inammissibilità è incappato il difensore nel caso di specie.

Ciò posto, per i giudici di legittimità fuorviante e del tutto destituito di fondamento, è il richiamo all'eccepito effetto sospensivo delle disposizioni del d.lgs. n. 150/2022 a seguito di quanto disposto dal successivo art. 4-ter d.l. n. 87/2023 (che nella prospettazione difensiva implicherebbe l'irrilevanza della mancata sottoscrizione dell'atto di appello e della possibilità di deposito mediante invio a indirizzo PEC diverso da quello indicato nel registro del DGSIA). Sospensione che nulla ha a che vedere col deposito degli atti difensivi penali previsto dalla riforma Cartabia ‘penale' e che si riferisce, invece, alle disposizioni dettate per il processo civile dal diverso d.lgs. n. 149/2022.

I riscontrati vizi concernenti la procedura di presentazione dell'appello erano sufficienti a giustificare la declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione, ai sensi dell'art. 87, comma 8, d.lgs. n. 150/2022 e, di conseguenza, risulta superfluo l'ulteriore doglianza sull'intempestività dell'appello.

In verità, per gli ermellini, il ricorso sul punto è fondato, ancorché per motivi diversi da quelli prospettati.

Pur essendo corretto – come assunto dal ricorrente – che, a norma dell'art. 87-bis, comma 1, d.lgs. n. 150/2022, il deposito telematico di un atto difensivo è tempestivo quando è eseguito entro le ore 24 del giorno in cui scade il termine fissato dalla legge per la sua presentazione (pur precisandosi che tale condizione è rispettata qualora entro il termine indicato avviene la ricevuta di accettazione del sistema informatico dell'ufficio giudiziario cui l'atto è indirizzato: così, già, Cass. pen., sez. IV, n. 31230/2023) e che il termine per proporre impugnazione inizia a decorrere il giorno successivo alla scadenza di quello previsto per il deposito della sentenza, nel caso in questione l'impugnazione era comunque tardiva. Il termine per interporre appello è iniziato a decorrere il 6 maggio 2023 con scadenza alle ore 24 del 19 giugno 2023; mentre l'invio dell'atto di appello a mezzo PEC (comunque all'indirizzo errato e non compreso nell'elenco dell'allegato al provvedimento del DGSIA del 9 novembre 2020 e con atto di impugnazione privo di sottoscrizione digitale) è avvenuto il giorno successivo alle ore 15.59 e dunque oltre il 45° giorno, risultando tardivo.

La Suprema Corte rileva che «la competenza a rilevare l'inammissibilità dell'appello per la sua intempestiva presentazione non spetta al giudice che emette la sentenza appellata, bensì al giudice di appello, posto che l'art. 87-bis, comma 8, d.lgs. n. 150/2022 riserva il vaglio di inammissibilità dell'impugnazione al giudice a quo esclusivamente con riferimento ai requisiti elencati nel precedente comma 7 del medesimo articolo ossia quelli precipuamente attinenti all'utilizzo della sua trasmissione a mezzo PEC. Sotto tale profilo, dunque, l'ordinanza impugnata è affetta da nullità assoluta per difetto di competenza funzionale del GUP del Tribunale di Terni, vizio che peraltro non comporta il suo annullamento per le ragioni illustrate».

Osservazioni

La decisione in commento conferma orientamento (ormai granitico) di Cassazione secondo il quale l'impugnazione inviata ad un indirizzo PEC non compreso nel provvedimento del DGSIA del 9 novembre 2020 costituisce causa di inammissibilità dell'atto. Tale posizione ermeneutica si era già consolidata nel periodo pandemico (Cass. pen., sez. III, n. 26009/2021; sez. VI, n. 46119/2021), nella vigenza dell'art. 24 d.l. n. 137/2020, conv. in l. n. 176/2020 (disposizione la cui vigenza è stata prorogata fino al 31 dicembre 2022).

In verità, in qualche frangente dell'emergenza da covid-19 si era sostenuto che la sanzione dell'inammissibilità andava esclusa laddove l'atto comunque pervenga tempestivamente nella cancelleria del giudice individuato ex lege, in tal modo raggiungendo il proprio scopo. Si avanzava una interpretazione restrittiva dell'art. 24, comma 6-sexies, ispirata al favor impugnationis e quindi privilegiando un approccio non ispirato ad un rigido formalismo, ma allo scopo avuto di mira dalle citate disposizioni che è quello di assicurare certezza all'identificazione del mittente, attraverso l'identità digitale delineata dall'indirizzo di posta elettronica certificata ufficialmente attribuito al difensore ed all'autenticità della sottoscrizione.

In particolare, quanto alla trasmissione dell'impugnazione trasmessa ad un indirizzo di posta elettronica non censito nell'elenco allegato al provvedimento del DGSIA in qualche arresto la Suprema Corte ha ritenuto che «essa non può essere dichiarata inammissibile se, nel termine, l'atto è comunque ricevuto dall'ufficio a quo e trasmesso al giudice dell'impugnazione. Va, ulteriormente, osservato che non può essere disconosciuto un generale principio di affidamento nelle indicazioni che, nella fase di esordio e messa a regime della digitalizzazione dei depositi per via telematica, possono essere state rese dagli uffici agli utenti interlocutori e che, ove documentate, possano aver indotto in incolpevole errore i destinatari riguardo il luogo virtuale cui indirizzare l'atto, che abbia raggiunto il suo scopo» (Cass. pen., sez. V, n. 26465/2022, con riguardo all'erronea o fuorviante informazione ricevuta dal difensore dalla cancelleria).

Siffatta opzione esegetica si riteneva allineata alla più recente giurisprudenza Europea in tema di diritto di accesso alla giustizia, ai sensi degli artt. 6 e 13 CEDU, nella declinazione espressa nella sentenza della Corte di Strasburgo nella sentenza del 28 ottobre 2021, Succi c. Italia, sul diritto ad un processo equo ad un ricorso effettivo.

Passata la fase di esordio del deposito tramite PEC, la pacifica giurisprudenza di legittimità ha cambiato rotta interpretativa sostenendo che la carenza o il vizio in merito alla riferibilità all'ufficio giudiziario dell'indirizzo PEC di destinazione pone non soltanto in dubbio l'idoneità dell'atto al raggiungimento dello scopo processuale che la legge gli affida, ma ne determina finanche l'inesistenza giuridica, collocandosi tra i requisiti essenziale dell'atto di impugnazione proposto secondo lo schema formale del deposito telematico (ex multis, Cass. pen., sez. I, n. 28587/2022).

L'orientamento cristallizzato sotto la vigenza dell'art. 24 d.l. n. 137/2020 è stato ribadito nel corso del 2023, con riguardo alla specifica causa di inammissibilità introdotta dalle disposizioni transitorie al processo penale telematico della riforma Cartabia dall'art. 87-bis, comma VII, d.lgs. n. 150/2022 (Cass. pen., sez. III, n. 32467/2023 e sez. VI, n. 33045/2023, entrambe afferenti alla materia cautelare, per la quale, com'è noto, l'atto di gravame, in deroga alla trasmissione all'indirizzo PEC dell'ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato, in caso di richiesta di riesame o di appello contro ordinanze in materia di misure cautelari, personali, o reali, l'atto di impugnazione sia trasmesso all'indirizzo di PEC del tribunale di cui all'art. 309, comma 7, c.p.p.). La formulazione della norma di ultimo conio ricalca sostanzialmente quella dell'art. 24.

Contrariamente a quanto inizialmente emerso in sede di lavori parlamentari, il legislatore ha optato per l'introduzione ex novo dell'art. 87-bis citato, in luogo della tecnica del rinvio alla disciplina emergenziale, per condivisibili ragioni di intellegibilità della norma, lasciando, tuttavia, sostanzialmente inalterata la previsione della causa di inammissibilità in esame.

Nello specifico, negli artt. 87-bis, comma 7 e art. 8, d. lgs. n. 150/2022 è stata riprodotta, con lievi modifiche lessicali, la disciplina già prevista nell'art. 24, commi 6-sexies, 6-septies.

Più precisamente, nel dettare esplicitamente la disciplina in materia di deposito via PEC dell'atto di impugnazione, sulla falsariga di quanto già previsto dalla normativa emergenziale, il nuovo art. 87-bis ha, tuttavia, limitato le cause di inammissibilità della impugnazione per via telematica rispetto a quelle già previste dal d.l. n. 137/2020. Non sono infatti menzionate, tra le cause di inammissibilità specificamente indicate al comma 7, né l'invio della PEC da un indirizzo di posta elettronica certificata non intestato al difensore né la mancanza di sottoscrizione digitale del difensore (per attestazione di conformità all'originale) sulle copie informatiche degli allegati (già espressamente previste, invece, dal citato art. 24).

Proseguendo nel percorso argomentativo della sentenza in commento, per i giudici di legittimità inconferente sarebbe poi il richiamo alla giurisprudenza secondo cui è ammissibile l'atto trasmesso ad un indirizzo PEC di un ufficio giudiziario diverso da quello che sarebbe competente, ma comunque presente nell'allegato al provvedimento del DGSIA (nel periodo pandemico l'ipotesi è stata esaminata per i procedimenti cautelari da Cass. pen., sez. un., n. 1626/2021; in questo senso anche sez. IV, n. 47192/2022 e sez. V, n. 37450/2023).

In questi ultimi (e diversi) casi non è in questione l'idoneità del luogo (fisico o virtuale) a ricevere il deposito dell'atto, al contrario di quanto accade, invece, nell'eventualità in cui l'impugnazione sia trasmessa ad un indirizzo PEC non presente nel provvedimento del DGSIA, non deputato dall'Amministrazione al ricevimento dei depositi telematici e, conseguentemente, non soggetto al controllo di personale amministrativo a ciò addetto.

Come ha specificato in più occasioni la Suprema Corte, la chiara e univoca individuazione degli indirizzi PEC riferibili a ciascun ufficio giudiziario sul territorio nazionale, contenuta nell'allegato al provvedimento del DGSIA del 9 novembre 2020, nonché la possibilità di trasmettere l'atto a uno qualsiasi degli indirizzi ivi elencati, costituiscono un adeguato contemperamento tra le garanzie difensive e le esigenze di buon andamento dell'Amministrazione.

Tale lettura interpretativa dell'art. 87-bis, comma 7, d. lgs. n. 150/2022 è conforme tanto ai principi costituzionali in tema di garanzia del diritto di difesa, quanto a quelli della giurisprudenza CEDU in punto di diritto all'accesso ad un giudice. Non vi sono limitazioni al diritto di impugnazione perché la norma regola le sue modalità di presentazione, che è materia rimessa, come tale, alla discrezionalità del legislatore; si chiede solo alla parte il rispetto di quelle regole di semplificazione e di organizzazione che servono per rendere efficiente il sistema.

Né sono rilevanti i riferimenti alle sentenze della Corte EDU, che concernono i casi in cui l'accesso all'impugnazione avvenne per interpretazioni ritenute troppo formalistiche, mentre qui l'inammissibilità è fornita di base legale, quindi specificamente prevista dalla legge ed è conforme alla ratio prima indicata (così, da ultimo, Cass. pen., sez. III, n. 44669/2023).

Stesso ordine di considerazione vale per l'altro vizio telematico riscontrato: l'appello mancava della firma digitale del difensore.

La mancanza della sottoscrizione digitale è un vizio equiparabile alla mancanza di sottoscrizione dell'atto di impugnazione redatto su supporto cartaceo e depositato o spedito per posta alla cancelleria del giudice a quo, il cui rilievo da parte dell'autorità giudiziaria, impedendo esso di collegare l'atto al suo autore, per la sua gravità, non vale ad integrare le violazioni delle disposizioni della CEDU in un primo momento richiamate dalla prima giurisprudenza pandemica (più di recente, Cass. pen., sez. V, n. 25799/2023).

I principi recepiti dall'ormai pacifica giurisprudenza di legittimità, assumono un rilievo determinante nell'evitare l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato.

Una volta accolto il ricorso per difetto di competenza funzionale del giudice a quo – in quanto, in deroga all'art. 591 c.p.p., gli è attribuito il potere di rilevare, con ordinanza ricorribile per cassazione, la inammissibilità dell'impugnazione nelle sole ipotesi previste (dapprima dal precedente comma 6-sexies ed ora) dal comma 7 del medesimo art. 87-bis, onde valorizzare la vicinanza di tale organo al sistema telematico e la immediata accessibilità, in capo allo stesso, alla verifica dei requisiti formali previste dalla citata disposizione, mantenendo in capo al giudice di impugnazione il potere di rilevare le diverse ipotesi di inammissibilità di cui all'art. 591 c.p.p. – il passaggio successivo doveva essere il ritorno al giudice a quo per verificare se ricorressero delle ipotesi di inammissibilità dell'impugnazione ivi previste.

Poiché tale valutazione era già stata compiuta, ad abundantiam dal giudice che ha emesso la sentenza appellata, in ragione dell'omessa sottoscrizione digitale e dell'invio a PEC non contenuta nell'elenco del DGSIA, non vi era nessuna ragione per far regredire il procedimento.